Il tema è importante. E’ fondamentale. Proprio per questo non solo va trattato, ma anche – e soprattutto – va trattato con feroce attenzione e lucidità. La “notizia” (ora vi spieghiamo le virgolette) è di questi giorni: Michael James, l’uomo che con May ha una faida lunga decenni legata ai diritti di “Strings Of Life”, ha (ri)lanciato accuse nei confronti di May medesimo spostandosi però su un campo molto più grave: quello delle molestie e della violenza sessuale. Asserisce di aver raccolto decine di denunce e di racconti sui comportamenti inappropriati di May, mette in campo addirittura l’accusa (sotto forma di “mi hanno detto che…”) di aver drogato delle donne per poi abusare di loro. Difficile non vedere l’uno-due che hanno queste accuse se si ripensa a ciò che è successo con Morillo pochi giorni prima: la sua morte ha colpito tutti, ma da più parti si è sollevato oltre al cordoglio anche il fastidio per una persona che non solo negli anni spesso non ha avuto condotte da gentleman (documentate, testimoniate da molti) ma che soprattutto stava affrontando un processo per un crimine odioso (anche nel suo caso, si parla di aver drogato una donna per poi approfittarsene); c’è chi dice, ma sono solo supposizioni pure un po’ macabre e di cattivo gusto, che la sua morte non sia stato altro che un suicidio commesso a pochi giorni dall’udienza processuale. Difficile sapere cosa passi nella testa di un essere umano. Se poi non lo conosci di persona, è impossibile.
Insomma: il tema del comportamento tossico maschile, nella scena del clubbing, è tornato prepotentemente d’attualità. #MeToo nei dancefloor. Nel caso della morte di Morillo, il fastidio di molti è nato dal fatto che la sua grandezza d’artista avesse cancellato nel ricordarlo i lati oscuri del suo comportamento negli anni passati e presenti (per quanto ci riguarda, nell’annunciare la sua morte abbiamo voluto ricordare anche il lato oscuro: non ci sembrava giusto farlo passare sotto silenzio); con May si sostiene che di nuovo si stia scatenando la stessa dinamica, la sua indubitabile enormità artistica porta a sottostimare la gravità dei suoi comportamenti ed atteggiamenti. Ma le cose stanno veramente così?
I processi sono una cosa seria: si devono basare su prove e testimonianze che devono essere attentamente soppesate e valutate da entrambe le parti in contesa. Tutte cose che su Facebook non accadono
Risposta: forse. Ma risposta ancora più precisa: in realtà, non è questo il punto. Ci si è fissati su Morillo, come ora in molti si fissano su May, ma condannarli è solo apparentemente una soluzione e solo apparentemente un modo per migliorare le cose, per denunciare la mascolinità tossica colpendo dei “simboli” (“Colpirne uno per educarne cento” non ha portato molta fortuna come claim, bisognerebbe ricordarselo). In realtà, è una distrazione di massa, fissarsi su May/Morillo colpevole sì colpevole no. Una pericolosa distrazione di massa intrisa di giustizialismo. Che – e questo è il punto principale – a lungo andare fa del male prima del tutto alla causa che vorrebbe sostenere. Sì, a lei.
E’ imbarazzante vedere come su internet ci si scateni subito a sancire la colpevolezza (o la innocenza) di May ora, di Morillo prima. O meglio: ha senso se lo fa chi ha conosciuto direttamente i personaggi in questione, e vuole riportare la sua esperienza personale. Ma nel farlo, dovrebbe ricordare che non è perché si è comportato bene (o male) con te, allora è per forza una persona che si è comportata e si comporta bene (o male) con tutti. Noi non siamo il mondo. Se un giorno ci siamo intrufolati in console e May ci ha battuto il cinque sorridendo, non significa che lui sia una persona perfetta che non può fare cose brutte. Al tempo stesso, un autentico cancro è la versione 2.0 del “telefono senza fili”: “Mi hanno detto che…”, “Chi ha organizzato una serata mi ha riferito che…”, “Un mio amico gli ha visto fare…”. Solitamente è verso la prima media che si inizia a capire la differenza tra realtà e ciò che viene riferito, tra pettegolezzo e certezza in prima persona; anche se sì, capiamo che in una società barbaradursizzata molto più di quanto si creda (anche nei ceti più intellettuali ed anti-televisivi), il gossip e la necessità di avere/sapere dei retroscena abbia un potere attrattivo libidinoso, aiuta a farci sentire protagonisti&unici in una società sempre più veloce, sempre più spersonalizzata, sempre più standardizzata, dove il potere (e il denaro) sono sempre più immateriali.
