Una delle cose più belle dell’edizione 2024 di Electropark, per quanto ci riguarda, era stata una sognante ed intensa esibizione di Lowtopic, alias Francesco Bacci, sulla di Galata, il Museo del Mare di Genova. L’aspettavamo con curiosità; perché questa storia del musicista che abbandona una band – nello specifico gli Ex-Otago – proprio nel momento di maggior successo della band suddetta, dopo essersi fatto tutti gli anni di gavetta, non poteva non incuriosire. Vederlo dall’essere un chitarrista in un una band indie-pop al ritrovarsi alle prese con una tonnellata di synth (sì, c’era un mare di strumentazione analogica, altro che concertini in the box) è stato sorprendente, e davvero bello. Così come poi è sorprendente lo spessore umano di Francesco, che via via ho approfondito nei mesi, anche considerando che c’è lui dietro ad un più deliziosi e a suo modo coraggiosi boutique festival italiani, Boem (lo citavamo nel nostro articolone sui festival estivi). Inevitabile arrivare prima o poi a farsi una chiacchierata a registratore aperto. Chiacchierata illuminante: perché è ancora possibile fare discorsi ad alto tasso di umanità, è ancora possibile avere un rapporto lucido e disincantato con ciò che è il mestiere di musicista, è ancora possibile avere fiducia nella musica elettronica e nel suo potere di rigenerare le persone.
Allora, guarda: vorrei partire dal fondo. Ovvero, da come collocheresti “Places” all’interno del tuo viaggio artistico.
Potrei risponderti in due modi: uno grandioso e retorico, dicendoti che è una pietra miliare della mia discografia, che rappresenta un grande cambiamento; e uno invece minimalista ed autosminuente, tipo “Boh, erano solo tracce che non avevo voglia di tenere sul mio hard disk ed allora le ho fatte uscire”. Quale preferisci?
Partiamo col primo.
Il nostro comune amico Emilio Pozzolini un bel giorno viene da me e mi fa “Senti, basta con la cassa dritta, ti prego. È la tua coperta di Linus. Fai un giro, butti giù gli accordi, ci metti sopra la cassa dritta e voilà, tutti contenti”.
Eh, ma quasi tutti fanno così. E, onestamente, funziona.
Se mi dicono come avere la certezza che le cose funzionino, guarda che lo faccio subito. (ride, ndi)
Qui invece forse è più difficile… (altre risate, ndi) Funziona, sì, ma non sempre sempre, ecco.
Parlando seriamente: avevo voglia di esplorare il linguaggio del breakbeat, cosa che prima non avevo mai fatto realmente. D’altro canto in tutto il mondo da un po’ di tempo c’è questa ondata di UK garage e derivati, l’ennesimo revival travestito un po’ da novità…
…vero…
…però è un linguaggio che comunque mi colpisce, mi ha incuriosisce. E dato che a me piace copiare le persone, mi piace imparare dagli altri, mi piace individuare dei riferimenti specifici e poi provare a rifarli, mi sono detto: voglio farla anche io, questa cosa qua, e vediamo se riesco a farla bene. Quindi invece di fare come in passato, quando partivo essenzialmente da giri di accordi, lavoravo sull’armonia, perché come sai come background sono “uno da band”, a ‘sto giro ho iniziato a pensare ad una musica dove le voci e la melodia fossero lo snare, il kick e l’hi hat. Invece di chiamare dei miei amici ad incidere delle tracce vocali, ho fatto insomma “cantare” la ritmica. Come sempre, ho fatto tipo centomila bozze per arrivare ad avere alla fine qualcosa come cinque pezzi: non è che questo cambio d’approccio mi abbia semplificato le cose, diciamo (ride, ndi)… Ho proprio spaccato il capello in quattro, facendo ricerca timbrica su questa ossatura del ritmo. Ecco, questa è la risposta “grandiosa”.
L’altra, invece?
L’altra è che quest’anno ho aperto la mia etichetta, e mi sono detto: se dovessi mandare un demo alla mia etichetta oggi, in questo momento, che demo manderei? E la risposta a questa domanda è stata: “In questa label forse manca un po’ di linguaggio UK, anche un po’ downtempo. Provo a mandare questo!”.
