Ora, sinceramente: a leggere gli elogi sperticati per i Nu Genea viene da pensare due, tre cose. La prima: in origine questi elogi erano meritatissimi, perché il loro lavoro di ricerca-recupero-mimesi era gustosissimo e fatto con una competenza rara (come del resto dimostrato anche nelle loro sortite precedenti, quelle “afro”, non baciate dall’hype). Due: effettivamente non è così facile ed immediato dare “respiro” ad un progetto del genere traducendolo anche in materiale originale, e in concerti veri e propri con tanto di full band, e loro invece l’hanno fatto. Di nuovo: con competenza e gusto.
Fin qui tutto bene, no?
Il terzo pensiero, al momento minoritario, lo sappiamo, potrebbe però essere: bello, bellino, ben fatto, sì, ma anche basta. O meglio: più che “anche basta”, che sarebbe ed è troppo brusco ed è troppo arrogante e da loro immeritato, sarebbe più corretto un “Ok, va bene, ma ora è il momento di fare il salto di qualità. No? ”. E qui sta il punto: il salto di qualità, il rilancio creativo. Un punto che un po’ ci sorprende un po’ no vedere completamente ignorato attorno a loro. Completamente. Perché ciò che più stona in “Bar Mediterraneo”, ciò che più fa da campanello d’allarme, è proprio il suo pregio: è pieno di canzoni scritte veramente bene, l’album. Magari anche derivative; ma con riff, ritornelli, strofe e ganci molto efficaci. Si vede che c’è un reale talento di fondo. Correggiamo: un reale e grandissimo talento di fondo.
Il problema è che questo talento viene ormai lasciato a macerare senza scuse e senza imbarazzi in un effetto-cartolina che, se va bene in una operazione di compilation per diggers, per fissati dei dischi di seconda mano e della meta-fruizione da dj/collezionista, ad un certo punto facciamo invece fatica a prendere per buono e ad accettare in quello che è, a tutti gli effetti, nuovo materiale originale di un progetto tanto chiacchierato e tanto lodato.
(Ecco “Bar Mediterraneo”; continua sotto)
Ci spieghiamo: se le tracce di “Bar Mediterraneo” per le loro qualità intrinseche venissero “sfidate” con arrangiamenti particolari e creativi, con la voglia e la forza cioè di mescolare elementi stridenti come citazionismo filologico ed ipermodernismo, si potrebbe veramente arrivare ad un disco della madonna, ad una specie di “My Life In The Bush Of Ghosts” del nuovo millennio. Esageriamo? No. Massi Di Lena e Lucio Aquilina sono clamorosamente bravi e talentuosi: avrebbero tutti i mezzi per farlo, la loro conoscenza di linguaggi musicali diversi (per chi non se lo ricordasse: hanno esordito ventenni facendo minimal techno pura) è vastissima e viaggia su un livello di qualità adamantino. “Bar Mediterraneo”, ad orecchie attente che non pensino solo al cazzeggio ed alla toccata di gomito, lo fa intuire eccome.
“Vesuvio” dilatata e dubbata – anche con scelte digitali non convenzionali a contorno – verrebbe fuori una cosa semplicemente strepitosa, giusto per fare un esempio. Ma questa traccia, esattamente come tutte le altre dell’album, pare in qualche modo “rassegnarsi” al suo essere nata cartolina, al retrocitazionismo giocoso cioè da recupero di vinili polverosi anni ’70 nei mercatini: è un gioco divertente se fai un dj set, ma se fai un disco – e se hai le capacità che hai, e accidenti se le hai – francamente inizia a non bastare più. No, non basta più.
Sarà sgradevole, ma qualcuno deve pur iniziare a dirlo: già, non basta più. Ci sono mille motivi per fare il tifo per i Nu Genea: perché sono bravi; perché sono autentici; perché sono sinceri; perché portano in alto la bandiera dell’italianità rare-groove-meditarranea nel mondo; perché vanno al Dekmantel e spaccano tutto; perché li fai sentire anche a tua zia sessantenne e lei si diverte. Ma tutto questo ha dato vita ad una spirale per cui parlare bene di loro è diventata quasi una coazione a ripetere, ed un luogo comune.
Invece, proprio per amore delle loro potenzialità musicali e per amore di loro come artisti, ci mettiamo nella posizione scomoda di dire che: “Bar Mediterraneo” è anche bellino, ok, ma è sostanzialmente una delusione. Perché è in primis uno statement di pigrizia creativa, di poco coraggio. E’ un voler fare, in ultima analisi, quello da cui loro stessi erano fuggiti mille anni fa, all’epoca dei successi danceflooriani in campo minimal: insistere su un certo tipo di vena solo perché funziona, solo perché tutt’attorno chi si concentra più sull’aura che sull’arte ti copre di applausi e grida d’incitamento, e a te va bene così.
Capiamo che ad un certo punto, dopo anni e anni di gavetta e ad essere ignorati (considerati come scemi che hanno voltato le spalle al successo, ai soldi, alla figa: per anni Massi e Lucio sono stati considerati così, nel giro del clubbing), ad un certo punto ti venga da dire “Ma vaffanculo, ora che le cose vanno bene me le voglio godere sino in fondo, e se la formula funziona la porto avanti il più possibile, eccheccazzo”. Per giunta quando finalmente hai una label seria e strutturata alle spalle, e mille date in calendario. Resta però l’amaro in bocca.
Fanno male e ci fanno male, sì, tutti gli elogi che stiamo leggendo per “Bar Mediterraneo”: sono gli elogi di chi non conosce (o finge di non conoscere) la storia dei suoi autori e il loro potenziale. Sono gli elogi di chi vive e respira la musica come un abito, come un accessorio divertente da sfoggiare, e non come una sfida artistica da giocare il più possibile al rialzo.