Oggi – ma in realtà già da qualche giorno la cosa è in atto, chi può far vedere di essere “insider” coi promo in mano in anticipo ne approfitta – tutte le nostre bolle social saranno invase dai complimenti sull’album di Venerus. Liberiamo subito il campo dai dubbi: sono complimenti meritatissimi. Meritatissimi. E’ semplicemente il miglior disco pop uscito in Italia da anni a questa parte, almeno a livello di eleganza musicale. Magari non sempre per la scrittura, ogni tanto ci si adagia su binari molto sicuri senza rischiare (però tracce come “Ogni pensiero vola”, “Appartamento”, “Eden” sono da fuoriclasse assoluto anche in questo campo), ma a livello complessivo di cura del suono, personalità, classe “Magica musica” davvero spazza via la concorrenza degli ultimi anni. Mancano magari gli inni da stadio alla Calcutta, il generazionalismo dei Cani, il paraculismo di Tommaso Paradiso, non è detto insomma che Venerus diventerà un cantante da palasport sold out (…non è peraltro detto che gli interessi), ma di sicuro il pop italiano fa un salto in avanti anni luce e si mette sullo stesso piano dei migliori esempi internazionali. Per certi versi ci ricorda un disco di trent’anni fa, “Magica musica”: ovvero il fantastico disco d’esordio di Seal.
Come Venerus, anche Seal era un “onnivoro” e si poneva in modo originale in un periodo di grande magma sonoro: ballad folk che si intrecciavano con soluzioni urban ed house, soul senza tempo che si incastonava nella modernità spinta, comunicabilità pop e capacità di prendersi dei rischi fottendosene delle consuetudini mainstream dell’epoca. Uno dei dischi “a largo consumo” più belli e rifiniti di tutti i tempi, non a caso prodotto da quel genio assoluto di Trevor Horn. Il solo fatto di accostarci un prodotto italiano, dà l’idea di quanto notevole sia stato il lavoro di Venerus (che ha avuto anche l’intelligenza di lavorare a stretto contatto con MACE e di ottenere contributi notevoli ed imprevedibili – vedi Crookers in chiave “acustica” – da parte di vari collaboratori). Ecco qui sotto i due dischi, messi uno dopo l’altro. Certo, sono diversi; certo, la voce di Venerus è imparagonabile a quella di Seal; ma prima di tutto, se notate, i due dischi non sembrano avere trent’anni di differenza (perché il pop migliore sa essere senza tempo, o comunque deformarne i confini), e secondo di tutto se ascoltate con un orecchio critico da produttore c’è in entrambi i casi una quantità di finezze a livello di scelte, di produzione e di arrangiamento che è quasi commovente.
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In questi giorni però è uscito un altro disco che invece rischia di passare tanto, troppo sotto silenzio. Sì: perché non è che ora che esce un Venerus improvvisamente è tutto bello e tutto perfetto, la “musica bella” vince e tutti gli altri sucano. No. Se è vero (e bello!) che il mondo delle major e del mainstream si sia aperto a schemi un po’ più liberi e meno da polli da batteria, e suoni un po’ molto contemporanei e meno da Liga-Vasco-Antonacci-Pulcinopio siano diventati una bandiera da portare avanti perché ne vale la pena, resta comunque che le cose buone bisognerà andarsele a cercare. Intanto, ascoltatevelo:
Qualcuno però se ne sta già accorgendo di questo disco, a dire il vero. Per quanto ci riguarda, il senso di meraviglia è lo stesso provato ormai più di un anno fa per DayKoda (a proposito, occhio: nuovo disco in uscita a giorni e, spoiler, NON DELUDE). Quei “sensi di meraviglia” che capitano – se va bene – una volta all’anno o poco più. Non è che li dispensiamo così facilmente.