(“Places”; continua sotto)
E come a&r della tua label, questo demo che ti sei mandato ti ha soddisfatto quindi… (risate, ndi)
Al di là dei breakbeat, che è un primo elemento caratterizzante, altra cosa che ho fatto – e che raramente in passato invece era stata una mia scelta – ho messo dentro parecchi sample vocali. Sample presi un po’ dappertutto: mascherati, rubati, presi da messaggi di amici, addirittura io stesso che mi campionavo storpiandomi un po’… Però per capire bene che fase sto attraversando, bisogna parlare del mio studio.
Beh, siamo qui per questo, per capire bene le cose.
È stato un anno di grandi cambiamenti. Ho rinnovato questo mio studio, che è sotto casa dei miei genitori ed è stato per un bel po’ anche la sala prova degli Ex-Otago. Ma il punto è che in quella casa lì abitava mio nonno: quindi stando io lì con lo studio di registrazione, a lungo ho avuto il piacere che, nelle pause, potevo godermi del tempo passato con lui. Di regola, pranzavamo assieme. La giornata era che mi svegliavo, portavo i bambini all’asilo, lavoravo in studio, pranzavo con lui, poi proseguivo a lavorare. Era molto bello. Purtroppo, è venuto a mancare. Del resto ci sta, aveva novant’anni, è nell’ordine delle cose, ma ovviamente il fatto di non poter più passare questo pezzo della mia quotidianità con lui, un pezzo a cui mi ero affezionato davvero tanto, mi ha lasciato un vuoto gigante. Lì mi sono ritrovato a chiedermi: “Ma io voglio stare qui? Voglio continuare ad avere lo studio in questo posto? E, allargando l’obiettivo, perché in realtà sarebbe onesto farlo: ho voglia di restare a Genova? Ho voglia di continuare a fare quello che faccio, continuare a fare questo lavoro?”.
Le risposte?
Non ci sono, non sono arrivate. E ti dirò: probabilmente se fossero arrivate avrei già smesso di fare musica. Ma io nemmeno pretendevo che arrivassero, sia chiaro. Intanto mi ponevo le domande.
(Lowtopic pensieroso, nel suo studio; continua sotto)

Tra l’altro, prima come battuta scherzosa – ma nemmeno troppo scherzosa – hai messo in campo il concetto del “copiare” nella musica elettronica e appunto, è una cosa che è regola, anche se fa brutto dirlo – nella musica elettronica si copia infatti tantissimo. Sono io che allargo l’obiettivo allora, partendo da questo, e ti chiedo: quanto è diventato conservatore il mondo della musica elettronica? Quanto si è fatto refrattario al coraggio ed agli stravolgimento, facendosi invece amante invece dei solchi più affidabili, collaudati e già tracciati?
Molto conservatore e manierista.
Ecco.
Forse, proprio reazionario.
Bene. E tu, proprio in un mondo che è così, ci sei entrato a pie’ pari, abbandonando il resto. Bravo!
Ma vedi, io credo che ci sia anche un lato davvero positivo nel copiare.
Spiega.
Penso che individuare un riferimento e lavorare attorno ad esso non sia per forza una cosa sminuente, anzi: è una pratica positiva scegliere un riferimento, e provare a lavorarci sopra. Che poi, questo è un argomento che ho affrontato parecchio quando mi sono ritrovato a fare un dottorato in Storia dell’Architettura: vedi, lì si arrivava a dire che l’attribuzione di valore che viene data quando qualcosa è “nuovo” è una attribuzione falsa, fugace, perché la novità nel momento stesso in cui appare subito dopo smettere di essere tale. Se il valore di qualcosa è dato essenzialmente dal fatto di essere “nuovo”, cosa succede quanto questo attributo viene fisiologicamente a mancare dopo pochissimo tempo? Ma se qualcosa è fatto bene, farne delle copie – non pedisseque, sennò siamo nel manierismo sterile – è un modo per attribuire e mantenere del valore per loro. La scena elettronica cosa fa, se ci pensi? Aderendo alla logica del mercato, perché lo fa, prende una cosa che funziona e la replica, la replica il più possibile. Il problema è quando la replichi non perché ti piace, perché la reputi bella, ma semplicemente perché “funziona”. Nell’elettronica c’è veramente questa ossessione del “questo adesso funziona”. Vedi quante repliche di Fred Again ci sono improvvisamente…
(Una bella versione dal vivo di “Ostkreuz”; continua sotto)
Provo a fare l’avvocato d’ufficio dell’elettronica: essendo una musica nata in qualche modo per i dancefloor, ha insita nel DNA una componente di crowdpleasing. No?
