E’ bellissimo parlare con Ryan Lee West, alias Rival Consoles; è bello tanto quanto ascoltare la sua musica. Se quest’ultima comunque è più legata alla poesia, alla complessità, ad un approccio “intelligente” (scusate l’aggettivo!) alla musica elettronica, quando invece parli con lui emerge prima di tutto l’umiltà e l’autoironia, il prendersi sul serio sì ma solo fino ad un certo punto. Un interlocutore spassosissimo. Che non solo ti fa sorridere ma, tra una battuta e l’altra, ti illustra in maniera molto lucida la sua attitudine e il modo in cui si sviluppa la sua routine creativa. Lo abbiamo incontrato per parlare dell’uscita del suo nuovo album “Now Is”: leggermente diverso dai predecessori (e Ryan spiega bene perché), ma come sempre materiale di alta qualità.
Ascoltando “Now Is”, viene quasi il sospetto che tu abbia voluto allontanarti dalla direzione – molto più complessa ed articolata – che avevano preso i suoi due predecessori “Articulation” ed “Overflow”. Come se in qualche mondo ne avessi paura…
Ma sai che è vero? Soprattutto “Overflow”: un disco, come dire?, colossale. Quasi intimidatorio. Tanto più che verteva su un tema piuttosto serio e profondo. Quindi sì: volevo andare in una direzione opposta, stavolta. Volevo esplorare un altro tipo di territori. Tanto più che “Now Is” è un disco costruito durante la pandemia: visto che io con la musica sono sempre alla ricerca di un “altrove”, era quindi inevitabile finissi col fare un disco più leggero, più arioso. Cercavo l’esatto opposto dell’isolamento, della cupezza, della paura. Io d’altro canto come producer sono sempre stato interessato ad adottare registri e direzioni differenti fra loro. Credo che non riuscirò mai a diventare il musicista che fa una cosa, e fa sempre e solo quella. Non che sia sbagliato in sé: semplicemente, non mi interessa.
Senti, tu sei incredibilmente prolifico. Otto album in tredici anni, e non sto nemmeno a contare gli EP… Come fai?
Perché ho molte idee! (risate, NdI) …anche se molte sono delle idee del cazzo (altre risate, NdI). In tutto questo però faccio ancora fatica a pacificarmi con l’idea che sono un musicista professionista, uno che fa musica per lavoro.
Davvero?!
Davvero! Ma più invecchio, più diventa intensa ed intrigante la mia relazione con la tecnologia. M diverto ad usarla, mi diverto a cercare nuove soluzioni – e non per forza le più complesse tecnicamente, anche seguire la semplicità e l’essenzialità sa essere una bellissima sfida, quando lavori con le macchine.
Mi sa che sei uno con una forte etica del lavoro. Quasi un’etica del dovere, ecco.
Beh sì, sono uno che lavora molto. Non sono uno che fa violenza su se stesso per essere produttivo sempre e comunque, non arrivo a questi livelli; però sì, mi piace molto stare in studio, fare, pensare a nuova musica, produrre. E in più sono anche in grado di non disperdere le idee: può capitare che riprenda in mano spunti di due anni prima. In questa maniera ho sempre qualcosa da fare, anche quando l’ispirazione per creare qualcosa ex novo non è al massimo.
E in tutto questo, qual è il ruolo del pubblico? Che posto occupa nella tua scala di valori?
Intendi quanto sia importante per me, e quanto pensi ad esso al momento di comporre musica?
Sì.
Beh, dipende. “Overflow” ad esempio era un disco che sapevo impegnativo fin dai concetti che vi stavano dietro, quindi sapevo che ad esempio dovevo mettere come prima traccia qualcosa di molto d’impatto. Il problema lì me l’ero posto eccome. “Now Is” invece è un lavoro molto più gentile ed introspettivo, non c’è mai stato bisogno di forzare la mano in alcun modo. Il che magari significa che catturerà meno l’attenzione della gente, chissà… Anche se penso che, chi mi segue, lo faccia perché apprezza il mio senso di libertà, il mio non fare troppi calcoli. Un senso di libertà che però non deve mai far dimenticare che la musica è, prima di tutto, una conversazione: non mi vedrai mai con l’atteggiamento “Oh, questa è la mia musica, vedete di farvela andar bene, che vi piaccia o no”. Non sono io! Mi piace sapere, una volta che i miei dischi sono usciti e le mie composizioni iniziano a circolare, cosa ne pensino le persone. Ma mentre creo, sono talmente risucchiato dal processo di lavorazione che semplicemente mi dimentico di pensare ad un potenziale pubblico per quello che faccio.
Allora ti chiedo: mi dai una definizione di “successo”?
La forma più bella di “successo” è quando qualcuno arriva da te e ti dice che la tua musica lo ha aiutato in un momento particolare della sua vita. Cosa c’è di più bello? Cosa c’è di più lusinghiero? Più di una persona mi ha addirittura detto che alcune mie tracce hanno aiutato a superare un lutto, ad elaborarlo. Come non restare impressionati – ed umilmente grati – per una frase di questo tipo? Del resto, già per me stesso la musica che faccio e creo è una terapia. Quando si crea una connessione di emozioni tra la musica e le persone, è lì il vero “successo”. Tutto il resto è accessorio.
Accessorio, ma c’è.
Beh sì, c’è.
E ci devi avere a che fare anche tu.
Intendo col lato business delle cose?
Esattamente.
