Inizialmente la reazione era stata: ok, boomer. Ovvero: “E’ un disco bellissimo, splendido, pieno tanto di arte-per-arte quanto di contenuti incandescenti, ha il meglio di entrambi i mondi: è esattamente quello che vorrei dall’hip hop sempre e quello che da lui ricevevo quando mi ci sono avvicinato”. Ma… “…ma chi sono io? Un pluriquarantenne? Un europeo di buona educazione musicale e vasti ascolti, che vanno dal jazz scandinavo colto al noise estremo passando per l’hip hip anni ’90 e la techno di matrice detroitiana? Questo sono. Sono la cosa più distante dal concetto di ‘popolare’ ci si possa immaginare… e forse anche da quello di hip hop, oggi”.
Te li poni, questi dubbi. Se sei intelligente te li poni. Se sei intelligente, ma soprattutto se hai visto anni, anzi, decenni di “…il rap spiegato da chi ne sa” (ehi, anche tu eri fra gli spiegatori!) fallire poi miseramente l’esame dell’appeal popolare, del riscontro reale. Un fallimento così misero – vi ricordate quando c’era chi vi spiegava che il vero hip hop era la Anticon? – che poi tra gli esperti più “alti” si è cambiato strategia e si è passati a fare combutta con il nemico, anzi, ad arrendersi incondizionatamente alle sue regole. Lo stesso tipo di pubblico “qualificato”, con la stessa estrazione sociale, la stessa preparazione, lo stesso approccio, ha iniziato cioè pesantemente a flirtare con e a supportare il lato più becero del rap, quello più dozzinale, quello più pacchiano, quello più svergognatamente ed efficacemente rivolto al culto dei soldi, dell’hype e della fama.
Oh, c’era più di un motivo per farlo. Appunto: il far prevalere i fatti (la fama effettiva di un mc, di una crew, di una gang) sulle opinioni (pretendere che il rap “vero” sia solo “politico” e/o “intelligente”), e come si fa a esser contro questa strategia?
…ma di questa strategia, proprio “RTJ4” in qualche maniera evidenzia i difetti, i limiti, i guai. Che sia un disco bellissimo, sono d’accordo praticamente tutti: più maturo dei primi due LP targati El-P & Killer Mike, più maturo del terzo, ha davvero ogni elemento al posto giusto ed urla qualità così come intensità da ogni solco, da secondo, da ogni istante. Ma soprattutto pare un’astronave, pare un ufo: arriva ad un livello talmente alto, e da un livello talmente alto, che in qualche modo ti rendi conto che se hai speso un sacco di tempo e superlativi ad esaltare Kanye West per du’ rime smozzicate ed alcune ottime intuizioni musicali, mo’ che cazzo dici? E, per fare un esempio ancora più impopolare: se sei impazzito per il Kendrick in-bianco-e-nero col bacio accademico di FlyLo e Thundercat e ti è sembrato il non plus ultra, ora che arriva qualcosa che è davvero nuovo ed assurdo ed iconoclasta e citazionista in maniera non stucchevole ma abrasiva, cosa puoi dire?
Perché “RTJ4” è troppo più avanti di “To Pimp A Butterfly”, in quanto ad incisività: sia testuale, che sonora. E nel momento in cui “To Pimp A Butterfly” ti era sembrato un’oasi, un miracolo, il segno che l’hip hop di qualità fosse ancora vivo e poteva ancora avere cittadinanze e rilevanza trasversale, adesso cosa puoi dire? Che ti eri sbagliato? Che non avevi capito nulla? Che avevi considerato da 9 in pagella la “Butterfly” pimpata ed elegante, quando invece era solo da 7? Eh.
Ma non è finita.
(“RTJ4”; continua sotto)
Come si diceva all’inizio, hai paura. Sì: hai pure paura. Hai paura che Run The Jewels sia “troppo”, per chi oggi ha tra i quindici e i trent’anni: troppe parole, troppe rime, troppi concetti, troppi artifici lirici, troppe idee nelle basi, troppo impegno. Hai pura che “RTJ4” possa piacere così (tanto) solo a te, e ti piaccia così tanto perché – in fondo – ti ricorda di quando i Public Enemy ti cambiavano la vita e pure Nas e gli A Tribe Called Quest lo facevano e i Mobb Deep pure… e lì non avevi “paura” che alla scena non piacessero, che i fan degli act più commerciali non li apprezzassero. Manco ti passava per la testa. Se una cosa era potente era potente, punto.
