L’esperimento più banale del mondo ha dato vita al risultato che temevo, ma che speravo non ci fosse: digitando su Google “Capriati Metamorfosi Review”, sarà anche l’algoritmo del mio browser, ma di review ne ho viste una sola; il resto, solo i lanci sulla “…imminente uscita del nuovo album di Capriati”. Il trend infatti è in atto già da anni, purtroppo: i lettori dei media più votati all’elettronica – sì, voi lettori, proprio voi – leggono sempre meno le recensioni, fai molte più views con l’annuncio di un disco (che uscirà magari fra settimane, mesi, semestri) che con la recensione del disco stesso. I magazine si comportano di conseguenza: una messe di annunci ma poi, quando c’è da tirare le somme e parlare del vero contenuto, ovvero la recensione, il contenuto effettivo del disco e il giudizio su di esso, l’argomento pare “vecchio”. Lo si bypassa allegramente. Come non interessasse più a nessuno.
…e, numeri alla mano, effettivamente pare non interessi più a nessuno. O a molto pochi, perché i numeri di views che fanno le recensioni sono sempre più miseri. Male, bisogna invertire questa tendenza. Non è l’unica di tendenza da invertire, nell’elettronica più danceflooriana, peraltro; e qui torniamo a bomba su Capriati. Nel pieno delle polemiche estive sugli assembramenti, dei post selvaggi, delle discussioni sugli assembramenti, Capriati e il suo team hanno fatto finire la musica elettronica su Studio Aperto non nel ruolo di “solita cattiva” ma in quello di “proposta artistica interessante di cui parlare”. Onore al merito. Non ci arrivi per caso, a media così generalisti. Arrivi con la scelta, manageriale e ben precisa, di affidarti ad un ufficio stampa molto forte abituato a lavorare nel mainstream. Ora, il punto è che da troppo tempo ci si culla col fatto che l’elettronica, nello specifico techno e house e derivati, siano sempre e comunque underground: nascono come tali, ma già da decenni muovono numeri enormi, al 100% mainstream (in qualche caso: maggiori del mainstream). Uno può anche decidere che per lui questa sfera musicale nasce undeground, e nel suo cuore e nella sua vita sempre tale deve restare: va benissimo, scelta più che lecita. Ma affrontando la realtà, è un fatto che in linea di massima bisogna saper diventare “adulti”, a maggior ragione ora che si maneggiano numeri ed interessi degni di un comparto di industria di medio-grosse dimensioni: l’elettronica danceflooriana deve saper interloquire col mainstream, devi fargli capire che è forte e presente. Se si rinuncia a questa cosa, poi non lamentiamoci – adolescenzialmente – che il mondo “…non ci capisce e non ci capirà mai”, che l’Italia è solo nazionalpopolare, che “in Olanda sì che l’elettronica è vista come una cosa seria”, che “a Berlino i club parlano con le istituzioni e qua invece ci prendono a pesci in faccia”. Bisogna saper giocare in grande e coi grandi, se vuoi essere preso sul serio. E la fòla che l’elettronica possa essere solo underground è, semplicemente, smentita dai fatti: tu puoi essere solo underground, e fare questa scelta di campo, ma la realtà fattuale dice che il clubbing è un fenomeno musicale e sociale che muove numeri ed interessi enormi. Piace, appassiona molte persone. Bisogna sapercisi rapportare. Bisogna esserne consapevoli, se si è appassionati del genere e se si è legati alle sue sorti – foss’anche per lanciare le giuste critiche e gli ammonimenti necessari quando si imbroccano dinamiche troppo sbagliate e ci si appecorona di fronte ai peggiori difetti del mainstream, o almeno c’è il rischio che questo accada.
Bisogna saper giocare in grande e coi grandi, se vuoi essere preso sul serio. E la fòla che l’elettronica possa essere solo underground è, semplicemente, smentita dai fatti
Un lungo preambolo, sì, lo sappiamo, perché è facile che pensiate ora “Sì, ok, va bene, ma ‘sto cazzo di nuovo album di Capriati quindi com’è? Cos’è questo girarci in tondo? Ti fa cagare il disco? Non C’è nulla da dirci sopra?”. Il punto è che Joseph incarna un po’ la figura del dj/producer di successo, che muove interessi enormi, che catapulta la techno nel business (“…buon per lui ma peggio per la techno”, direbbe più di qualcuno): quindi è necessario fare un lavoro non solo di contestualizzazione, ma proprio di ragionamento complessivo. Questo per capire la posizione comunque scomoda in cui si trova: “alieno” nel mondo “normale” (quello che ancora vede la musica con la cassa in quattro come una indistinta colonna sonora per gioventù drogata e cazzoni in cannottiera), troppo mainstream e compromesso rispetto alla sfera underground (quella che ancora vede la musica con la cassa in quattro come una indistinta colonna sonora per gioventù drogata e cazzoni in cannottiera …ehi, curioso come le percezioni e le semplificazioni coincidano!).
