“Phobos” uscirà a novembre per Spectrum Spools, marchio della label indipendente Editions Mego. Ancora prima di questo “Phobos” è la luna di Marte. Poi “Phobos” è un album scritto di notte, quando tutto si quieta e i pensieri diventano liquidi. “Phobos” è ambient, probabilmente nell’accezione più classica del termine. “Phobos” è un esordio, il primo lavoro da solista di Giuseppe Tillieci, in arte Neel, metà dei Voices from the Lake insieme a Donato Dozzy. Lo abbiamo incontrato e abbiamo parlato di molte cose; spaziando dai party nella capitale italiana alle aspettative che si riempiono di certezze. I puristi dell’analogico e l’universo inesplorato, la techno e l’ambient. I volti nuovi nella penisola e quelli che vogliono restare velati.
Iniziamo subito dal tuo ultimo album “Phobos”, che abbiamo avuto l’onore di ascoltare. E’ un disco prettamente ambient, molto diverso dai lavori dei Voices from the Lake.
Non è una scelta che ho ponderato, non ho pensato a che tipo di album avrei voluto costruire. “Phobos” è nato prettamente dal mio piacere di fare musica ambient, lavorandoci alla notte dopo aver passato l’intera giornata a dedicarmi a mastering prevalentemente techno. E’ stato come fermarsi e leggere un buon libro per rilassarmi, staccavo tutto e cercavo di sviluppare idee e tecniche nuove.
Ma qual è l’idea che sta alla base del disco?
Io sono molto appassionato di astronomia e “Phobos” è la luna di Marte, la quale cela parecchi misteri, ti lascio immaginare. Basta che digiti la parola su Google e puoi leggere parecchie cose interessanti. Comunque, ho cercato d’immaginarmi un viaggio su questa luna ed è nato un disco molto personale. E’ piaciuto alla Spectrum Spools e a novembre finalmente uscirà.
Quindi hai sentito il bisogno di dedicarti a qualcosa che ti rilassasse e che ti allontanasse un po’ dalle sonorità pesanti della techno?
In parte sì, ma il grosso delle intenzioni era rivolto all’idea e all’impegno di volere creare una sorta di soundtrack di un viaggio dal Pianeta Terra verso Phobos. Mi eccitava il pensiero di voler trasformare un pianeta in musica. Ogni traccia ha un titolo riferito ad una parte della luna di Marte ed io, in fase compositiva, ho provato ad immaginare che suoni avrei potuto sentire se fossi stato lì.
Che rapporto hai con la musica ambient?
Io ho sempre fatto musica ambient, soprattutto durante la notte, quel momento in cui il tempo quasi si dilata e quindi è come se viaggiassi di più nel suono stesso. Tutto si placa. Io vivo a Roma, una bellissima città ma molto rumorosa, mentre alla notte tutto si ferma, compreso il tuo cervello in un certo senso, quindi inizi a correre di meno dentro i pensieri e a viaggiare di più con la musica. Io reputo l’ambient un qualcosa di concettuale, quindi anche cose che in realtà hanno kick in 4/4, ma che siano sperimentali oppure leftfield.
Mi dai dei riferimenti?
Beh, un esempio banalissimo: prendi una qualsiasi traccia di “Selected Ambient Works” di Aphex Twin; ne troverai alcune che hanno groove techno, ma concettualmente sono buttate completamente nell’ambient. E’ il trasporto che una traccia crea. Anche il lavoro che ho fatto Donato Dozzy per Voices from the Lake è la fusione della nostra idea della techno insieme alla nostra idea dell’ambient. Phobos è un lavoro totalmente diverso, è molto più dark.
Che aspettative hai verso il tuo primo album solista?
Non ne ho idea. L’album è chiuso ed uscirà, in un certo senso sto già pensando a qualcosa di nuovo. Non sono uno che si sofferma molto sulle aspettative. Quando la Spectrum Spools mi disse che voleva pubblicare l’album io gli ho chiesto se fossero sicuri, questo perché fino a quel momento l’avevo immaginata come una cosa mia. Forse l’unica cosa che mi aspetto in realtà è un consiglio che voglio dare a chi ascolterà “Phobos”: per cogliere tutta la profondità dei suoni, è necessario sedersi ed abbracciare questi circa quarantacinque minuti di musica, facendosi il proprio viaggio personale.
M’interessa questa cosa del sentire il proprio disco molto personale. Non credo sia così scontato come può sembrare. Ci sono vari livelli e sfumature su ‘quanto è mio’ e ‘quanto è per voi’.