Ma qualsiasi cosa accada, che voi May o Morillo li conosciate bene di persona oppure invece poco per sentito dire, non è Facebook il posto adatto per emettere delle sentenze definitive. Non lo è, perché il tribunale di Facebook si basa su prove ed argomenti molto superficiali, friabili: dei post sui social (che possono essere di parte), degli articoli di giornale (che si basano su indizi e talora supposizioni e non su prove), su appunto dei “sentito dire” spesso incontrollati e spesso gonfiati dalla voglia di sentirsi protagonisti, di sentirsi insider, informati. Davvero si ha il coraggio di condannare una persona sulla base di tutto questo, pardon, solo di questo? Davvero basta un articolo di giornale per decidere che sì, una persona è effettivamente colpevole di quello che viene accusata, soprattutto nel caso di crimini così spregevoli e gravi? Vi rendete conto delle conseguenze che l’adeguarsi a questo modo di pensare può avere, della bassa dinamica tribale che instaura, della deriva orwelliana?
Risposta: no. No, perché se ve ne rendeste conto ci andreste molto più cauti. Leggere cose su Morillo che partono dall’assunto “He’s a rapist”, come se fosse una cosa certa ed assodata, come se voi lo sapeste in prima persona, è barbarie ed ignoranza; soprattutto, è il viatico per una società oscurantista, tossicamente moralista, dove le opinioni e i giudizi di valore aprioristici vengono prima dei fatti (lo ripetiamo: “prima dei fatti”). I processi sono una cosa seria: si devono basare su prove e testimonianze che devono essere attentamente soppesate e valutate da entrambe le parti in contesa. Tutte cose che su Facebook non accadono (lo ripetiamo: non accadono), vista l’ansia di avere tutti un’opinione, netta ed immediata, da urlare e postare, ripostare e supportare.
Se siete arrivati fino a qua, leggendo, e vi siete giù fatti l’idea che questo articolo sia da rubricare sotto un “Lasciate in pace May, lasciate in pace Morillo, smettetela con questa caccia alle streghe senza senso!” beh, o non avete capito un cazzo, perché avete deciso di saltare alle conclusioni prematuramente (altro difetto da comunicazione web…), o siete prevenuti. Quello che va lasciato in pace è il caso processuale di Morillo (ammesso che vada avanti) o di May (gli avvocati sono già al lavoro, a sentire i coinvolti; e da entrambe le parti). Che siano insomma gli investigatori preposti e le aule di tribunale a parlare, senza il rumore di fondo della canèa di opinionisti da Facebook a fare il tifo. Il punto è che, al di là dei casi specifici, su cui (si spera) si farà chiarezza, un problema di maschilismo tossico nell’ambiente del clubbing c’è. E da tanto.
Il principio è molto, molto semplice, e davvero non ci vuole una laurea in ingegneria aerospaziale per capirlo: nel clubbing (ma anche nel resto della società…) saremo in una fase “normale” solo ed unicamente quando la presenza professionale di maschi e femmine (e di chi non si riconosce in una di queste due identità) sarà proporzionale ai dati demografici
E’ paradossale che ci sia, perché parliamo di un mondo che ha nel DNA nativo l’inclusività nei confronti delle minoranze e degli oppressi (ed è questo il motivo per cui ce la prendemmo tanto con Ten Walls). D’altro canto, però, sarebbe infantile credere di poter restare per sempre una bolla fatata e arcobalenica isolata dalla società. Una società, la nostra (anche quella europea, più avanzata sui diritti civili rispetto ad altre zone del mondo), dove c’è ancora una evidente, numericamente riscontrabile e sociologicamente lampante discriminazione di genere. C’è per mille motivi: per abitudine inconscia, per dinamiche economiche stratificate, per sfere d’influenza professionale. Il principio è molto, molto semplice, e davvero non ci vuole una laurea in ingegneria aerospaziale per capirlo: nel clubbing (ma anche nel resto della società…) saremo in una fase “normale” solo ed unicamente quando la presenza professionale di maschi e femmine (e di chi non si riconosce in una di queste due identità) sarà proporzionale ai dati demografici. Se sulla terra siamo più o meno 50/50, nel clubbing la “normalità” sarà solo quando più o meno dj e producer saranno metà e metà, quando manager ed agenti saranno metà e metà, quando promoter e direttori artistici saranno metà e metà. Il fatto che questo non accada si basa solo su retaggi storici e di dinamiche socio-economiche, e non su “imposizioni” fisiche, fattuali. Konstantin che dice che le donne non sono buone a fare le dj è un cretino, punto. Dice una stronzata megagalattica.