Una posizione non facile.
(eccolo, “Metamorfosi”; continua sotto)
Posizione che rischia, col suo rumore di fondo, di mettere in secondo piano i punti essenziali di “Metamorfosi”: ovvero un disco dove un artista non passa all’incasso, perché non è né una raccolta di banger (minimal) techno da dancefloor da far comprare a tutti i fan che vogliono rivivere anche a casa o nelle proprio cuffie la sciamannaggine da dancefloor con le sue “bombe”, né è uno statament arrogante “Ecco, ora sono anche io il capo del mondo, pure io parlo pari a pari con le stelle mondiali” fatto impilando featuring di peso e di fama e di grana. I featuring che ci sono strettamente legati alla biografia personalissima di Capriati: Vega, Byron Stingily a testimoniare l’amore originario per l’house storica, James Senese a rappresentare il legame con la Napoli più effervescente ed iconica nel trasformare – anzi, napoletanizzare – la musica “urbana”. Ehi: non sono questi i featuring che ti guadagnano l’attenzione del pop e del mainstream, non sono questi i featuring che ti accreditano presso le masse da Tomorrowland.
E’ profondamente onesto, “Metamorfosi”. E ha anche momenti piuttosto belli. “Dust”, ad esempio, rarefatta ed affascinante; lo sci-fi un po’ vintage della iniziale “Improvvisazione”; ma ha un suo perché pure la “cavalcata mentale” di “Psychic Journey” così come la title track col suo riempirsi, o la finale e un po’ sorprendente “Let’s Change The World”, che ha più di un sapore West London (!) d’antan. In generale, comunque, è un disco solido. Non geniale. Non innovativo. Ma solido e, lo ripetiamo, felicemente onesto. Non ci siamo fatti problemi a bastonare Capriati quando era il caso (questo lo lessero in molti), quindi se scriviamo tutto ciò non è certo per timore reverenziale o per non inimicarci lui o la sua nutrita e bellicosa fanbase. E’ che davvero “Metamorfosi” è un disco che si ascolta con buon piacere, se ci si approccia senza pregiudizi, ed ha l’interessante capacità di poter “spiegare” tre decenni di musica elettronica da dancefloor a chi ne sa poco o pochino e, al tempo stesso, di essere un documento più che interessante ed ascoltabile per chi conosce (o proprio ama) Joseph e ne vuole approfondire la personalità creativa così come il background. E’ paradossalmente un disco più essenziale rispetto ai suoi lavori precedenti sulla lunga durata: più vario stilisticamente, ma più essenziale. Questo succede spesso quando hai raggiunto una consapevolezza che ti spinge a lavorare per sottrazione e non per aggiunta di elementi (suoni, bpm, scelte paracule) che servano a “farti fare bella figura”.
Se si cerca il genio, l’innovazione, il talento supremo e spiazzante, non ci sono; ma se queste cose si cercano e ancora di più si pretendono, è probabilmente perché da Capriati si pretende tanto/troppo visto che il suo successo è percepito come tanto/troppo: il meccanismo è questo. Giudicando invece il disco in modo tranquillo, è una di quei lavori che a casa, anche in un pre-serata, ti ascolti piuttosto volentieri e ti dà buone sensazioni, molto buone. Se a questo aggiungiamo che la cura di mix e mastering è di altissimo livello e che – torniamo al discorso iniziale – Capriati nel fare uscire questo disco ha ben presente le responsabilità che ha addosso e non si nasconde, il parere diventa ancora più positivo. Sarebbe stato più facile e più “comodo” per lui fare un disco più paraculo: avrebbe abbracciato con più facilità il mainstream e si sarebbe infine liberato delle radici underground; oppure, avrebbe potuto fare una semplice raccoltina di bombe e/o tool da pista, come fece a suo tempo Marco Carola con “Play It Loud”, altra soluzione sempliciona e “pigra”. Ha preferito essere onesto. A suo discapito. Ma a vantaggio di chi ama la musica da dancefloor in generale e vuole avere con essa un rapporto sano, rilassato, di fruizione e condivisione, senza usarla come una clava per imporre i propri gusti e il proprio essere “meglio degli altri”.
Bella scelta quella dell’onestà “aperta”. Speriamo la seguano in tanti. Mainstream o underground che sia. Sì, mainstream o underground che sia. Ah, e per chi vuole approfondire la questione “Metamorfosi” + Capriati, ecco qui, su Billboard Clubbing (…e che una rivista come Billboard abbia creato uno spin off “clubbaro” è un bel segnale).