Nel momento in cui è la stessa Rai Uno a prenderti per il culo, trasmettendo il sabato sera in uno spettacolo dove Amadeus apparecchia una vera e propria “discoteca” – parole sue, eh – all’Arena di Verona, con tanto di console e inquadrature sulla gente che balle festante, hai due scelte: o iniziare a pensare a come fottertene delle regole, come aggirarle e fare quello che ti pare (quello che buona parte del settore del ballo e dei live “in piedi” non ha voluto fare per venti mesi, per senso di onestà e di rispetto verso il rischio sanitario; ma come sempre accade il senso di onestà poi ti fa passare per coglione, comprese le prese in giro di chi le regole invece le ha aggirate e magari ora ti fa pure la morale, “Visto che avevo ragione io”), oppure focalizzarti su quali sono i valori più importanti da rispettare ancora oggi, e da cui ripartire, quando si potrà ripartire. Come dicevamo, la pazienza ormai è finita ed anche tra gli addetti al settore più pacifici, onesti, remissivi (scegliete voi l’aggettivo più adeguato) si sta facendo largo l’idea della disobbedienza civile, dato che ormai l’Italia nonostante il Green Pass e una percentuale di vaccinati ai vertici europei è fanalino di coda tra le grandi nazioni del Continente in quanto a ripresa della vita normale e delle attività culturali meno “museali”.
Ad ogni modo: scegliamo la seconda. Ci sarà modo magari di parlare e di raccontare di atti di disobbedienza civile, di riapertura simbolica il 31 ottobre costi quel che costi anche sfidando limitazioni ancora non rimosse (se ne sta parlando, se ne sta parlando). Ma il punto è che magari tutte queste discussioni saranno disinnescate a breve, quando finalmente CTS e Governo decideranno di riportarci in Europa anche per quanto riguarda ballo e musica dal vivo, evviva; o, al contrario, una recrudescenza della pandemia – sempre possibile, perché ad esempio nella “liberalissima” Serbia dei festival e delle riaperture precoci la situazione oggi è semplicemente drammatica – renderà del tutto fuori luogo questi discorsi, e torneremo a parlare di lockdown e di dramma sanitario ed economico. Altro che ballare. In tutto questo la bussola deve restare il “Ne usciremo migliori”. Anche per dimostrare ai cinici ed ai saputi, quelli che ti prendono in giro se desideri e progetti il meglio, che in realtà davvero qualcosa si può imparare – ed abbiamo imparato – da questa fase unica nella storia. Ciò che possiamo fare ora è incoraggiare chi comunque ci prova, ad organizzare qualcosa, e raccontare esempi positivi. Ce n’è uno che per mille motivi è il più positivo di tutti, anzi, “positivo” è un eufemismo: Time In Jazz. Che non è un festival dove si balla, non è un festival dove si ascolta la musica in piedi (o dove è obbligatorio ed inevitabile farlo), va bene: eppure, la lezione migliore sulla situazione attuale è arrivata esattamente da lui. Quest’estate siamo stati lì, in Sardegna, e siamo stati presenti praticamente dal primo all’ultimo giorno, vedendo (quasi) tutto, osservando (quasi) tutto. Abbiamo capito tantissime cose. Ed è il caso di riassumerle per punti: trasformando tutto (anche) in un un decalogo per la ripartenza.
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LA MUSICA E’ UN’ESIGENZA
La prima cosa da dire, ma ce lo raccontava già il deus ex machina del festival Paolo Fresu, è che Time In Jazz è il primo, primissimo festival in Italia che l’anno scorso, in pieno 2020, quando la situazione era ancora drammatica e piena di incognite e il Coronavirus era ancora uno choc che non sapevi bene come affrontare, ha semplicemente annunciato che sì, il festival ci sarebbe stato costi quel che costi: rispettando tutte le misure pandemiche necessarie, facendo sforzi inverosimili per rientrarvi, adeguando line up, location e capienze se necessario, insomma, quel che volete, ma ci sarebbe stato, punto. Non era voglia di essere kamikaze o necessità economica (Fresu vive economicamente tranquillo anche senza festival, anzi, non lo facesse avrebbe più tempo per suonare, fare dischi, fatturare), è che c’è la percezione del valore sociale, simbolico, umano di Time In Jazz. Un evento che, per la tenacia del suo fondatore, ha messo un anonimo paesino nel nord della Sardegna al centro della cartografia mondiale della musica jazz, attirando musicisti e spettatori da tutto il mondo. E qui veniamo al secondo punto.