I numeri attuali dimostrano insomma che una discriminazione c’è e c’è dovunque. Dimostrano che il clubbing, esattamente come quasi tutti gli altri settori del nostro mondo, è purtroppo permeabile ad una serie di dinamiche tossiche su cui, finalmente, dopo troppo tempo, si inizia a porre attenzione, il tutto alla ricerca di una equità ed uguaglianza che, signore e signori, non può che fare del bene alla collettività. Questa discriminazione nasce da cause stratificate nei secoli, nei millenni; quindi raddrizzarle non sarà un affare di cinque minuti e sì, il raddrizzarle passerà anche per momentanee ingiustizie e per contrasti vari. Non esiste cambiamento indolore.
Andando dritti al punto: esiste il maschilismo nel nostro ambiente, esiste la pretesa di considerare le donne degli oggetti “a disposizione”, esistono dei comportamenti che anche se non criminali (qualche volta pure quello…) sono comunque esecrabili e da combattere, da criticare, da contrastare. Non nascondiamoci dietro un dito, o dietro una difesa d’ufficio di May o Morillo. May o Morillo possono essere anche innocenti, ma questo non significa che – come d’incanto – allora ogni accusa di discriminazione di genere è e sarà una cazzata per principio. Lo ripetiamo: ci sono i crudi numeri a dimostrare che esiste una sperequazione di presenza, di rappresentanza, di potere. E ci sono anche molte dinamiche consolidate biecamente prevaricatrici a cui sarebbe il caso di dare, finalmente, un taglio.
Una delle dinamiche più velenose ma più sottovalutate in tal senso sapete qual è? Lo scarico di responsabilità. Ed è una dinamica sia maschile che femminile, anche se si attua in maniera diversa (…e c’è più dolo in quella maschile, visto che a più potere corrisponde più responsabilità).
Prendersela con la Lens è vacuo. Lei si è limitata ad usare (…bene, meglio di moltissimi altri…) le nuove armi promozionali che la tecnologia e l’industria ci hanno dato. Ma quando lo fa Black Coffee, o quando lo fanno i Martinez o Sven, non saltano mai i disgustosi dispregiativi su base sessuale, etnica e di genere che invece saltano fuori quando sono coinvolte donne o gay o trans o minoranze varie
Pensateci: quali sono gli argomenti “di difesa”, in certe discussioni clubbare in cui entrano questioni di genere? Quante volte avete sentito dire “Io non sono maschilista, ma il successo delle Amelie Lens e di tutte ‘ste donne dj è una vergogna, loro fanno schifo”? O anche: “Io non sono maschilista, ma quante sono le donne che si approcciano in console e fanno di tutto per essere provocanti”? Ora: può essere vero che oggi le donne che fanno techno sono sovra-rappresentate, sovra-apprezzate, sovra-retribuito, può essere vero che una donna carina in console che batte la cassa in quattro ha più probabilità di farsi notare (e di entrare nel giro “giusto”) rispetto a chi invece coltiva la musica con passione. Negarlo, è stupido. E’ mettere la testa sotto la sabbia. Ok.
