Cristiano Crisci in arte Clap! Clap! (o, per chi ha la memoria lunga, Digi G’Alessio) è, semplicemente, un genio. Un talento pazzesco. Ci sbilanciamo – forse il più grande in Italia, almeno sotto certi punti di vista e sotto un determinato tipo di traiettorie tra elettronica, hip hop, funk, jazz, folk planetario e follia. Se il mondo e la musica fossero un gioco a somma algebrica, la sua fama ora sarebbe enorme, sia in patria che all’estero; ma visto che non lo è, ci sono sì delle soddisfazioni comunque corpose (la collaborazione con Paul Simon, sì, quel Paul Simon, ma non solo) ma la fama globale e la stardom non è ancora pervenuta, e chissà se perverrà mai. Che dire? Amen. Quello che conta è che continua a sfornare musica a qualità sempre costante, se non addirittura maggiore mossa dopo mossa: l’ultima (per ora) non in ordine di tempo è una sapidissima collaborazione con quel gioiello nostrano che è la Four Flies, una label specializzata in gemme nascoste (sminuente spesso parlare di “library music”) che scopre e riscopre con una passione ed una competenza d’altri tempi. E che magari fa detonare con la contemporaneità: e infatti il terzo volume della serie di uscite “Italian Library Songbook” è appaltato proprio a Clap! Clap!, che ha avuto mano libera nel pescare negli archivi della label.
Il risultato? Lo potete sentire subito qui sotto. Giudicate voi – però sommessamente ci verrebbe da dire che se non vi piace, siete pazzi (…o non siete sulle pagine giuste). Subito dopo la musica, ecco una lunga chiacchierata con Cristiano, per fare il punto non solo su questa release ma su tutto questa fase della sua vita, quella artistica ma anche quella personale. La generosità con cui si offre e si racconta è notevolissima, e la dice lunga sullo spessore anche umano della persona. Lo stiamo elogiando troppo? Mah. Se lo state pensando, vuol dire non solo e non tanto che non conoscete la sua musica, ma che non lo avete mai visto dal vivo. Ancora oggi, il suo è uno dei set più entusiasmanti e devastanti possiate sentire. In assoluto, eh: non stiamo parlando solo di scala italiana.
Allora Cristiano, come va?
Benissimo! Alla grande! Sono molto felice – vabbé, come sempre, o comunque come mi sento spesso (ride, ndi). Sai, mi ritengo una persona fortunata: continuo a fare della mia passione il mio lavoro. E finché va avanti così, o almeno finché dà l’impressione di andare avanti così, io starò sempre alla grande.
Tutta questa positività e questo entusiasmo quando tu invece sei per me un artista che ha ottenuto molto meno di quello che meritava, in proporzione allo smisurato talento che hai.
Ma no! Va benissimo così. Va benissimo così com’è ora. Non voglio niente di più quello che ho, credimi. Lasciatemi qui, lasciatemi a questo livello! Non voglio mica fare la fine delle rockstar, che sono famosissime sì, ma poi finiscono male… E poi guarda, questa identità artistica a nome Clap! Clap! è qualcosa in cui sto davvero bene. È il mio gioiellino, faccio uscire cose solo quando voglio, non voglio che ad essa sia legata la mia sopravvivenza, e che quindi sia forzato a far uscire con quel nome cose che non voglio e che non mi rappresentano. Che poi i confini sono sempre molto larghi: mi piace buttarmi nelle cose, mi piace esplorare, lo sai, non lo dico tanto per dire, ho sempre abbastanza spazio su cui muovermi e attraverso cui non annoiarmi, non ripetermi. Ad esempio ora sta uscire la mia collaborazione su una label inglese con Sanbörn, e lì invece più che da produttore ho fatto proprio da musicista, ho suonato io in prima persona un sacco di strumenti, un po’ un ritorno al passato.