Vero. Ma voler solo ed unicamente compiacere è l’antitesi della ricerca; e, aggiungo, è l’antitesi di quello che interessa a me. Ho abbandonato una comfort zone in cui stavo benissimo proprio perché, dalla prospettiva in cui stavo, l’elettronica per me era una sfida. Era voler provare a fare qualcosa di diverso e, per me, “difficile”. Però guarda, penso che in realtà un errore in cui si cade spesso è quello di guardare solo alla punta dell’iceberg, ovvero alle cose più visibili in superficie, a quelle più sotto hype: in realtà la musica elettronica in questi anni è piena di fermento, di innovazione, di cose interessanti – o almeno a me risuonano come tali. E non è solo questione di “essere emersi” versus l’”essere underground”, no, non è quello: prendi okgiorgio, che ormai è emerso eccome. Lo vedi dappertutto, però in lui sento comunque un’urgenza espressiva, una voglia di metterci qualcosa di suo, cercando una via inedita e non banale. Lui lo stimo tanto. E cito lui per farti un nome: potrei citarne molti altri. Mentre l’indie…
…sì?
L’indie ad un certo punto è diventato una barca su cui tutti volevano salire. Stava diventando tutto un’imitazione di qualcosa che esisteva già – e che stava funzionando, quindi era “inevitabile” e magari consigliabile imitarlo. Lì ho capito che dovevo cambiare direzione. La mia intuizione era stata che una nuova voglia di indipendenza e di underground sarebbe arrivata dall’elettronica. Non so, forse mi sono illuso, o forse è semplicemente una cosa di cui mi sono auto-convinto: perché comunque dentro di me volevo iniziare a fare musica elettronica e allora mi sono “costruito” una spiegazione per questo desiderio (sorride, ndi)…
Resta il fatto che sei sceso dal treno dell’indie proprio quando ha iniziato a marciare veloce, a macinare fatturati, a rendere la vita più comoda per chi ci stava dentro da prima: ovvero da quando era ancora tutto uno stare su sedili di terza classe, percorrendo tratte che sembrava non si filasse nessuno. Mentre negli ultimi anni fare indie è spessissimo la via breve alla popolarità.
Già.
(Cosa è successo nel frattempo; continua sotto)
Hai mai avuto dei rimpianti?
Solo dal punto di vista strettamente umano: mi mancano certe quotidianità coi miei amici. Ma dal punto di vista artistico, creativo e progettuale – no. Assolutamente no. Sono straconvinto di aver fatto la scelta giusta. E sai perché? Perché oggi mi sento meglio di allora.
Insomma, sei un piccolo Frusciante di provincia, tu che esci dal gruppo…
Sì, ma senza essere tossico! (risate, ndi) Grazie al cielo non sono mai stato eroinomane. E, nemmeno uno che faceva assoli (altre risate, ndi)
Frusciante poi nei Red Hot Chili Peppers c’è tornato, detto per inciso…
Io sto bene come sto. Spesso le persone hanno paura dei cambiamenti: io, no. Io ancora adesso sono felicissimo di aver avuto il coraggio di cambiare. Forse mi sono complicato la vita, sotto certi punti di vista, va bene; ma mi sento veramente sereno. Nonostante le difficoltà.