Peccato però che manca la parte finale del ragionamento: il successo di Amelie Lens (povera Amelie, è che per capirci dobbiamo usarla come simbolo…) è per caso colpa di Amelie, o invece del pubblico che lo ha decretato? Una domanda che dovrebbe far riflettere. Prendersela con la Lens è vacuo. Lei si è limitata ad usare (…bene, meglio di moltissimi altri…) le nuove armi promozionali che la tecnologia e l’industria ci hanno dato. Ma quando lo fa Black Coffee, o quando lo fanno i Martinez o Sven, non saltano mai i disgustosi dispregiativi su base sessuale, etnica e di genere che invece saltano fuori quando sono coinvolte donne o gay o trans o minoranze varie, guarda un po’. “E’ famosa solo perché è figa”, “E’ famosa solo perché l’ha data” o “E’ famoso solo perché è gay” o “E’ famosa solo perché trans” quante volte lo avete sentito dire? Parecchie. Considerando che a occhio il 90% dei dj/producer un minimo di successo è maschio ed etero, numeri alla mano una frase come “E’ famoso solo perché maschio ed etero” la si dovrebbe sentir dire molto più spesso. Ma non passa per la testa a nessuno, no? In realtà è il pubblico a sancire il successo di un artista. I management, le agenzie, le corporation, i “poteri forti”, i venusiani possono solo in parte indirizzare i gusti del pubblico; il più delle volte si limitano a cavalcarlo e, quando possibile, a tentare di anticiparlo, per avere poi il vantaggio di essere “prime mover”. Il pubblico siamo noi. Non è “colpa” di Amelie se ha questo successo estremo: perché questo successo estremo, siamo noi a darglielo. Insultando e disprezzando lei, insultiamo e disprezziamo noi stessi. Oltre al fatto di sfogarci, per l’ennesima volta, contro il più “debole”, donna, gay, trans, nero, asiatico, siberiano, slavo, eschimese che sia.
Stesso discorso, quello cioè dello “scarico di responsabilità”, si può applicare su un’altra argomentazione che, di suo, non è manco campata per aria e ha le sue pezze d’appoggio, e qui torniamo al problema delle presunte molestie. Si afferma: “Lei dice di essere stata molestata, ma è lei che ha provocato”. Qui di solito si reagisce subito in maniera radicale: da un lato c’è chi dice “Sì, è vero, cazzo!, finalmente qualcuno che lo dice senza peli sulla lingua, basta col politically correct!”, dall’altro c’è chi salta su “Schifo dire così! Vergogna! Victim blaming! Colpevolizzazione della vittima! Ci credo che poi abbiamo paura a denunciare le molestie, da vittime ci fate subito passare per colpevoli”. Il bello? Possono essere vere, di caso in caso, entrambe le cose. Ma narrano solo una parte della storia. La parte mancante, è quella della responsabilità.
Ora. E’ vero infatti che ci sono donne che fanno di tutto per portarsi a letto trofei importanti (o anche non a letto: basta solo essere la “desiderata” della sera). E’ vero che non mancano. Negarlo, è sbagliato. Negarlo, è un modo per mettersi le fette di salame davanti agli occhi. Ma una donna, come qualsiasi altro essere vivente, sarà ben libera di fare quello che vuole: se si è persone intelligenti e ci si comporta da tali, a questo tipo di persone strumentalmente seduttrici non si dà peso, non si dà attenzione, non si dà credito. Molti di quelli che “disprezzano” questo tipo di atteggiamenti femminili nei club (e, in particolar modo, in console) sono i primi che vorrebbero in realtà portarsi a letto le suddette donne – e, nei casi più fortunati o più potenti, ci riescono. A che gioco stiamo giocando, allora?
Una vittima che provoca, resta una vittima. Un uomo che prevarica, anche se provocato, resta un prevaricatore
Una donna faccia quello che le pare: sia santa, sia puttana, provochi, non provochi, saranno fatti suoi che scelga di fare quello che vuole fare. Ma una vittima che provoca, resta una vittima. Un uomo che prevarica, anche se provocato, resta un prevaricatore. Diamoci un taglio alle attenuanti del cazzo. Prendiamoci la responsabilità. Se veramente esistono tante donne “facili” nel mondo del clubbing (ammesso e non concesso: a dire il vero, non è che ne vediamo così tante…) è evidentemente perché tanti uomini scemi apprezzano questo modo stupido e superficiale di porsi, quindi la dinamica si perpetua. Chi scrive queste righe è un uomo, etero, ed è al mio “fronte” che mi rivolgo: invece di stare a giudicare le donne, ovvero come sono o non sono vestite, come si comportano o non si comportano, cercate piuttosto di decidere VOI qual è il modo più giusto di comportarsi e di socializzare, prendetevi la responsabilità delle vostre scelte e dei vostri comportamenti. Vi fanno schifo le donne “facili”? Ignoratele. Vi piacciono? Andateci assieme sereni. Ma se vi piacciono, poi non potete parlarne male e deriderle. Se invece vi fanno schifo, quello che loro fanno o non fanno non è un problema vostro. Non dovrebbe esserlo. Perché non siete voi i “padroni” delle loro vite e delle loro scelte. Toglietevelo dalla testa.