(…e nel frattempo, al pascolo! Continua sotto)

Beh, tanto per scompaginare ulteriormente le acque, l’ultima impresa in cui ti sei lanciato – che poi è il motivo ufficiale per cui è nata questa chiacchierata, ovvero la serie “Reloved” di Four Flies – ti vede invece lavorare molto proprio coi campionamenti. Forse come mai in passato, o comunque con un taglio un po’ diverso rispetto al solito, anche perché pescavi da un bacino sonoro ben preciso.
Esatto! Ma come potevo dire di no? Le compilation come quelle che fa Four Flies fin da quando ero ragazzino mi aprivano un mondo. Quante volte mi sono trovato ad esclamare “Oh, ma senti che roba… Ed è pure italiana!”. Credo tra l’altro che sia proprio grazie a dischi come questi che ho deciso di fare il dj, e ho arricchito quindi il mio personale bagaglio espressivo, arrivando così più facilmente a vivere di musica. Capisci insomma che quando Pier (Pierpaolo De Sanctis, il fondatore della Four Flies,ndi) mi ha contattato per chiedermi se mi andava di fare un lavoro di ricerca attigendo dalla loro library, io ho esultato. “Ecco”, mi sono detto, “questa sì è una cosa in cui è bello portare il nome di Clap! Clap!”. Però al tempo stesso mi ero subito imposto di avvicinarmi con molta umiltà a questa incredibile ricchezza sonora: il primo obiettivo è sempre stato non snaturarla. Quindi se magari il “solito” Clap! Clap! si sarebbe concentrato soprattutto sulle parti percussive, attingendo da lì, avrei probabilmente stravolto un po’ troppo l’identità originaria del materiale: e no, questo non doveva accadere. Volevo che continuasse a brillare l’incredibile qualità compositiva di ciò da cui stavo attingendo. Del resto quando puoi prendere da Morricone, Emiliani, Piccioni… no? Questo giusto per stare sui nomi più conosciuti, ma in realtà ce ne sono tanti, tantissimi. Ecco che quindi per questo lavoro sono uscito dalla mia comfort zone: non sono andato a planare sui suoni da cui di solito prendo, su cui di solito baso il mio processo compositivo. È stato un po’ come scrivere con la sinistra quando di tuo saresti destro, non so se mi spiego.
Perfettamente.
Ma così è bellissimo. Va assolutamente fatto ogni tanto: scopri strade che non pensavi di percorrere ma che ti piacciono un sacco, ti fanno stare proprio bene come persona, oltre che come musicista.
La stai facendo facile, ed è la classica cosa col senno di poi ed a fatica finita; ma ehi, la verità è che uscire dalla comfort zone non è, per l’appunto, per nulla confortevole – almeno all’inizio.
Eh sì, vero. Perché queste strade “nuove” che scopri, almeno all’inizio, non sono mai in discesa, mai! Sono in salita. E fatichi. All’inizio un sacco di volte ti capita di dirti “Ma chi me lo fa fare? Ma perché?”: non lo nego. Però è come andare in palestra, immagino: e dico “immagino” perché io in palestra non ci vado, guarda che panzetta che ho messo su da quando mi sono trasferito a Bari (ride, ndi)… All’inizio sudi e imprechi, ma non molli: perché sai che alla fine di questo percorso vedrai degli effetti positivi su di te. Poi magari non diventerai chissà cosa, non ti cambierà la vita; ma di sicuro molto meglio provare a faticare che stare tutto il tempo seduti in poltrona. No? Quindi ecco: vai, ti ci metti, tenti una, due, tre, quattro volte gli esercizi; e anche se all’inizio fatichi come una bestia, sei convinto che ne valga la pena – e alla fine scopri che è stato davvero così.
Per quanto mi riguarda vale sempre la pena che non tu stia “in poltrona” ma vada “in palestra”: altra cosa recente in cui ti sei messo fuori dalla tua comfort zone è stata la collaborazione coi Casino Royale per “Fumo”, disco che per inciso – anche grazie al tuo contributo – per me continua ad essere il disco dell’anno, in questo 2025.
