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Primavera Sound 2015: “il Festival che apre i Festival” anche quest’anno rispetta gli standard delle edizioni passate

Due italiani espatriati – uno di base a Berlino, l’altra a Barcellona – per una review a quattro mani sulla 15ª edizione del Primavera Sound. Non è che durante l’anno a Berlino e Barcellona fossimo a corto di musica, ma il festival barcellonese è l’appuntamento per eccellenza che apre la stagione dei festival europei. Come dire che dopo quattro giorni di Primavera Sound, e una lunga estate davanti, ti resta una voglia di festival ancora più grande.
Il Primavera Sound è – non solo nell’immaginario collettivo – il primo festival della stagione, quello che prima di tutti ti catapulta in una marea di proposte freschissime che morivi dalla voglia di vedere. Un festival colossale dove l’espressione “a formato d’uomo” te la puoi dimenticare. Questo vale ancora più da quando il PS ha invaso innumerevoli spazi fuori dal Parc del Forum – la location principale – con tutta una serie di appuntamenti un po’ dispersi, o un po’ dispersivi, dipendendo dai punti di vista. Insomma, salvo che non trovi il tuo microcosmo in un palcoscenico in particolare, allora preparati a lunghissime trasferte. Parliamo di camminate allo stile Glastonbury, ma con il vantaggio che al PS siamo sul mare, e che finita la festa, all’uscita non ci aspetterà un campeggio, ma una comoda metropolitana, un taxi, e perfino qualche venditore ambulante di birra a 1 euro.
Ma prima di raccontarvi com’è andata quest’anno, i quindici anni del PS meritano ricordare qualche cifra, quei numeri che aiutano a spiegare la manifestazione in tutta la sua grandezza: oltre dieci palcoscenici solo all’interno del Parc del Forum (un’area di 300.000 m²) – senza contare tutto quello che c’è in programma in giro per la città – circa 300 artisti e un’affluenza di 175.000 spettatori. Dati di fatto cui si aggiunge un impatto economico che raggiunge quasi i 95 milioni di euro, con un interesse turistico che, laddove il 46% del pubblico è straniero, non ha nulla da invidiare alle grandi città d’arte o alle mete di punta estive. Eppure non è sempre una questione di grandi numeri. A 15 anni dal suo debutto qualcuno dovrà pur chiedersi se il festival, oltre a crescere in numeri, continua a mantenere lo spirito originale.

Alt-J 04 Eric Pamies

Il Primavera Sound, è giusto dirlo, è stato anche un modello a livello di organizzazione. Poche code, quasi nessuna, per raggiungere i palchi, per raggiungere i bagni pubblici, per prendere da bere, per assistere ai concerti prenotati dell’Auditori Rockdelux.

Entrando nel vivo del discorso, e quindi di ciò che sono state le vene del festival, ovvero ciò che ha fatto percorrere i chilometri da un palco all’altro a quelle centinaia di migliaia di persone di cui parlavamo, vorremmo iniziare con l’elencare quelli che per noi sono stati gli act migliori (tra quelli che abbiamo visto dato che, molto banalmente, sarebbe umanamente impossibile assistere ad ogni concerto). Dunque, senza badare né all’importanza dei citati, né al programma/orari/giorni, ecco il podio del nostro PS, scelto, in modo particolare, per l’emozione che i prescelti sono riusciti a trasmettere. Abbiamo volutamente tralasciato le regole di selezione e le direttive classiche:

Antony: Per molti, probabilmente, al mondo esistono tante certezze, alcune conclamate altre che ci si va a prendere, con la forza, con la fortuna. Per altri, altrettanto probabilmente, le certezze a cui aggrapparci sono davvero poche e quindi ci si sforza il più possibile per non perderle. Se potessimo – e forse possiamo – rapportare questo discorso alla musica, in linea totalmente generale, potremmo dire che Antony, a livello artistico, è una delle grandi certezze su cui questo nostro mondo può contare. Ciò che fa è splendido, come lo fa. Accompagnato sul palco dall’Orquestra Simfònica de Barcelona i Nacional de Catalunya e da una proiezione artistica che rievoca gli stilemi del Butoh, sfiora le teste e il cuore di tutti con la sua magnifica voce. Una voce gigante che si sparge come polvere di stelle sulle migliaia e migliaia di persone che lo ascoltano. Riuscendo, a tratti, a zittire letteralmente l’oceano di persone. Arrivando a picchi di perfezione artistica inquantificabili. Qualcosa di unico e di raro.