LA MUSICA E’ UNA COMUNITA’
La si sottovaluta ogni tanto, questa cosa. O ci si concentra solo sul momento fisico della performance e della gente accalcata in platea o sul dancefloor, a mani alzate ed urla sguaiate. Ma passando una settimana abbondante a Time In Jazz capisci che la musica nelle sue forme di fruizione più profonda prima di tutto è qualcosa che crea un grandissimo senso di comunità: radunarsi attorno ad una passione sincera (e non attorno alla passione per una droga, o per il prestigio vanaglorioso di “esserci”) è una delle dinamiche più belle che possano percorrere la società umana. Suona eccessivo? Non lo è. Siamo obbligati a lavorare e consumare quotidianamente, certe volte la nostra vita sembra incanalata su binari “obbligati” e gli stimoli che riceviamo su dove investire il nostro capitale emotivo sono continui (…il marketing nasce da questo ed è questo); trovare qualcosa che invece sia “tuo”, che ti coltivi da tempo e con cura, che ti fa sentire unico ed appassionato e che ti appartiene sempre, non solo quando c’è un evento più o meno spettacolare, ci rende persone migliori. Più tranquille, più serene, più sorridenti, più realizzate. E più aperte al cogliere la gioia di essere prima di tutto una comunità, e non invece una serie di pedine messe lì per fare numeri prestazionali di cui poi si giovano altri. Ecco perché abbiamo sempre cordialmente guardato con sospetto chi – come ad esempio con l’ondata EDM nella scena elettronica e col pop che si mescola con l’underground e le nicchie – misurava la qualità della musica in copie vendute, in biglietti staccati, in Grammy ottenuti, in spettacolarità o esclusività: se fate così, state usando la musica nel modo sbagliato. La musica crea comunità, non competizione. O almeno dovrebbe essere così.
(Momenti bizzarri e “comunitari” a Time In Jazz, ritratti da Roberto Sanna; continua sotto)
LA MUSICA E’ TEMPO
“C’è stato un momento in cui Time In Jazz era diventato perfino troppo popolare”, ci raccontava quest’estate Fresu, durante un assolato pomeriggio in cui – stranamente – era mezzo sfaccendato, almeno per una mezz’ora. “Guarda, la fila di macchine per entrare in paese ogni sera era lunga chilometri, ma veramente chilometri: per qualche motivo eravamo diventati una meta in cui si veniva a prescindere”. La stessa cosa che era successa decenni prima ad Umbria Jazz (…sarà perché il jazz evoca un senso di libertà, sarà perché ad un certo punto era stato adottato dall’intellighenza libertaria negli anni ’70, e quindi via libera a tutti i fricchettoni full time o part time del mondo?). “Poi per fortuna la cosa si è placata. E ora stiamo bene così”. Non che la gente manchi: nei concerti a pagamento, il sold out è praticamente la regola (ovviamente nel 2020 e 2021 è stato così, con le capienze dimezzate causa Covid, ma valeva allo stesso modo anche prima). Time In Jazz non è (più) però quel posto “di moda” dove andare se si vuole una esperienza “pittoresca” senza fatica, non è (più) “il Salento e la Gallipoli della musica jazz”. E’ questione di mode: vanno e vengono. Come per i bar nelle grandi città: ci sono quelli per cui per qualche anno pare obbligatorio andare, ad ora aperitivo (per i milanesi: vi ricordate i mercoledì al Mom, che portarono addirittura a recintare una parte della zona?), poi però improvvisamente non se li fila più nessuno. La gente è un po’ così. Ma la musica, la vera