Ma vedi, io e Alioscia ci conoscevamo da un sacco di tempo e, penso di poterlo dire, anche con un sacco di stima reciproca. Che poi sia chiaro: io, rispetto alla storia dei Casino Royale, non sono nessuno. Loro è dal 1987 che lasciano il segno! Fanno parte della mia biografia sonora personale da sempre. Sono incredibili. È successo ad un certo punto che io e Alioscia ci siamo trovati a lavorare assieme, grazie a Nico Ferri ed a Open Sound a Matera, facendo una ricerca sulla tradizione musicale della Lucania; ci siamo trovati benissimo assieme, restando poi sempre in contatto. Tant’è che qualche tempo fa mi scrive Alioscia e mi fa “Oh, potresti fare qualcosa per Casino Royale, che ne pensi?”. Che ne penso? Penso che sarebbe un onore enorme! E penso che ci sono delle affinità, tra me e lui: perché entrambi abbiamo fatto un percorso musicale molto lungo, che è partito dal punk ed ha toccato diverse tappe, a partire dall’hip hop. Entrambi insomma siamo degli esploratori. E quindi, un giorno Alioscia mi chiama e mi fa: “Ti mando quello che ti abbiamo fatto. Dimmi onestamente che ne pensi”.
E?
E, era una cosa meravigliosa! Una traccia unica, di ventotto minuti e passa: un vero e proprio viaggio, anzi, quasi un sogno, da quanto era bella e potente come musica. Era affascinante anche la struttura: perché appunto era un tutt’uno, elementi sia musicali che testuali ricorrevano, apparivano cioè all’inizio per poi ricomparire alla fine; e tutto questo dicendo pure cose molto, molto importanti. “Ali, è bellissima, sì, ti prego, fammici mettere mano, posso?”.
Hai potuto.
Ovviamente io ho fatto subito me stesso, e in poco tempo gli ho mandato dieci versioni diverse della cosa, da quanto ero esaltato (ride, ndi). È stato amore a prima vista, musicalmente. Davvero. Il tutto alla fine è cresciuto fino a una quarantina di minuti; Filippo Palazzo di Asian Fake ha dato la giusta indicazione di dividere comunque in tracce separate, pur mantenendo le struttura circolare e ricorsiva, per dare comunque dei punti di riferimento all’ascoltatore. Mi sono sentito come quando ho collaborato con Paul Simon, sai?
(Guarda in alto, semi-cit.; continua sotto)

Oh, hai tirato fuori una cosa non da poco.
Esattamente come lì, quando cioè mi sono trovato a lavorare con Paul, in “Fumo” mi sono detto che non dovevo stravolgere nulla, no, mi dovevo solo mettere al servizio di qualcosa che era già bellissimo. È stato facile scegliere di fare così, visto appunto il rispetto enorme che ho da sempre per la storia ed anche per il suono dei Casino Royale.
Come ti sei mosso, di preciso?
Il contributo che ho provato a dare era proprio quello che, nelle intenzioni, serviva a riaffermare ulteriormente la forza delle loro radici sonore, capisci? Ma non un semplice “back to the roots”, attenzione, perché comunque non è per nulla un disco nostalgico nei suoni. No: ho voluto calcare molto su un certo tipo di identità e di patrimonio stilistico, pur attualizzandolo ai suoni di oggi.
Ci sei e ci siete riusciti alla grande, per me.
Siamo molto felici del risultato, e siamo molto felici perché dei feedback positivi sono arrivati sia dagli ascoltatori storici che da generazioni nuove e molto giovani. Se con gli ascoltatori storici magari un po’ te lo aspetti, coi ragazzi di vent’anni è invece molto più complicato: anche perché “Fumo” non era e non è un disco semplice. Non è che lo puoi ascoltare spensieratamente. Ha molto spessore, dice parecchie cose.
Sia come testi che, aggiungo, perché questa è la parte che più ti riguarda, come pasta sonora.
La cosa che amo di più in Alioscia, ma direi proprio in tutte le persone quando si riuniscono sotto il cappello Casino Royale, è il fatto di avere ben chiaro in testa un messaggio, e di mettersi al suo servizio lavorandoci sopra, mettendolo in primo piano, senza per questo rinunciare a rifinire tutto musicalmente. Ora, senza voler fare critiche a nessuno, ma mi sembra che oggi lo facciano in pochi. Sbaglio?