C’è una matrice simile, ed è il jazz: quella musica diventata tanto di moda negli ultimi tempi anche fra le nuove generazioni (e i nuovi tastemaker hipster) grazie all’effetto-Kamasi e al fatto che Gilles Peterson abbia fatto lo scatto da “solito stronzo” a “venerabile maestro” nella scala-Arbasino, e questo restando sempre fedele a se stesso. Oggi quello che tocca lui ha sempre una patente di nobiltà e qualità; bisognerebbe avere memoria un po’ lunga e ricordare quando, a metà fra gli anni ’90 e la prima parte dei 2000, lui era quello dell’acid jazz da fighetti sfigati, del rare groove dei nonnetti rimba col plaid sulle gambe, del jazz anni ’50, ’60, ’70 da paleo-hipster bolliti.
La verità, come quasi sempre, sta nel mezzo. Non era un rimbambito Peterson prima, non è un genio superumano adesso. Anche lui ogni tanto si incapriccia di cose più eleganti che ficcanti, allo stesso modo in cui pensare che il jazz inizia e finisca con Kamasi (o con The Comet Is Coming) è come credere che la vita inizi e finisca con Mario Draghi: al di là della bravura di Draghi – possibile, probabile, ma ancora tutta da dimostrare – la questione è comunque più complessa e sfaccettata. In questo nuova ondata di jazz “urbano”, bisogna andare a cercare chi rischia, chi graffia, chi ha un progetto non scontato e non invece chi sta ripercorrendo una sterile e prevedibile bella calligrafia (…Kamasi infatti sta mostrando i suoi limiti, perché con “The Epic” era nel primo gruppone, con tutto quello che è arrivato dopo a partire dai suoi malensi e pasticciati concerti è caduto nel secondo).
Studio Murena – collettivo a cinque (Amedeo Nan, Maurizio Gazzola, Matteo Castiglioni, Marco Falcon, Giovanni Ferrazzi) nato dal Conservatorio milanese – mostra di avere “fame”. “Fame” nell’aggredire gli strumenti invece di farli andare col pilota automatico; “fame” nel dilatare la struttura dei pezzi alla ricerca dell’effetto psichedelico e non solo di quello cartolinaceo; “fame” nell’assaltare il funk così come nel riportare nel futuro le suggestioni broken beat; “fame” nel concedersi un gusto prog (o post rock) senza però per questa perdere mai di vista il fuoco, l’obiettivo. Sono così interessanti strumentalmente che anche gli interventi della voce in forma di rap – per quanto per nulla male a livello di qualità, testo e messaggio – sono ogni tanto quasi un di più di cui si potrebbe fare a meno, proprio perché “normale” rispetto ad un contesto che invece è decisamente “eccezionale”, nel senso di dannatamente sopra la media. E’ che di questi tempi il rap tecnicamente non gode di grande salute: il “flow del momento”, quello che suona bene nello Zeigeist attuale, è retrocesso di molto, quindi anche un rappato da acid jazz primi ’90 come quello di Mc Carma sembra una figata spaziale rispetto a quello che si sente in giro, ma messo appunto a confronto con un vestito sonoro di grandissima qualità perde qualche colpo. Inezie, eh. Perché comunque la voce/rap è sempre usata, inserita, sviluppata in maniera più che appropriata.
Insomma, se impazzi(va)te per Yussef Kamaal e se nelle sortite soliste dei due dopo il big bang tra mille litigi reciproci vi è sempre mancato qualcosa, Studio Murena potrebbe essere la risposta perfetta per voi per tornare a star bene, per tornare a godere. Per noi, lo è. Proprio perché avverte l’urgenza di “dire” qualcosa, e non solo di copiare le “musiche belle&moderne” che arrivano da rotte UK. Manca forse ancora qualcosa per la perfezione e il fare un disco to-ta-le (un’attenzione alle frequenze basse, a un certo tipo di tensione e tridimensionalità digitale, e di questo pareremo quando sarà il turno di analizzare il nuovo album di DayKoda), ma ci si è arrivati vicino. Eccome.
Siamo solo a febbraio, ma in Italia sono già usciti degli album straordinari. Com’era quella cosa del buongiorno e del mattino?