Per fortuna ho un po’ di gente attorno a me che si dedica a questi aspetti, sono sarei fottuto! (risate, NdI) Io, sai, sono come un bambino: riesco ad essere solo un sognatore, nient’altro, il resto non mi viene bene o non mi viene proprio. Che è una cosa molto bella da un lato, per niente positiva dall’altro. Lo so. Non sono uno sfuggente, che non vuole avere a che fare col mondo e con le persone: anzi, se mi fate bere del buon vino divento incredibilmente sociale! E se mi chiedete di parlare di idee, beh, posso andare avanti all’infinito… Posso permettermi di essere così, di avere questo tipo di atteggiamento; e sono perfettamente consapevole che questo sia un grandissimo lusso. Sono grato al destino.
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Passi molto tempo con altri musicisti?
Eh sì, soprattutto con quelli che fanno cose simili alle mie, con una simile attitudine. Però, sai cosa? Nel futuro mi piacerebbe avere il modo di frequentare anche persone diverse da me, per interessi, attitudini e campi d’azione.
Chi sono i musicisti più simpatici?
Ce ne sono tanti! Visto che mi stai chiamando dall’Italia, non posso ad esempio non citare Alessandro Cortini, una persona bellissima.
In generale trovo che i musicisti, fra le varie categorie d’artisti, siano quelli mediamente più simpatici.
Basta non incontrarli prima che debbano salire sul palco! Io ad esempio penso di diventare insopportabile, sono concentratissimo, quasi autistico, non filo nessuno…
Sì sì, me ne sono accorto, t’ho visto in questo stato…
Scusami tantissimo! Se sono stato sgarbato o assente, non volevo!
Ma va’, ma figurati. L’ho presa invece come una grandissima forma di rispetto sia verso la tua musica che verso il pubblico che era pronto a sentirla, concentrarsi così tanto.
Bravo! Meno male qualcuno lo capisce.
Hai menzionato Alessandro Cortini e l’Italia. Allargando lo spettro, c’è qualche caratteristica particolare del nostro paese, del suo pubblico? E, in generale, i pubblici hanno delle peculiarità a secondo del posto in cui ti trovi o, nella scena elettronica “ricercata” tipo la tua, alla fine i pubblici si assomigliano un po’ tutti fra loro?
Io credo che delle differenze ci siano. Prendi ad esempio l’America: ora un po’ ci sono riuscito, ma per tanto, tanto, tantissimo tempo ho fatto veramente fatica ad entrare in sintonia col pubblico da quelle parti. Sembrava proprio che non capissero quello che stessi facendo e, in generale, cosa diavolo fosse la musica elettronica: ed è ironico, considerando che è una cosa che è nata e si è sviluppato prima di tutto da loro, con techno e house. Poi guarda, già questa risposta in realtà ti fa capire che brutte bestie siamo noi musicisti, quanto ego ci mettiamo senza accorgercene: magari non è che quel pubblico non capisse ed apprezzasse la musica elettronica, forse era semplicemente che non capiva e non apprezzava la mia…
Ma no, dai, non è vero. In America effettivamente per un sacco di tempo hanno avuto difficoltà con l’elettronica.
Poi, tanto per parlare di peculiarità di pubblici, in Belgio ad esempio come approccio sono serissimi. Mi ricordo una sera lì con Kode9, che alla fine è comunque un inglese incredibilmente simpatico ed alla mano, che quando suona vuole in primis far divertire, ma lo trattavano tutti come se fosse un professore universitario a cui dare del lei e da ascoltare con sacrale attenzione… E poi, gli svizzeri: so che suona maledettamente un cliché, ma loro sono veramente molto composti quando vengono a sentirti.
E cliché per cliché, quali sono quelli che toccano il pubblico italiano?
Guarda, io posso solo dire che ogni volta che ho suonato da voi mi sono trovato benissimo.
Ma è vero che ci piace la melodia, come da radicatissimo luogo comune?
Forse sì. Perché anche se io faccio musica strumentale, un po’ di melodia ce la metto sempre. Forse proprio per questo da voi piaccio. “Now Is” tra l’altro è molto melodico.
Del resto tu nasci come chitarrista, giusto?
Vero. E ti dirò di più: io ancora adesso mi sento un songwriter, anche se quello che faccio è musica elettronica strumentale. Amo la techno fatta bene, amo la musica da dancefloor, quella che fa ballare, ma la musica che faccio vuole comunque anche provare ad esprimere delle emozioni, dei colori, non solo a trascinarti fisicamente.
Occhio che sto per chiederti cosa ne pensi della deep house, allora…
Ma una volta per una battuta su questo genere di musica, che manco conosco o seguo particolarmente, ne è nata una polemica…
Te lo chiedo proprio per questo, mi ricordo benissimo quel tweet e tutto quello che ne seguì!
Mi pare che pure Pitchfork riprese la cosa, te ne rendi conto? E io che volevo giusto fare una battuta… A me piace fare battute. Poi, mi dimentico che c’è chi invece prende tutto clamorosamente sul serio, e vede la polemica lì dove invece c’era solo voglia di scherzare per un attimo. Del resto, pensa a me: cosa vuoi che pensi o mi interessi della popolarità attuale della deep house, o di qualsiasi altro genere codificato della musica elettronica? Io sono uno molto eclettico, mi piace variare. E sono anche molto consapevole che certe volte anche solo per un caso del destino ti può capitare di essere “di moda” per quindici minuti, ma tanto quelli come me se anche finiscono per caso dentro un hype sono inevitabilmente destinati ad uscirne dopo poco. Siamo troppo irregolari! Anche perché in fondo quello che a me interessa è fare musica; e non finire con tutti i crismi dentro una particolare categoria, vincente o perdente che sia.