Mi piace molto fare il produttore, vero, ma non mi sento pronto a farlo diventare la mia attività principale. Perché mi diverto ancora troppo a portare in giro la mia musica dal vivo
Forse no… Ad ogni modo: ti piace, questa cosa di fare da produttore.
Mi è sempre piaciuta. Mi è piaciuta quando l’ho fatto per Paul Simon, quando l’ho fatto per Marco Mengoni, quando l’ho fatto per Glass Animals, tanto per farti tre esempi molto diversi fra loro. Mi piace non confinarmi in un campo delimitato, mi piace poter spaziare dall’underground al pop, quando lavoro con altri. Chiaro: questi altri devono avere delle qualità di un certo tipo.
Ovvero?
Amare la musica. Amarla profondamente. Sì, anche Mengoni è così: dall’esterno si percepisce solo il suo essere un artista pop, quando in realtà è uno con cui puoi fare discorsi bellissimi, parlando di musica. Un esempio super in tal senso è Mace, lavorare con lui è fantastico: per il talento incredibile che ha, ma anche per la sua capacità di stare dentro il pop senza sacrificare nulla del suo amore e della sua curiosità per tutto ciò che è underground. Però, a essere sincero…
…sì?
…ecco, diciamo che mi piace molto fare il produttore, vero, ma non mi sento pronto a farlo diventare la mia attività principale. Perché mi diverto ancora troppo a portare in giro la mia musica. E, per fortuna, riesco ad avere ancora molte date in giro. Mi piace viaggiare, mi piace interagire col pubblico che ho di fronte e che è lì per me, mi piace tanto; poi sì, lo so, probabilmente prima o poi arriverà il giorno che – magari a sessant’anni – mi sarà stufato di prendere un Ryanair alle sei del mattino tutto sudato e stravolto, andando direttamente dalla venue al volo. Arriverà. Ma ora come ora, ad ogni mia esibizione dal vivo faccio davvero il pieno d’amore grazie a chi mi sta di fronte: è una sensazione che trovo impagabile. So però una cosa, attenzione: per fare bene tutto, devi sapere quando è il momento di dedicarsi ad una cosa o all’altra. Quando produco, insomma, evito il più possibile di andare in giro a suonare.
(Però quando suona in giro, come qua dieci anni fa alla Boiler Room, spacca tutto; continua sotto)
A proposito di capacità di gestirsi e di analizzarsi, ti faccio una domanda quasi da lettino dello psicanalista: metti cosa che ora tu sei Cristiano Crisci il produttore…
…ok…
…e ti arriva davanti un Clap! Clap!. Che fai? Come ti comporti?
Lo ammazzerei! (risate, ndi) …io da produttore lo ammazzerei, perché mi troverei di fronte un esagitato – quale io sono, da sempre, quando suono. Io quando suono mi carico di energia, di input, di idee; tant’è che ogni tanto tutta questa abbondanza crea un imbuto, da cui poi non sempre è facile sbloccarsi. Ecco, da produttore mi direi: “Stai calmo, lavora su una parte alla volta, su una idea alla volta, vedrai che alla fine il risultato ti piacerà molto”. Ma non mi interessa. Da musicista, voglio continuare ad essere esagitato, perché è il mio limite ma anche alla mia forza, è quello che ogni tanto mi permette di arrivare a soluzioni a cui altri non arriverebbero. Poi arriverà il momento in cui mi schianterò contro un muro e allora sì, capirò che è il momento di darsi una calmata. Ma questo momento purtroppo non è ancora arrivato.