passione per la musica, vuole e deve ragionare sul tempo, sulla persistenza. Time In Jazz esiste da trentaquattro edizioni: ha mantenuto dritta la barra della direzione artistica, il “filo rosso” delle scelte è sempre ben individuabile se si mastica il genere musicale e non è mai stato particolarmente influenzato dalle mode del momento. La differenza, beh, si vede. Quando sei in un posto che non è ossessionato dalle mode (traduciamo in soldoni: a Time In Jazz non senti l’esigenza di portare un live set della chiacchieratissima nuova ondata londinese, si può vivere tranquillamente senza, non si respira l’ansia di essere hip e, corollario, di essere hipster) puoi anche gustarti con più calma quello che c’è, e sei anche più disposto ad ascoltare quello che c’è. Non senti il bisogno dell’hype continuo. Risultato? L’esperienza festival è consumata con più umanità, con più naturalezza, con più rilassatezza. L’hype è un bellissimo doping (di interesse, di entusiasmi, di incassi), ma sul lungo periodo logora. La musica, invece, è o dovrebbe essere tempo. Le passioni più profonde e che lasciano più tracce reali nella propria emotività sono quelle che sanno durare. A Time In Jazz non arrivi con l’ansia di sentire il nome-del-momento: più di una scelta è semplicemente “fuori moda”. Ed è, credeteci, una sensazione bellissima, se sei lì per la musica, e non invece per vantarti di “essere lì“.
(Il riassunto di una delle giornate più intense, dal progetto Floors di Diodati, Ponticelli e Vignato a “Heroes”; continua sotto)
LA MUSICA E’ CIVILTA’
Se percepisci la musica come dono e non come doping, allora rispetti pure chi la suona, chi la ospita, chi la organizza. E’ semplice. Quando questo non accade, è perché alla musica ti stai approcciando nel modo sbagliato. A Time In Jazz abbiamo visto un rispetto maniacale dei luoghi (niente rifiuti in giro), delle persone, della sacralità della performance. Tutto questo non vieta tuttavia di essere entusiasti o di esaltarsi: ogni contesto ha le sue forme di fruizione. Non è che per forza l’unica forma di civiltà è duecento cinquantenni compassati che ascoltano assorti uno che fa un set di pianoforte solo in acustico, in una location di classe, come da iconografia. Ma al Sónar, cambiando ambito, non abbiamo mai visto risse (nonostante certe edizioni avessero un sovraffollamento micidiale); non le vediamo al Kappa FuturFestival, da quando le formazioni di teppaglia pronta a rapinare sono state sovrastate dal pubblico più civile e sorridente (spesso estero: quindi motivato a farsi un viaggio, prendere un aereo e spendere soldi da, appunto, la passione per la musica). In generale, le risse e gli incidenti ai concerti c’erano quando la strumentalizzazione politica degli anni ’70 si faceva sentire ed agiva pesante (di nuovo: gente quella che la musica la usava invece di amarla); le risse e gli incidenti c’erano nei dancefloor quando la musica techno e house è stata più usata come playground per drogarsi il più possibile (e per arricchirsi spacciando) che come esperienza d’ascolto e di liberazione emotiva. Nulla contro chi si droga, attenzione: qui da queste parti il libero arbitrio personale è sacro. Sacro. Il punto è come lo fai, perché lo fai; e se lo fai – di nuovo – come una gara. Per la gioia di chi ti rifila robaccia tagliata ammerda, o costosa da far schifo, riducendoti pure a persona spiacevole, ingestibile, egotica.