Einstürzende Neubauten: Blixa a piedi nudi sul palco, i suoi compagni accanto a lui, come folletti bizzarri. Quasi due ore di Einstürzende Neubauten. Questo dovrebbe bastare, perché la loro magia è proprio questa: essere quello che sono, pragmaticamente. Se dobbiamo, e senza dubbio possiamo, aggiungere qualcosa, lo facciamo ricordandoci cosa vuol dire inventare e regalare al mondo, per venticinque anni, la loro concezione della musica. Avanguardia è la parola esatta. Piccolo siparietto al termine del concerto, quando Blixa si arrabbia parecchio con i suoi per aver chiuso troppo presto – veramente questione di secondi – l’ultima canzone.

Josè Gonzalez: Lo svedese figlio di argentini suona indoor, sul palco dell’Auditori Rockdelux, quello stesso palco che durante tutta l’edizione ha visto alternarsi gente come Tony Allen, Panda Bear, Mark Kozelek, gli Swans, Patti Smith in versione Unplugged. Accompagnato da una formazione ridotta (spesso le sue esibizioni si esauriscono a voce e chitarra) lascia scivolare il meglio del suo repertorio, andando dai primi successi, come “Remain” e “Hints”, alle ultime cose di “Vestiges & Claws”, passando, naturalmente dalle sue cover. Standing Ovation in chiusura, dopo quella versione meravigliosa di “Heartbeats”.

Seguono ora quelli che mettiamo sicuramente sul carro dei vincitori:

James Blake: Le aspettative, lo ammettiamo, erano medio/basse e sono state smentite da un’esibizione che ha avuto del perfetto. Momenti di profondissimo soul intervallati da momenti di speri-clubbling divertentissimo. Un inedito: “Radio Silence” dell’album omonimo in prossima uscita.

Sunn O))): Chiaramente la band di Seattle funziona immensamente meglio al chiuso, ove riescono a ricreare quell’atmosfera infernale e angosciosa che li contraddistingue e li posiziona in una sorta di Olimpo del doom e del drone e del metal. Detto questo, sembrava si aprissero crepaccia nella terra, davanti allo stage ATP e, sembrava che quei crepacci ci avrebbero risucchiati tutti, portandoci in baratri d’interminabili notti oscure.

Yasmine Hamdan: Bellissima, la libanese di base a Parigi. Un lampo di Venere tra i vampiri di Jarmush. Un concerto perfetto, trip hop virtuoso, movimenti sinuosi. Un’ora di occhi incollati sul palco.

Damian Rice: Venti metri di palco, nessuna band. Lui solo, insieme alla sua chitarra e ad una loop station. Il meglio del suo repertorio per tenere incollate le migliaia di persone davanti allo Stage Primavera. Solo una cosa: non era forse meglio metterlo su un palco di dimensioni più ridotte? Non avrebbe reso ancora più intima un’atmosfera che aveva bisogno di esserlo e che, in ogni caso, è riuscito a rendere?

The Juan MacLean: John MacLean, già LCD Soundsystem e Six Finger Satellite, porta sul palco la sua “quasi omonima” band – in realtà sarebbe un duo in studio, in compagnia di Nancy Whang, e un trio, con l’aggiunta di metà degli Holy Ghost! Nicholas Millhiser. Una vera e propria festa, che porta al pubblico sonorità anni ottanta rese fresche da inserti house e nu-disco.