Però ehi, al contrario di altre volte ti vedo molto più sereno, molto più contento…
Hai ragione. Quello che in passato posso aver sbagliato, e che mi ha realmente creato problemi, è essere stato troppo orgoglioso, aver peccato proprio di ego, in alcune scelte fatte. Potessi, tornerei indietro a certi momenti e sì, agirei in un modo completamente diverso: ci sono stati dei momenti che era come se fossi accecato, ora ne sono consapevole. Ero troppo presuntuoso. Tant’è che oggi mi capita di rivedere lo stesso tipo di errore in altri artisti e, insomma, provo a metterli in guardia: “Guarda, te lo dico proprio perché ci sono passato anche io: attento”. Ad aprirmi gli occhi è stata la collaborazione con Paul Simon: di gran lunga il musicista più famoso con cui abbia mai lavorato ma, guarda un po’, probabilmente anche il più umile. Se è umile lui, come posso permettermi di essere presuntuoso io, di credermi chissà cosa, di credermi meglio degli altri? Cioè, capisci: Paul Simon, uno dei musicisti più famosi viventi, che si mette ore ed ore a parlare di musica con me in una stanzetta d’albergo… Lì ti rendi conto che per lui è la musica è una questione di cuore; e se lo è per lui, come diavolo fa a non esserlo per te?
Che poi tu a lungo sei stato una fiammeggiante “giovane promessa”, un outsider che faceva cose notevolissime e che arrivava da chissà dove, ma ormai è troppo anni che sei in giro per essere ancora outsider e “giovane promessa”.
Ma è normale, ed è giusto così.
Sì?
È il percorso che fanno tutti. Ed è un percorso fatto ovviamente di alti e bassi, di momenti buoni e altri no. Ma come ti dicevo all’inizio, non per forza a stare più in alto si sta meglio. Come si dice? A stare più in alto sulla montagna, tira più vento… Poi: ci sono artisti che sono bravissimi ad arrivare in alto ed a restarci, ed a loro posso solo fare i complimenti; e ci sono invece quelli come me, che sono più petali al vento, che magari hanno avuto anche un momento in cui erano molto in alto – molto più in alto rispetto a quanto pensavano di essere – e poi però non hanno saputo tenere quella posizione, perché non erano tagliati per farlo. Non è un problema. Basta essere consapevoli di chi si è veramente, basta non tradirsi come artista e come persona. Ecco perché ti dicevo che oggi più che mai voglio mantenere l’entità Clap Clap! come qualcosa di “puro”, come qualcosa che porto avanti solo quando sento che mi rappresenta al cento per cento e che sta tirando fuori il meglio di me. Non sono mai arrivato a vette altissime, nella mia carriera? Forse. Ma ecco… non è un problema. L’unica cosa che conta è che portare avanti Clap Clap! è stato bello fin dall’inizio, e non è mai stata “sporcata” come avventura. Poi c’è un altro aspetto importante.
Quale?
In questo modo, per dire, non ti capiterà mai di doverti rifugiare nel passato per trovare una purezza e una gioia che senti di non avere, o di non avere più, di avere compromesso. Non voglio criticare chi si diverte a recuperare vecchi stilemi, per carità; ma bisogna stare attenti a non farsene fregare, bisogna essere sicuri che si fanno le cose col cuore, non per calcolo o disperazione. E poi sai, uno può guardare al passato senza per questo fare una musica che sia prevedibile, calcolata: pensa al lavoro di Giulio (Go Dugong, ndi) sulla musica tradizionale del Sud italiano, pensa anche – per fare un esempio più pop, che sta funzionando tantissimo e miete sold out – a La Niña. Lì il rapporto col passato serve comunque per creare una musica che sia viva, pulsante, e al tempo stesso il mescolare la modernità con la tradizione è fatto sempre con una grande attenzione a non trascendere nel pacchiano, nel tamarro. Meno male che ci sono musicisti così, ancora.
Domanda finale: in una notte in cui hai bevuto troppo, ad un certo punto ti hanno fatto firmare un contratto in cui sei obbligato a fare un joint album. Una cosa insomma che non è solo tua, e che ti mette molto più in primo piano che a fare solo il produttore, o il remixer. Con chi lo fai, questo disco?
Coi P38.
Non me l’aspettavo, come risposta. Ma è fantastica.
Ora più che mai abbiamo bisogno di qualcuno che scuota le coscienze: non credi? E poi, il mio cuore è sempre stato a sinistra…