LA MUSICA E’ RISPETTO
Nel caso di Time In Jazz: anche rispetto delle regole. Stupide? Ottuse? Eccessive? “Non m’importa, non m’interessa: io le rispetto“. Controllo rigoroso del Green Pass ad ogni concerto (con momenti anche paradossali, come quando uno dei concerti si è svolto in una pineta sul mare e migliaia di persone erano libere di scorrazzare come gli pareva, mentre invece i duecento stronzi – capienza limitata – che si erano presi una porzione di pineta per ascoltare il concerto erano invece controllatissimi e limitatissimi nei movimenti: quasi comico, e molto assurdo). Nessun moto d’impazienza, perché le decine di fantastici volontari del festival che aiutavano a gestire accessi, parcheggi, controlli ti disarmavano ogni volta col loro sorriso e la loro presa bene, quindi quei quindici, venti minuti in più per accedere al concerto non ti pesavano. Eri in un contesto che aveva fatto una scelta: “Pur di esserci, accetto di rispettare tutte le regole che mi vengono imposte dalle istituzioni“. Perfetto. Poi uno può anche decidere che le regole sono ingiuste (o lo sono diventate nel frattempo) e vanno aggirate, ma deve dichiararlo chiaramente, deve esserci un patto di mutuo rispetto e trasparenza con chi viene da te, carte tutte messe sul tavolo. Invece soprattutto nel mondo del ballo l’estate 2021 è stato un deprimente fiorire di ipocrisie, di “ristoranti” che bookavano Marco Carola e Villalobos (per fare un esempio clamoroso, ma la lista sarebbe infinita e non certo limitata a due, tre posti in Riviera e serate coi nomi “grossi”), di posti che garantivano distanziamento invece poi ti portavano all’ammasso. Chiaro, sono state le istituzioni ad incoraggiarti a fare così, chi lo nega: con decisioni cervellotiche, con controlli insufficienti, con sanzioni ridicole che erano un implicito via libera. Ma è stato veramente un buon affare approfittarne? Sicuri sicuri? Poi che tipo di autorevolezza si guadagna, come interlocutori, sul lungo periodo, quando ci sarà da creare delle regole più giuste, equilibrate e contemporanee, soprattutto se si agisce aumm’ aumm’? E’ più importante l’uovo (bruttino) oggi o la gallina domani? Se Time In Jazz ha potuto dire in tempi non sospetti, ad inizio 2020, “Al diavolo, io vado avanti comunque” è anche perché era forte dell’aura di rispetto guadagnata sul campo, dal punto di vista organizzativo, più ancora fra il pubblico e gli addetti ai lavori che fra le istituzioni (…e comunque, anche fra quelle). Insegnamento importante.
LA MUSICA E’ UN VIAGGIO
La musica ti fa viaggiare. Con la mente, certo; col corpo e pure con tutti i sensi, quando ti “sintonizzi” con quello che arriva dalle mani e dall’inventiva degli artisti; ma anche banalmente quando ti spinge ad uscire da casa tua, sì, e a scoprire il mondo. Una cosa bellissima del format di Time In Jazz da molti anni a questa parte è che ti fa scoprire mille luoghi diversi della Sardegna del Nord: potendo contare su tre concerti al giorno (mattina, tardo pomeriggio, sera) di cui solo uno nella sede centrale di Berchidda, l’headquarters del festival, abbiamo esplorato castelli medievali abbandonati, parchi naturali, cittadine dell’entroterra, luoghi della costa suggestivi, chiese di campagna che erano un magico universo a sé. Visto che l’Italia è più o meno il paese più bello del mondo, sarebbe doveroso e virtuoso che ci fossero più festival di questo genere. Diventa un vantaggio competitivo enorme, per contrastare i capitali americani, l’organizzazione sistemica olandese, la ricchezza dell’offerta delle Fiandre o della Francia, i grandi Moloch festivalieri spagnoli, il ruggente mercato emergente dell’Est europeo. Vale nell’elettronica, ma vale anche nella più compassata sfera jazz: Time In Jazz non potrà mai competere coi mezzi economici spaventosi del North Sea Jazz Festival, eppure esiste e resiste da quasi trentacinque anni. Va detto che il jazz più di altri generi musicali ha capito l’importanza di un rapporto organico col territorio e di andare a cercare luoghi suggestivi dove esserci, dove svilupparsi: sarà perché ha più “mani libere” di altre sfere visto che è percepito come “cultura buona” dalle istituzioni, può essere, ma sta di fatto che lo fa. Time In Jazz lo ha fatto prima e meglio di altri. Ha pensato fosse possibile creare qualcosa di grande, qualitativo ed importante in un paese di meno di 3000 anime nell’entroterra sardo. Riuscendoci. Unici grandi capitali alle spalle: passione, competenza, autorevolezza. Fate voi.