Patti Smith: La quasi settantenne poetessa insegna a molti cosa vuol dire stare su un palco, cosa vuol dire amare la musica. Cosa vuol dire prendere migliaia di persone e portarle il più in alto possibile.

Sun Kil Moon: Tra stand-up comedy, reading e poesia, c’è la musica e Mark Kozelek. Una sicurezza. Se queste fossero pagelle calcistiche, lui avrebbe il voto riservato al capitano, il quale, se fa una buona partita, si tende ad aggiungere, mentre se fa il suo lavoro, si tende ad affossare. Mark ha giocato una partita da otto.

Run The Jewels: Album dell’anno Pitchfork, l’hip hop del futuro, lo abbiamo ballato tutto fino alla fine con le ginocchia in preda ad un’implacabile ondeggiare. Uno show hip-hop così non lo vedevamo da tempo al PS, forse dai tempi di Wu-Tang Clan nel 2013. Bravo il PS e la magia del vero hip hop americano live.

Poi ci sono quelli da cui ci si aspettava onestamente di più, quelli che avrebbero dovuto regalare e non fare il proprio compito, tra questi citiamo sicuramente Strokes ed Interpol che sì, va bene, sono bravi, i primi soprattutto che a sentirli sul palco sembra quasi di ascoltarne i dischi. Gli Interpol invece che, nonostante dimostrano di essere una grande band (per alcuni dei album e dei brani che hanno prodotto), sembrano sempre salire sul palco per portare a casa un lavoro in fabbrica e non per trascinare. Oppure The Black Keys tra i nomi di punta sulla carta, ma non nelle valutazioni finali. Tori Amos, anche lei limitatissima. Limitatissimi con il suo pianoforte e la sua voce che, ad oggi, annoia più emozionare.
Richie Hawtin che spostiamo nella lista di quelli da cui ci si aspettava tutto ciò che ha fatto, ovvero tre errori di mixing nei primi dieci minuti di set. Occorre che diciamo altro?

Poi c’è stata gente citabile, che sta nel limbo di quelli che hanno suonato bene, senza infamia ne lode. E va bene così, alla fine dei conti. Gli Underworld ad esempio, Gui Borrato, Simian Mobile Disco, The Battles. Loro.

