Ci sono storie che incantano, lasciano il fiato sospeso e sarebbe un peccato non lasciarne una traccia scritta. Questo succede soprattutto quando si esce dal proprio “mondo”, quello per intenderci dove si è consacrati ed eletti a guru nell’emisfero di riferimento, venendo invece apprezzati anche da tutto un altro ambiente distante dall’habit naturale. Negli ultimi anni infatti si è letto e parlato tanto sulle sue avventure, le puntine consumate, i festival in giro per il mondo, ma poco ci si è soffermati ed interrogati su quello che è stato realmente lo spirito ed il pensiero di Claudio Coccoluto anche lontano dai giradischi. Dai Radicali di Pannella (un giro tra i podcast di Radio Radicale è una testimonianza concreta) passando per le tante ospitate in tv, sempre con un obiettivo davanti a sé: ribaltare facili preconcetti sul mondo della notte. Argomentando, come gli veniva naturale, quel messaggio inclusivo che puntava alla creatività di certi ambienti piuttosto che sulla demonizzazione tout court senza alcuna logica. Una testimonianza scritta di molti anni fa, la prima versione di “Io, DJ” risale infatti al 2007, fortunatamente riprende nuova linfa e come un immenso ologramma ci parla indicandoci un percorso non sempre regolare, dove le salite sono ripide, le scorciatoie illudono, ma le parole chiave su cui soffermarsi racchiudono valori come l’abnegazione, il sacrificio, il coninvolgimento, il continuo sperimentare. Per i sessant’anni di Claudio Coccoluto questo libro cult, curato da Pierfrancesco Pacoda, storica firma per il clubbing originario e per le “nuova musiche” italiane, riemerge; e così come accade in un remix/redit ben riuscito, lo si riveste dandogli un nuovo abito e quindi una nuova vita: nella ristampa dello scorso settembre il figlio Gianmaria ha infatti impreziosito tutto il racconto con scatti inedeti che ci rimandano ad un Claudio Coccoluto nella sua dimensione naturale – quel frullato di sana adrenalina che inonda e sommerge in un intenso abbraccio soffocante. Ma con sempre grande intelligenza, stile, consapevolezza.
L’intervista ha due protagonisti, Pierfrancesco Pacoda e Gianmaria Coccoluto.
Pierfrancesco Pacoda.
Nel 2007 hai avuto l’incarico di farti portavoce del pensiero di Claudio, come nacque l’esigenza di far “parlare” un dj e quali furono le prime reazioni ?
L’idea intorno alla quale con Claudio Coccoluto abbiamo nel 2007 costruito il libro non era quella di fare una sua autobiografia, “Io, DJ” non lo è, e Claudio non avrebbe mai accettato di parlare solo di se stesso. Volevamo raccontare il senso profondo del club, e farlo rivolgendoci a un pubblico non solo specializzato. Certo, è un libro per chi frequenta i club, per chi ascoltava le selezioni di Claudio, ma volevamo parlare anche ai lettori che non erano mai entrati in una discoteca, prendendoli per mano e portandoli in un universo dove l’espressione “intrattenimento” potesse dialogare con la parola “cultura”. Una necessità che oggi sento più di allora. Per questo, grazie a Baldini+Castoldi, il libro è uscito nella nuova, bellissima veste, arricchito dalle selezioni fotografiche curate da suo figlio Gianmaria.
Rileggendo il libro a distanza di 15 anni si ha come la sensazione che una certa visione del mondo della notte stava cambiando proprio in quegli anni, senza che tutti gli addetti ai lavori ne fossero consapevoli fino in fondo. I continui riferimenti a Londra ed Ibiza vengono ampiamenti analizzati con dettagliate considerazioni soprattutto dal punto di vista di un certo marketing pubblicitario. Che ricordi hai di questo preciso passaggio quando venne affrontato ?
Quando il libro è stato scritto eravamo vicini all’affermazione del dj superstar, della star pop da consumare come un qualsiasi concerto, perdendo quindi lo spirito originale del clubbing – ovvero l’essere una casa, una seconda famiglia per chi lo frequenta, uno spazio dove la socialità e l’incontro hanno ancora più valore della musica mixata. E’ stato un momento epocale, e il libro voleva proprio trasmettere quel bisogno della pista da ballo come spazio dello stare insieme, che per Claudio era la vera “club culture”.
La sua è sempre stata una voglia di “uscire” dal club portandone le atmosfere e le sonorità ad intrecciarsi in circuiti paralleli, rimanendo lui tuttavia ovviamente sempre integro rispetto al proprio mondo. Si può tranquillemente affermare che questa battaglia rimane il vero spirito che lo ha contraddistinto negli anni rispetto ad altri colleghi?