Che poi, una persona molto importante per te come riferimento artistico – e credo anche umano – è Emilio Pozzolini, già citato prima. Quell’Emilio Pozzolini che era colonna di quei Port-Royal che sono un clamoroso what if della musica italiana, elettronica e non solo, almeno secondo me: sono un gruppo che magari avesse fatto oggi le stesse identiche cose che aveva fatto all’epoca, quando erano al massimo della loro attività, sarebbero adesso molto più conosciuti e riconosciuti, anzi, sarebbero molto celebrati, sarebbero visti come dei padri nobili della scena.
Già. Potrebbero essere delle piccole leggende nazionali, padri di una scena che hanno contribuito in prima persona a far nascere, e suonare oggi nei festival principali. Come mai questo non sia accaduto, non lo so. Forse non è accaduto perché loro stessi non lo volevano, non si “sentivano” in quella pelle. Quello che conta è il principio: ovvero, che è inutile piangersi addosso, è inutile pensare “Eh, avrei meritato di più”. È la cosa proprio più inutile in assoluto. Ma sai perché? Perché più ti lamenti che non ti è stato dato abbastanza negli anni, più la gente tende ad allontanarsi da te – e quindi diventa ancora più improbabile che tu riesca a raccogliere qualcosa. E sai cosa? È giusto così. Cosa speri, che la gente venga da te e ti dica “Oh poverino, tu avresti meritato tanto, dai adesso ci penso io”? No: l’unica speranza sta nel darsi da fare, nell’essere tu a tentare di farti vedere, sentire, riconoscere, senza aspettare improbabili regali del caso. È difficile? È sicuramente difficile. Ma sta di fatto che l’umanità non sta lì ad interrogarsi sulle tue sorti, a chiedersi se tu come musicista hai avuto di più o di meno di quanto meritassi: la vita va avanti, per tutti.
(Lowtopic ed Emilio Pozzolini in azione a due, coi visuals di Nicola Villa; continua sotto)
Siamo tutti incasinati, pieni di impellenze quotidiane.
Esatto. Sta allora a te avere la voglia di non smettere di raccontare che sì, hai una storia da portare avanti, hai qualcosa da dire. Però dovresti anche avere l’onestà e la lucidità di capire se questa storia interessa davvero, e a quante persone potrebbe interessare. Avere un approccio così, un po’ più consapevole ed autocritico, potrebbe mettere una pezza alla crisi di sovraproduzione che stiamo vivendo in questi anni, col fatto che ora fare musica è diventato molto più facile e molto più economico rispetto ad un tempo. Quindi ecco, riassumendo: dovresti arrivare a sentire non solo la voglia di farti sentire, di raccontare qualcosa in musica, ma proprio l’urgenza, un’urgenza bruciante, capendo al tempo stesso se tutto questo ha un minimo di rilevanza. Mi chiedevi prima se avevo qualche rimpianto…
Esatto.
In realtà qualche rimpianto l’ho avuto, ma per motivi ben precisi. Non suono più in una band e questo un po’ mi dispiace, faccio meno concerti rispetto a prima e questo un po’ mi dispiace, vedo meno i miei amici di una vita e questo un po’ mi dispiace. Vero. Ma tutto questo, che non è che non ci sia, conta comunque un po’ meno rispetto al fatto che finalmente ero e sono io a scegliere, ero e sono io a scegliere cosa voler fare in musica, che scelte effettuare, che direzioni prendere. Nessuno che mi aiuta, nessuno che mi dà suggerimenti, nessuno che mi tira per la giacchetta. Guarda, io ho sempre sognato di fare il musicista, fin da piccolissimo, e inizialmente non mi ero nemmeno posto il problema se dovesse diventare una professione o meno. Ma ti posso dire che ad un certo punto, proprio facendo una scelta apparentemente discutibile e che sembrava un passo indietro, ho capito che finalmente, dopo tutti questi anni, la mia musica la stavo scegliendo io, la sceglievo io per me, attivamente, consapevolmente, intenzionalmente, non mi stava solo – come dire? – capitando addosso.
(Scegliere di farsi attorniare da synth analogici; continua sotto)

Che poi, torno su questo punto, hai fatto questa scelta proprio quando nel tuo ecosistema precedente, quello indie, iniziavano ad arrivare i soldi veri, dopo tanta gavetta.