(Luoghi magici; il set di Matteo Pastorino ritratto da Roberto Sanna; continua sotto)
LA MUSICA NON HA CONFINI
Scegliere un indirizzo musicale preciso e competente ed avere personalità non significa tuttavia creare steccati. Anzi, è un po’ l’esatto contrario: se hai personalità, non hai paura di offrire delle commistioni o dei “cedimenti”. Di nuovo: la musica non deve essere una gara, nemmeno a fare la corsa a chi è più ortodosso e più “figo”. Fa sicuramente poco figo chiamare Fabio Concato ad un festival jazz, come no: ma la gente si è divertita, l’atmosfera è stata bella, Concato aveva comunque una band ad accompagnarlo capitanata da Paolo DI Sabatino che col jazz c’entra eccome (e lo si è visto nel set strumentale al mattino della band in questione, in trio, nello stesso giorno del concerto serale), quindi l’operazione ha avuto senso. Come può averlo avuto chiamare la Vanoni l’anno scorso. Questo perché se l’insieme è comunque fatto con senso, con piglio, con un disegno, con una visione, con una competenza allora sì che ti puoi permettere le variazioni sul tema e i piccoli cedimenti nazional-popolari; quando invece l’insieme nasce nazional-popolare e tu ci appiccichi sopra il nome “jazz” per fare bella figura e strappare finanziamenti pubblici “per la cultura”, ma di cultura ne fai ben poca bensì ti attacchi appunto al prevedibile ed al già popolare, lo stai facendo male. E stai danneggiando tutti.
LA MUSICA E’ UMANITA’
E’ la lezione più bella di Time In Jazz. L’umanità è quando il direttore artistico e fondatore conosce la materia, ad esempio, e chiama artisti che conosce non solo musicalmente ma anche umanamente. L’umanità è quando sempre lui, che potrebbe prendersela pure più comoda essendo il “capo“, fa di tutto per essere presente a tutti i concerti del festival (otto giorni con una media di tre concerti al giorno, fate i calcoli) per introdurli, come “dovere d’ospitalità”, e s’incazza come un puma quando una sovrapposizione in calendario – c’erano infatti anche i talk e le attività collaterali – gli impedisce di farlo. Ed è umanità anche quando ogni volta ringrazia non solo sponsor e istituzioni ma, ancora di più e diremmo con ancora più calore, lo fa con volontari, collaboratori ed amici storici: lì capisci che la musica ti porta – o dovrebbe portarti – a valutare di più non chi ti dà i permessi, il potere e i soldi ma chi invece ti dà il cuore e la passione. E’ poi umanità è anche quando gli artisti si aggirano fra il pubblico, spendono più giorni nello stesso posto (invece di dormire una notte in quattro stelle lusso, magari lontano dalla venue, e poi salutare il mattino dopo). Ultima nota: è umanità quando la presenza dei brand c’è ma non è invasiva, e non ti sembra di essere un pollo da batteria su cui uffici marketing fanno esperimenti di “nutrizione forzata”.
LA MUSICA NON E’ SOLO MUSICA
Lo abbiamo accennato prima: talk, incontri, attività collaterali, film, presentazioni di libri. Il programma di Time In Jazz non è solo concerti. E’ da sempre (e ci tiene sempre più ad esserlo) un universo completo, dove ci si “immerge” in un mondo, in un territorio, in un’idea di suono e composizione che poi va ad influire anche sul modo in cui ci si pone col mondo, coll’essere “animali sociali“. D’altro canto quante volte vi è successo ascoltando un brano in cuffia, a casa, di sentirvi più felici, più intensi, più ricettivi, più sensibili, più malinconici, più empatici? Ecco. La musica non è solo musica. Può scatenare un mondo, dentro di voi ed attorno a voi. E questo vale non solo quando devi rifilare merchandise sovraprezzato a fan sovraeccitati, cosa che spesso pare l’unica finalità collaterale di un evento musicale standard.