Si, è proprio così. Per Claudio il clubbing era la musica del superamento delle diversità, della cultura come forma di relazione tra le persone; e la musica è lo strumento naturale per far accadere questa magia. Questa cosa avviene sempre quando il suono entra in relazione profonda con le trasformazioni sociali, spesso addirittura le anticipa, le racconta, diffonde un messaggio di eguaglianza e di democrazia. In occasione del festival ROBOT a Bologna ho avuto il piacere di conversare con Laurent Garnier per la la presentazione del suo film “Off The Record” e lui, come Claudio, crede fermamente che i club abbiano una funzione “politica”.
Non so perché, ma questo libro potrebbe essere perfettamente una scenografia per un film incentrato sul ruolo del dj, lo stesso ruolo che i media non hanno mai compreso fino in fondo. Si può e si deve, dal tuo punto di vista, proseguire su questa strada alzando sempre più l’asticella e spingere la stampa anche non di settore ad interessarsi a queste vicende ?
Il lavoro di Claudio andava proprio in questa direzione. Era spesso in tv, veniva invitato ai convegni di Confindustria, ma, con la stessa energia partecipava a piccoli incontri curati da gruppi di giovani appassionati o a seminari in università. Certo, ci sarebbe bisogno che tutto questo continuasse e che lo facesse una nuova generazione, penso a Gianmaria e a tanti altri. Una generazione che riesca a raccontare il club come uno spazio pulsante all’interno dell’epoca nella quale viviamo.
***
Gianmaria Coccoluto.
C’è una frase che ho sempre in mente ogni qualvolta penso a Claudio: “Si inizia dal territorio, poi si passa al Comune di fianco, se le cose funzionano ci si sposta nell’arco di 50 chilometri, dopodichè se si hanno delle cose da dire il percorso viene da se”. In fondo era un pò la sua esperienza che voleva mettere a disposizione di tutti, soprattutto a chi gli chiedesse come approcciarsi a questo mestiere. Pensi che sia stata proprio questa la sua vera arma in più, capire insomma veramente l’essenza del tanto bistrattato “percorso”?
Il lavoro che faceva mio papà era molto radicato e radicale, come lui del resto. Viveva il suo lavoro come una vera propaganda: era come l’approccio del rappresentante politico che va casa per casa e si accomoda nel salotto delle famiglie per discutere delle proprie necessità. Mio papà era un po’ cosi, era convinto che la diffusione di questo messaggio dovesse essere personale, peculiare ed emotiva. Il risultato era un coinvolgimento totale.
I tempi ovviamente erano diversi, oggi quasi non si accusa più il fatto di non vivere in una grande città, si arriva ovunque partendo anche e soprattutto dalla provincia. Non credo che negli anni 70/80 però fosse proprio così: gli spostamenti erano meno frequenti e raggiungere le persone era difficile. C’è un anedotto in particolare che a pensarci su ti fa sorridere immaginando tutte le difficolà del tempo a definirsi un dj?
Assolutamente no. Essere nato a Gaeta e aver iniziato il sogno di fare il “passa-dischi” in una discoteca locale di certo non dava la percezione di quanto il mondo potesse essere così vicino, come in realtà lo è stato poi per mio papà. Parliamo ovviamente di un’epoca storica a livello tecnologico-comunicativo non paragonabile ad adesso. Tutto era più distante e meno facile da raggiungere. Penso che mio papà abbia vissuto la rivoluzione del primo telefono cellulare come la sua grande occasione per essere più inter-connesso che mai, per essere ovunque allo stesso momento senza dover rimanere isolato sulle Rive di Enea. Ricordo che cercava di farmi percepire esattamente quanto avesse investito e fiutato l’occasione di questa rivoluzione: mi spiegava che quella era la soluzione per l’indipendenza, la sua occasione per ampliare il messaggio di cui parlavamo prima.
L’artigianato poi ha sempre fatto parte del suo essere, oltre alla demolizione del dj come rock star c’era la difesa del vinile quasi ad indicare un segno d’appartenenza. È stato secondo te proprio quell’oggetto alla fine il vero filo conduttore di tutta la sua vita?
È stato sicuramente più l’oggetto che ha condizionato la vita di mio padre. Lo ha incontrato a 14 anni e ha portato con questo oggetto un rapporto carnale fino agli ultimi giorni della sua vita.
Per finire non possiamo che citare The Dub, ormai una realtà ben solida con all’attivo molte produzioni. Com’è organizzata attualmente l’etichetta e quali saranno le prossime uscite che ti vedranno protagonista ?
Il lavoro fatto su The Dub da parte dei suoi fondatori (C.C., Savino Martinez e Dino Lenny e poi in seguito da mio papà in solitaria, e poi io con lui) è stata un’operazione creativa e spontanea di necessità di comunicazione attraverso la musica. Adesso la label è in fase di “ristrutturazione”. Il primo passo sarà l’annuncio di una grossa release a cui stiamo lavorando da tempo. The Dub sarà il playground dove vogliamo che tutto il “Claudio Coccoluto heritage” sia espresso alla sua massima potenza. Personalmente con la mia musica mi vedrete coinvolto su Dubblack, sorella neonata di The Dub, con cui cercherò di esprimermi attraverso quello che considero il mio suono.