Già. Tant’è che quando io avevo iniziato a fare musica, ero abbastanza convinto che la cosa non sarebbe mai potuta diventare un lavoro vero. Ma questo semplicemente perché mi guardavo attorno: nessuno riusciva a viverci, della propria musica, nelle scena pop indipendente italiana dell’epoca. Nessuno. Anche i gruppi più in voga, quelli di cui nella scena parlavano tutti e che erano considerati dei maestri, facevano le date a 400 euro, a malapena ci rientravano con le spese, girando tra l’altro col monovolume che gli avevano prestato i genitori, manco noleggiando un furgone. Non è un caso infatti che, parallelamente al fare musicista, io ho ben portato avanti il mio percorso di formazione personale, facendo tutt’altro, arrivando a laurearmi in architettura. Mi è sempre piaciuta l’architettura, tanto!, tant’è che ero convinto che alla fine la mia identità professionale si sarebbe realizzata in quell’ambito lì. L’idea era di fare carriera nell’università. Lì però è successo il paradosso: iniziando a lavorare in ambito universitario, i lavori sono sempre stati sottopagati o addirittura non pagati e basta; ed è una trafila che chi vuole fare carriera accademica e non ha subito santi in paradiso conosce molto bene. Contro ogni previsione, la musica invece ha iniziato ad essere remunerativa, ad essere lei quella che mi paga le bollette e che addirittura mi permette di farmi un mutuo.
Paradosso meraviglioso.
Già! Ti rendi conto? Per permettermi di portare avanti il lavoro “serio” dovevo fare il musicista – cioè un lavoro “non serio” – per mantenermi: perché solo così riuscivo a trovare le risorse per arrivare a fine mese.
Assurdo.
Già.
Poi però ad un certo punto, non contento di questo paradosso che poi era un paradosso felice e fortunato, decidi di scompaginare tutto.
A posteriori, ma solo a posteriori, ti posso dire che ho avuto proprio un’epifania.
Racconta.
COVID. Il mondo di ferma. Si ferma nel momento in cui aveva appena comprato casa, grazie al famoso mutuo, e con la mia compagna stavamo aspettando la nostra prima figlia: ecco, esattamente in quel momento lì si ferma tutto. Se è per questo, si ferma anche ovviamente la collaborazione con l’università, le lezioni non ci sono più, la mia presenza non è necessaria. Con una casa appena comprata e una figlia in arrivo, mi ritrovo senza ben due lavori. Ma proprio questo momento di nulla mi permette di fermarmi un attimo e di chiedermi: ma io, alla fine, che lavoro faccio veramente? Anche perché, nel momento in cui nasce la bambina, capisco subito che non potevo continuare a fare più cose in parallelo: volevo stare di più a casa, non in studio o in qualche ufficio. Prima avrei lavorato anche venti ore al giorno, fuori da casa; improvvisamente questa non era più un’opzione, per nessun motivo al mondo lo avrei più accettato. Dopo la nascita della bambina, poco dopo è arrivato un fratellino, quindi figurati. “Devo capire bene come organizzare il mio tempo, devo capire bene cosa fare, su cosa concetrarmi”, mi sono detto. E lì ho deciso: scelgo la musica.
Ma lasci gli Ex-Otago.
Già. Un paradosso: scelgo definitivamente di fare il musicista, e però questa scelta la metto in atto rinunciando volontariamente al lavoro che in quel campo avevo già.
Ecco.
Ma come ti dicevo prima: il concetto chiave era, finalmente, scegliere, scegliere io in prima persona. Lasciare gli Ex-Otago, è stata una scelta.
E quindi dimmi: si può sopravvivere da musicisti, in Italia? A maggior ragione dopo aver rinunciato già una volta ad una posizione buona nel settore, cosa che spesso non viene perdonata?
Sì. Si può. Chiaro, devi ampliare un po’ lo spettro di cosa significhi essere “musicista”: oggi è molto difficile sopravvivere da musicisti nell’accezione che usavamo alla cose negli anni ’80.
