La verità è che questa lunga sospensione pandemica – oltre drammaticamente ai lutti ed ai collassi economici – si sta “mangiando” anche l’interesse attorno alle arti, alle musiche, ai film. Lo si sta dicendo sottovoce, per paura probabilmente di aggravare la situazione (e non parlo solo di addetti al settore: nessuna persona sana di mente vorrebbe male alla creatività ed alle energia che essa crea), ma il dato di fatto è che chiunque sia uscito col proprio prodotto a partire da un anno a questa parte alla fine ha fatto un gesto abbastanza da kamikaze. Infatti, ha ottenuto sempre e comunque meno di quello che sperava, in fatto di attenzione, e soprattutto meno di quello che sarebbe stato ragionevole e pure scontato.
La speranza era l’opposto: la scommessa infatti diceva che magari, facendosi vivi in un momento in cui le release sono rarefatte, ai pochi che provano a sfidare il blocco si dedica maggiore attenzione, visto che non c’è più il “rumore di fondo” delle millemila uscite. Non è per nulla andata così. Non è andata così probabilmente in nessun campo artistico e culturale, di sicuro non è andata così nella musica. Anche in quella musica che vive anche (e soprattutto?) on line, come il rap della nuova generazione. Pure loro.
Che la musica da club infatti potesse avere dei tentennamenti era magari più da mettere in conto: se i dancefloor sono chiusi, ci sta che la musica da dancefloor sia al momento retrocessa fra i propri interessi (…anche se poi bisognerebbe far capire che spesso la “braindance”, il “ballo mentale”, è una delle cose più belle del mondo, meglio anche del pigiarsi in pista magari a pupille dilatate in qualche caso, ma è un discorso lungo). Però è anche vero che nella categoria in questione, nel momento in cui escono album “importanti” magari ora più che mai c’erano le condizioni per dare attenzione e risalto.
Ecco: “People Need People” è uno di quegli album importanti. Lo è in partenza, perché l’autore (anzi, co-autore: ma su questo ci torniamo) è comunque uno dei “padri nobili” del clubbing italiano più raffinato, quello che negli anni ’90 ha scoperto la deriva sofisticata dell’acid jazz, lontano dalle facilonerie da autoscontro e dagli spigoli ogni tanto eccessivi della techno. Già da quel decennio, Nicola Conte è stato un punto di riferimento monumentale per chiunque sapesse e gustasse dell’opportunità di immettere venature di jazz “ballabile” in una serata danzante ed iper-contemporanea. Quasi un nostro Gilles Peterson, anche se fin dall’inizio – anche nella sua attività da discografico – ha puntato meno al bersaglio grosso ed all’hype, agendo più da bibliotecario che si toglie i propri personalissimi sfizi.
Attitudine che lo accompagna ancora oggi. Non ha l’urgenza di apparire, Conte. Non ha l’urgenza di essere al centro dei giochi strategici, delle retrospettive di Resident Advisor, dei festival europei più svegli che rinnovano la scena musicale contemporanea. Volendo, potrebbe farlo. A maggior ragione appunto nell’era in cui, come sottolineato più volte, un Gilles Peterson è passato da “solito stronzo” a “venerabile maestro” (e meno male, aggiungiamo noi). Ma a occhio, non gli interessa.
…a occhio, gli interessa fare solo bella musica che piace a lui, e suonarla in giro quando capita (alle condizioni che vuole lui: quindi magari con una band ad organico per nulla scarno). O al massimo lavorare nell’ombra, come ha fatto – a proposito di act di grande successo popolare – con Chiara Civello. Un paio di settimane fa è uscito comunque il suo nuovo lavoro da studio, appunto “People Need People”, e di nuovo non si è fatto mancare nulla, con un organico di gran lusso a fargli da spalla (in cui compare anche Tommaso Cappellato, per dire) e soprattutto col socio di lunghissima data Gianluca Petrella a guadagnarsi i galloni di co-autore.