LA MUSICA DI TIME IN JAZZ 2021
Abbiamo fatto tanti discorsi belli. Se invece qualcuno voleva il classico articolo / recensione su come è stato il festival, nel senso di chi ha suonato bene chi ha suonato male, questo ultimo punto lo abbiamo lasciato per voi. Anche se davvero: Time In Jazz è una esperienza rigeneratrice, e rigenera davvero solo se si vede la musica – se si torna a vederla – non come gara e come competizione fra scarsi e bravi, fra nuovi e bolliti, fra fighi e sfigati ma invece come “modus vivendi” a tutto tondo. Detto questo: la palma del concerto più bello va anche a quello più atteso e mediatico, “Heroes”, ovvero la reinterpretazione del repertorio di David Bowie in chiave jazz-cosmica capitanata dal padrone di casa Fresu (ogni suo intervento a tromba o filicorno, una lama) ma dove tutti gli altri soci d’avventura – Petra Magoni alla voce, Gianluca Petrella al trombone e tastiere, Francesco Diodati alla chitarra, Francesco Ponticelli al basso e Christian Meyer alla batteria – sono stati semplicemente perfetti. Poteva essere un baraccone “facile” e paraculo (facciamo ammenda: un po’ lo temevamo), è invece uno dei capitoli più avventurosi nella musica italiana dell’ultimo decennio. Già che citavamo Diodati: è stato lui il vero eroe di Time In Jazz 2021, non solo per quantità di presenza ma anche per qualità, ha raggiunto infatti una maturità che lo rende davvero il più interessante chitarrista italiano non per virtuosismo e nemmeno per sperimentazione, ma per come usa con equilibrio queste due componenti e le mette al servizio del risultato finale, “frenandole”. Delle sue varie apparizioni, la migliore probabilmente – “Heroes” a parte – stata quella col trio MAT (in società con Marcello Allulli al sax tenore ed Ermanno Baron alla batteria): forma libera ed improvvisazione, ma anche geometrie e senso della dinamica. Proseguendo nell’elenco delle cose belle: magico, assolutamente magico il set per piano solo di Ramberto Ciammarughi (davvero: uno dei più grandi sottovalutati della scena jazz pianistica italiana), interessante quello di Fabio Giachino (che deve imparare ad usare l’elettronica meglio, ma compositivamente dimostra di avere già le idee chiare e un grande senso melodico senza scadere nella faciloneria o nel modernismo sterile e paraculo). Bravissimo come al solito Gianluca Petrella, sempre di più una colonna a trecentosessanta gradi della musica che vale-la-pena-fare-ed-ascoltare in Italia: istrionico ed appassionato in duo con Pasquale Mirra (molto meglio live che su disco, loro due…), semplicemente potentissimo nella sua Cosmic Renaissance, progetto nato nel 2007 e che si muove fra funk, musica cosmica, Linton Kwesi Johnson, jazz, elettronica e chissà cos’altro, senza mai perdere il filo. A dimostrazione di come ormai Petrella non debba essere (solo) l’abbellimento di organici d’eccezione, ma possa e debba dedicarsi a fare il band leader a tutti gli effetti. Ne ha la statura musicale. E se c’è un evento che lo ha fatto crescere in sicurezza e consapevolezza, questo probabilmente è stato proprio Time In Jazz. Il modo in cui il pubblico storico del festival lo ama e lo acclama la dice lunga.
(Ogni tanto abbiamo bisogno di eroi: “Heroes” a fine concerto, foto di Roberto Sanna)
BONUS TRACK
Ma che cazzo c’andate a fare in Costa Smeralda e dintorni a farvi spennare e ad inseguire il “solito” divertimento/divertimentificio, quando invece la Sardegna del nord è piena di posti incredibili e pure di festival musicali di enorme valore, vedi ad esempio altri festival jazz come Musica Sulle Bocche e Sant’Anna Arresi Jazz, ma non solo? Davvero, che vi passa per la testa? E quanti soldi avete da buttare via nei portafogli?