Se avessi venticinque anni ti direi che sì, è necessario spostarsi, è giusto spostarsi, cambiare città. Ora che ne ho invece trentasei, che ho una famiglia, dei bambini, devo dire che ho imparato ad apprezzare il gusto della quotidianità e delle piccole cose. La conseguenza è che arrivo in studio sereno, disteso. Non ci arrivo mai da incazzato o da frustrato
Mi ricorda il giornalismo: oggi per sopravvivere come “giornalista” non basta fare quello che si faceva negli anni ’80, vita da redazione o da collaboratore fisso insomma. Devi imparare a giocare su più tavoli professionali.
Esatto. Dopodiché chiaro, nel mio mondo dei sogni io arriverò a mantenermi facendo solo la musica che piace a me, nei modi che voglio e nei tempi che più preferisco. Ma in realtà non è nemmeno necessario. Per me è stato bellissimo scoprire il mondo delle colonne sonore: ho capito grazie ad esso che era riduttivo circoscrivere la musica solo all’oggetto-canzone. Ho capito che anche mettersi al servizio di qualcos’altro, un film, un documentario, perfino una pubblicità, poteva dare gioia creativa, poteva farti stare bene, poteva darti un senso di reale appagamento. Per dire: qualche anno fa non mi sarei mai aspettato di trovarmi coinvolto in spettacoli teatrali; ne ho fatti due, ed è stato stupendo. In generale, quando ho capito che non era necessario cambiare un accordo ogni otto secondi, ecco, ho trovato la pace (ride, ndi)…
Hai trovato la pace anche stando a Genova? Perché molti, da musicisti, la cercano trasferendosi a Milano, a Berlino, Londra…
Sai cosa? Io sono atipico. Se ne avessi venticinque di anni ti direi che sì, è necessario spostarsi, è giusto spostarsi. Ora che ne ho invece trentasei, che ho una famiglia, dei bambini, devo dire che ho imparato ad apprezzare il gusto della quotidianità e delle piccole cose. La conseguenza è che io arrivo in studio sereno, disteso, non ci arrivo mai da incazzato o da frustrato. Anche se…
…anche se?
Anche se Genova purtroppo ha un rapporto molto scarso con la contemporaneità.
Lo aveva, ma lo ha perso?
Esatto.
Confermi la mia impressione.
Genova è una città che alla fine degli anni ’80 stava raggiungendo il milione di abitanti, e i piani urbanistici ma anche culturali erano costruiti pensando a quelle dimensioni lì. Oggi non arriva nemmeno a seicentomila. Io poi abito nel centro di Genova in un posto che è come fosse un paesino, conosco tutti gli abitanti, tutte le botteghe, e loro conoscono me, i miei figli: almeno in questo modo sono in un posto dove la relazione umana è concepita ancora come un valore, anzi, proprio come una necessità. Però non voglio farti l’elogio del paese piccolo, della campagna: fosse per me andrei a vivere a New York! O, che so, a Taipei, a Bangkok! Però un conto sono i desideri, un po’ quello che finisce coll’importi la vita. Io anni fa avevo pensato di trasferirmi a Berlino; poi però c’erano gli Ex-Otago, e non mi sono sentito di abbandonare tutto. Adesso forse andrei a vivere a Torino; però mmmmh, lì non c’è il mare…
Ecco che viene fuori il ligure.
Guarda, nonostante tutto io oggi come oggi Genova la consiglierei pure, come posto dove trasferirsi, per una persona come me, un artista come me: perché proprio per il fatto che ora c’è poco, molto meno rispetto alle potenzialità della città, in realtà c’è parecchio spazio per costruire. Proprio tanto. Essere come nel mio caso uno dei pochi che fa musica elettronica, da un lato è una scimitarra sulle rotule, anche perché fai fatica ad avere uno scambio di idee attorno a te, dall’altro però quando fai qualcosa hai comunque la percezione che sì, un po’ stai facendo la differenza, un po’ puoi avere un impatto, anticipare un cambiamento, un nuovo sviluppo di energie e di creatività. Se faccio un dj set di un certo tipo, qui posso più facilmente colpire l’attenzione delle persone e le loro emozioni; se facessi lo stesso idetico set a Kreuzberg, beh, più facile che la reazione sarebbe “Ah, ancora…”.