Run The Jewels, con questo album, rimettono le lancette dell’orologio esattamente a quel momento. Non lo aveva fatto El-P ai tempi dei Company Flow, perché comunque quella era una (bellissima) deriva minoritaria da backpacker, non lo aveva fatto Killer Mike quando era ancora “uno molto bravo di Atlanta”, non lo avevano nemmeno fatto i primi due lavori di Run The Jewels perché comunque sembravano una nicchia nobile e valida ma pur sempre una nicchia che parla ad una nicchia, non lo aveva fatto il terzo che – anche se planava come un macigno sull’attualità, visto l’avvento del pericoloso pagliaccio col parrucchino alla Casa Bianca – peccava di un eccesso di chiasso e spacconeria, che portava tutto ad essere leggermente fuori fuoco, come si accennava prima.
“RTJ4”, invece, è talmente perfetto che i due sono stati quasi obbligati dagli eventi a farlo uscire prima, con un paio di giorni di anticipo rispetto al previsto, da quanto era un lavoro “totale” per raccontare la realtà, il qui&ora, l’America in fiamme non più solo nei testi e nei desideri degli apocalittici ma proprio sul serio, dal vero, nelle strade, nei telegiornali, nelle dirette web di tutto il mondo. Improvvisamente capisci che El-P e Killer Mike non sono (solo) due super-eroi del “rap intelligente”, ma sono (anche) i cronisti più precisi e puntuali ed anticipatori di quello che poi sta andando a succedere veramente. Esattamente come è preciso il rapper che ti bofonchia o cantilena di soldi, di figa, di droga, di successo, di canne con gli amici: ma RTJ non ci mettono solo la descrizione, la sterile (o autocompiaciuta) descrizione; loro ci mettono pure la spiegazione, e il carico di indignazione.
Forse Run The Jewels potrebbero riportare tutti a seguire il rap anche e soprattutto nei messaggi e nelle idee, non solo nelle foto su Instagram
Fa tutta la differenza del mondo. Ti eri quasi dimenticato che il rap potesse farlo, farlo davvero. O pensavi che lo potesse fare solo nel tuo personale “giardino zen” da tavolo, lì dove puoi simulare il rap e l’hip hop come vorresti che fossero anche se poi sai che, lì fuori, le cose stanno un po’ in un altro modo e sono tutti vestiti Luis Vuitton o Givenchy, chissà perché, o se non lo sono beh allora sono caduti nel dimenticatoio e berciano alla luna, tra cani spelacchiati ed appassiti, senza essere ancora venuti via dagli anni ‘90.
“RTJ4” continua tuttavia ad avere un limite, ed è un limite che Run The Jewels si portano dietro dall’inizio (El-P addirittura dai tempi dei Company Flow): l’incapacità o la non-volontà di tirare fuori ritornelli paraculi, tre note o cinque sillabe che si conficchino ovunque, in qualsiasi ascolto, in qualsiasi discorso, in qualsiasi immaginario. E’ un peccato da un lato grosso, perché non li farà probabilmente mai uscire dalla nicchia, dall’altro stavolta veniale perché davvero mai come prima sono riusciti, con questo ultimo album, a trovare un perfetto equilibrio tra personale e politico, tra rumore ed hip hop, tra rabbia e humour, tra Pharrell e Josh Homme (che potevano essere solo featuring paraculi, invece sono le persone giuste al posto giusto).
E forse, forse davvero, chissà, forse spingeranno anche gli utenti teeenager e twentysomething del rap di oggi ad andare sul sito di un gruppo e non solo su Instagram, a leggere i messaggi e non solo a guardare le foto. Miracolo! Basterebbe questo. Basterebbe solo questo.
Ma in questo album c’è molto, molto altro: suono, significato o rima che sia.
E cazzo se devi metterti lì a scoprirlo. C’è il triplo della soddisfazione che a mettersi lì a decrittare il pur caruccio e fragrante Tha Supreme locale o il mumbler ingrugnito di turno statunitense vestito da unicorno.