…a meno che, naturalmente, non siate dei maledetti moralisti. Ovvero, quelli che vogliono imporre agli altri i modi di fare, pensare, comportarsi, sulla base di imperscrutabili “valori” che la storia ha però più volte dimostrato essere per lo meno cangianti (…ehi, ci sono ancora delle zone del mondo dove una donna che guida o canta è una “poco di buono” da svergognare: bella merda. Se non vi piace la donna che guida o canta, ignoratela; il moralista, invece, impone di comandare sulla sua vita e sulle sue scelte. Fate parte del club?).
Il moralismo purtroppo c’è anche nel campo di chi lotta per i diritti delle minoranze. Una visione mutuata dall’America, la grande terra delle semplificazioni, come spiega questo bellissimo post che vi consigliamo di leggere, prima di andare avanti con l’articolo:
Qui si parla di “appropriazione culturale” e di discriminazione razziale, ma il ragionamento potrebbe essere applicato anche su altri versanti delle dispute sui diritti civili tanto in auge di questi tempi, dispute mayose e morillane comprese. Una delle frasi chiave è “Guarda con preoccupazione ai tanti attivisti benintenzionati che cercano di calare la categorie rigidissime partorite negli USA in contesti dove non funzionano e, anzi, fanno danni”. La rigidità che è diventata bandiera di tantissime battaglie sul politically correct sta iniziando a partorire dei mostri. Un’ansia classificatoria e neo-normativa che rischia di eclissare, completamente, il buon senso.
Una cosa molto triste è quando ad esempio si vedono sventolare in automatico, nel campo delle discussioni di genere, delle accuse. Tipo, per dire, quella di “mansplaining”. Per intenderci: il mansplaining è un fenomeno e un problema reale. Ma se la tua risposta diventa in automatico “Sei un uomo, non puoi parlare di certe cose, non puoi capire certe cose” senza entrare nel merito, questa è solo una esasperazione grottesca (e tossica) del ragionamento marxiano su strutture e sovrastrutture (…anche perché pensate a quanto è brutto ed abbietto il suo contraltare speculare: “Sei una donna, non puoi capire”). La chiave, oggi più di ieri, è il confronto. L’ascolto. Il tentativo di comprendere le ragioni altrui, e cercare instancabilmente un punto d’incontro medio con le proprie. Senza creare barriere aprioristiche.
Se questo articolo che state ora leggendo è inesatto, è discutibile, è una sequela di fregnacce e di superficialità, beh, ciò è una cosa che può (come ovvio!) essere discussa ed affrontata, ma sicuramente non pensando di ricondurre tutto alla pietra tombale de “Non sei una donna” […o inserite altra categoria a piacere] “non puoi dare tu una opinione su cosa sono o non sono le dinamiche di genere o altre questioni sensibili, visto che fai parte della categoria forte e che opprime”. Cioè, puoi anche farlo, se vuoi. Ok. Scelta tua. Ma il risultato concreto è che io non ascolto te, tu non ascolti me, ci stiamo sulle scatole a vicenda, nessuno aumenta il proprio bagaglio di conoscenze e comprensione. L’esito finale è trasformare tutto in un incontro/scontro di crociate di parte avversa, ognuno messianicamente convinto delle proprie ragioni: a chi giova?
Ve lo diciamo noi: alla fine, sul medio-lungo periodo, giova sempre a favore dei più potenti, dei più stronzi, dei più cinici, dei più spregiudicati. La storia dell’umanità lo ha già dimostrato molte, molte, molte volte. Saranno solo la conversazione e la predisposizione al confronto a creare un ecosistema migliore. Nel clubbing, come in qualsiasi altro campo sociale. L’idea che se una causa è “giusta” allora può andare bene qualsiasi forzatura per supportarla, è parecchio pericolosa. Il problema del maschilismo c’è. Della cattiva distribuzione di potere e di influenza pure. Ma non è per questo che al primo sospetto di accusa è allora cosa buona e giusta, “per la causa”, lanciarsi subito automaticamente a chiedere condanne feroci ed esemplari. Non è così che va.
Non si combattono le ingiustizie con altre ingiustizie.