Daphni 01 Pere Masramon

In ultimo, il Bowers & Wilkins stage l’epicentro dell’elettronica al Primavera Sound 2015, con il palcoscenico sponsorizzato dalla longeva compagnia americana di altoparlanti Bowers & Wilkins. Più che un palcoscenico, quello di B&W è ormai diventato per tutti il “tendone elettronico” del Primavera Sound. Un gigantesco igloo sul mare dove da due anni a questa parte si condensa il focus dell’offerta di musica elettronica del PS. E per quest’anno, line-up curata da Resident Advisor per una notte, e dalla Red Bull Music Academy per le due notti successive, con uno speciale showcase sull’etichetta barcellonese Hivern Discs. Una schiera di nomi internazionali, dai Tale of Us a Dixon, passando per Daphni, Roman Flügel e fino a un buon elenco di spagnoli come John Talabot, Chelis, bRUNA, Sunny Graves e il progetto di Marc Piñol, C.P.I. Gioia di quegli amanti dell’elettronica che fino a poche edizioni fa correvano da uno stage all’altro per seguire il loro personalissimo programma, gioia di quelli che volevano vivere le sfumature di un’esperienza a metà tra clubbing e festival al PS. E forse è grazie a Bowers & Wilkins che ti rendi conto che fuori da questo tendone semi-aperto, gli altri palcoscenici difficilmente offrono la stessa esperienza, almeno dal punto di vista acustico di piena immersione. Il suono dettagliato e incredibilmente dinamico di un sistema acustico a 4 vie da 135.000 watt, insieme con l’impeccabile produzione e i visuals studiatissimi: questi i primi e veri protagonisti del palcoscenico B&W. Tre grandi show – di diversissimo formato – hanno fatto da cappello alla line-up curata dalla Red Bull Music Academy: l’house teutonica di Dixon, la elettronica dance afro-bit di Daphni e uno spagnolo sulla cresta dell’onda come John Talabot. Ma andiamo con ordine. Il venerdì della RBMA ci ha fatto immergere in una selezione di suoni oscuri e sperimentali firmati da ex-alunni dell’Academy, con Dixon special-guest. Un dj set dal sapore tutto londinese per il duo Raime, con tanto punk, grime e drum & bass, passando poi per la minimal wave dell’americana di Veronica Vasicka e così tirando di sonorità dark e profonde fino alla techno di Objekt. Un occhio di riguardo ai suoni nazionali del venerdì del RBMA, che con Sunny Graves, bRUNA ed Exoteric Continent, ci ha regalato un vero e proprio assaggio di underground barcellonese in formato festival. E come a enfatizzare il legame della RBMA con il “suono Barcellona”, la seconda e ultima notte della RBMA ha chiuso alla grande con lo showcase congiunto Red Bull ed Hivern Disc, l’etichetta barcellonese capitanata da Talbot, ormai da qualche tempo a questa parte punto di riferimento per l’elettronica “made in Spain”. Cominciando dal live tribale del duo di Tel-Aviv Red Axes, fiore all’occhiello delle adozioni internazionali di Hivern, passando per un John Talabot che così disco-funk non si era mai visto, e fino a C.P.I, il nuovo progetto acid-disco di Marc Piñol e Hugo Capablanca, due artisti che fanno da ponte ideale tra Barcellona e Berlino grazie a non poche collaborazioni con “Hivern Discs” e con l’etichetta berlinese “Coméme”, fondata dallo spagnolo Matias Aguayo. Se è vero che nel PS ce ne è davvero per tutti i gusti, laddove è l’eclettismo il fattore vincete, allora possiamo dire che B&W ha fatto il miracolo di sorprenderci per il secondo anno di seguito con una selezione, una produzione e un’esperienza di suoni che copre la domanda sempre più esigente di un corner formale per l’elettronica al PS.

Mancano dei nomi all’appello, come abbiamo già detto all’inizio di questo report, ma è normale; le distanze e gli orari sono un ostacolo a ciò che di umano può fare una persona, a meno che questa non possa clonarsi, cosa che abbiamo sperato, talvolta, con tutto noi stessi. Un po’ difficile riconoscere nell’immenso PS quel mondo della musica indie, indipendente e autogestista, che fa a pugni per emergere dalla massa con le sue sole forze. A parte la consueta fiera discografica, tantissime barbe hipster, e una line-up che copre un buon tasso di artisti glorificati da Pitchfork, ci chiediamo se questo basti ancora a definire come “indipendente” la linea artistica del PS. Di certo vi è che al pubblico non si risparmia un’ampia presenza di marche commerciali che invadono lo spazio musicale. Per non parlare della tipizzazione dei palcoscenici, che per alcuni è una questione di sponsor, per altri è l’essenza di una linea artistica che nessuna marca può più toccare. Ma del microcosmo indie restano almeno tante band emergenti destinate alle fasce orarie meno affollate e i concerti gratuiti, il tutto per i veri appassionati che sono riusciti a reggere le dodici ore di festival. Per fortuna ci pensano una buona dose di grandi nomi, una line-up che copre tutti i generi, e il programma PRO destinato ai professionisti, a far spostare l’attenzione su qualcosa di effettivamente nuovo in cui si è trasformato il Primavera Sound. Solo una cosa, per la parte barcellonese dei due inviati alla manifestazione, la produzione del PS, a livello acustico, resta sempre alquanto carente, s’intenda nelle limitazioni per il fatto che sia all’aperto, ma resta la verità che, se non sei in una buona posizione rispetto agli altavoci (B&W), puoi dimenticarti di sentire uno show così come merita.

[A cura di Enrichetta Cardinale e Mattia Grigolo]