(Eccolo, “People Need People”; continua sotto)
Galloni meritatissimi. Perché il suo contributo dell’album – non ne abbiamo certezza, ma conoscendolo un po’ crediamo di aver individuato dove sta il suo tocco – è molto, molto importante. Non tanto nella composizione, ma nell’aggiungere tutta una serie di colori, di sospensioni, di raffinatezze in filigrana: ormai da anni ha smesso di mettere in primo piano la sua abilità da strumentista (che, lo ricordiamo, è immensa: uno dei più talentuosi trombonisti jazz al mondo) per lavorare invece anche sugli arricchimenti digitali, sulle rifrazioni dub ed ambient, su una modernità prismatica ed astratta davvero di spessore (ponendosi all’avanguardia di un concetto il cui potenziale è ancora enorme e in buona parte da esplorare: il connubio tra attitudine jazz ed esecuzione elettronica). Questo dà una marcia in più all’album. Gli dona un valore decisamente alto.
Chiaro, il grosso comunque è in mano a Conte ed al suo tocco. E’ in mano al suo amore non tanto e non solo per il jazz, ma un po’ per tutte le musiche non-bianche che gli ruotano attorno ballando: a partire dalla musica africana, che qui prende il sopravvento in maniera esplicita ma sempre filtrato dalla bella calligrafia e dal gusto contiano. Come e più del solito, il musicista e producer barese si diverte a disseminare le tracce del suo particolarissimo tocco da dancefloor, mettendo anche citazioni e riferimenti “storici”, palesemente patrimonio emotivo personale. Il risultato per certi versi ricorda allora l’ultimo disco dei Daft Punk – da qui il titolo che, probabilmente, è quello che vi ha incuriosito e vi ha portato a leggere queste righe.
Esattamente come “R.A.M.” del (disciolto?) due francese, “People Need People” è un tuffo raffinatissimo nel passato e nei gusti del padrone della ditta con una patina di modernità e qualità indiscussa. E’ un modo per far vedere la propria argenteria, di cui si va evidentemente molto orgogliosi, avendola lucidata il più possibile per farla sembrare – anzi, essere – nuova di zecca. Sono le traiettorie che sono diverse: i Daft sono arrivati imborghesiti al neoclassicismo di “R.A.M.” dopo aver fatto gli incendiari con “Homework” e i visionari con “Discovery” (e i simpatici fannulloni con “Human After All”), per Conte invece questo album è il coronamento di un viaggio costante, preciso, con la bussola sempre puntata sulla stessa direzione e che anche stavolta non ha ammesso né ha voluto scostamenti particolari.
Ma la cura nella qualità del suono, nel far risuonare “vive” ed attuali sonorità nate decenni prima, nel coltivare piccole spore iper-moderne che sappiano arricchire una tundra fondamentalmente vintage e passatista, è qualcosa che accomuna davvero queste due uscite. Chiaro: i Daft Punk li conosce tutto il mondo, Nicola Conte è un raffinato sfizio da intellettuali del dancefloor e Petrella, da quando ha abbandonato i sentieri canonici e le messe cantate del jazz per farsi un po’ i cazzi suoi (ad esempio, anche con un Dj Gruff), si è complicato la vita da solo, felicemente complicato. Quindi l’eco non è né sarà la stessa.
Anzi, “People Need People” in nessun modo sfugge al “buco nero” in cui viviamo da un anno a questa parte che, come spiegavamo all’inizio, sta costantemente rinsecchendo i pozzi d’interesse attorno alla musica ed all’arte in generale, che non sia l’”approvvigionamento facile” via serie su Netflix o Prime. Quindi a scorrere su Google e sui vari siti musicali, si trova poca traccia di questo disco. Certo: non è rivoluzionario, non è pazzesco, non lascia a bocca aperta, non sfida la convenzioni e non schiaffeggia i luoghi comuni; ma è un signor disco, e merita il vostro ascolto e le vostre attenzioni. Tanto quanto un “Random Access Memories”.