Calcola che “Phobos” è nato per una cosa prettamente, per l’appunto, personale, in cui mi ci mettevo nel tempo libero, facendomela e gustandomela nel mio studio. Poi è nata l’idea di accostarci una parte video, insieme a questo amico motion graphic designer che vive a Berlino, arrivando a creare la parte visuale per la performance live di Phobos. Ho sentito il bisogno di avere una componente video e quindi ci siamo messi sotto a lavorare e a parlarne tanto. Abbiamo capito che non dovevamo chiamare in maniera troppo esplicita lo spazio, altrimenti si sarebbe trasformato in un cliché. Quindi abbiamo giocato su contenuti organici che portano a captare delle visioni totalmente soggettive, ma completamente sinergiche con la musica.
Chi è questo artista con il quale collabori?
E’ una persona che, volutamente, ha chiesto di restare anonima. Ci conosciamo da tantissimi anni, siamo legati da una grande amicizia. Abbiamo già lavorato insieme, ha realizzato un video per Voices from the Lake e da quel momento ho capito che il progetto “Phobos” era adatto al suo tipo di visione. Abbiamo iniziato a collaborare, nonostante lui stia a Berlino e io a Roma, alcuni momenti sono stati difficili a livello di comunicazione, ma siamo soddisfatti del lavoro che abbiamo fatto e soprattutto dei live insieme al Mutek e poi l’European Premiere al Berlin Atonal nell’agosto passato.
A proposito dell’Atonal, abbiamo seguito la tua performance come anche l’intero Festival. Che impressione ti ha fatto suonare su quel palcoscenico sia quest’anno come solista, che l’anno scorso insieme a Donato Dozzy. Voglio dire, è indubbio che il Berlin Atonal sia una vetrina incredibile, soprattutto per un certo tipo di approccio all’elettronica.
Devo dire che è stata un’enorme emozione salire su quel palco entrambi gli anni, ma la crescita che c’è stata nell’ultima edizione è impressionante, su tutti i lati. Una line up incredibile, il Kraftwerk è una struttura pazzesca, l’atmosfera è bellissima. Suonare lì dentro e vedere la gente che resta incollata per sei/sette ore al giorno perché si deve godere tutta la proposta musicale è qualcosa che generalmente non ho visto in altri festival europei. Il fatto che è solo main stage e solo una location, aiuta indubbiamente molto.
Prima mi hai parlato di Roma, mi chiedevo quale fosse il tuo rapporto, da calabrese, con la capitale.
Ho un rapporto meraviglioso. Sono arrivato a Roma che avevo diciotto anni, poi ho vissuto tre anni all’estero e quindi sono ritornato a Roma nel 2013. Quello è stato l’anno in cui ho iniziato a rivivere la città. Prima ero molto fuori per via delle date oppure chiuso in studio, invece dall’anno scorso mi sono ributtato nella scena, che è molto attiva. Quello che noto è che la maggior parte dei promoter ha la passione per la musica e vederli collaborare e sostenersi è bello. Quando ho tempo del libero mi piace uscire e andare nei club, dove finalmente c’è un bell’ambiente. Roma è stata la città che mi ha adottato e la mia scelta di trasferirmici è legata al fatto che fosse la capitale della musica elettronica italiana e quindi sono cresciuto con il suono di questa città. Fortunatamente negli anni successivi ho acquisito il rispetto da diverse persone legate all’ambiente in cui lavoro e parecchi di loro sono diventati amici. La Calabria è il mio rifugio, nonostante sfortunatamente io non riesca più ad andarci spesso. E’ quel posto in cui scendo e stacco la spina, amo rilassarmi, stare con la mia famiglia e al massimo fare piccoli lavoretti di field recording. Ad ogni modo, so che il posto mio è Roma.
Hai iniziato a suonare a Roma oppure suonavi già prima di trasferirti?
No, quando ho iniziato ero molto più piccolo. Suonavo ai party per festeggiare i diciotto anni degli amici, ma anche in minuscoli bar e club. Suonavo per l’amore nei confronti dei dischi, quindi suonavo ogni tipo di cosa. Oddio, magari il latino americano no (ride). Quando mi sono trasferito a Roma però è iniziata la parte importante; confrontarmi con artisti che avevano già sviluppato il proprio suono e provare quindi a sviluppare il mio, fino al passo successivo che è stata la produzione.
Mi è rimasta un po’ appesa la cosa che hai detto in riferimento ai party romani e agli organizzatori molto uniti. Una delle cose che mi è capitato di sentire e vivere a Milano, negli anni passati, è la sorta di malcelata faida tra promoter. Mi stupisce quindi che mi dici che a Roma la situazione è diversa.
Credo che in realtà questo genere di cose capitino e siano capitate anche a Roma, più che altro quello che ho notato io quando suonavo – ti parlo del 2003 / 2004 – era che parecchi bravissimi artisti, anche conosciuti all’estero, non suonavano, come se l’idea fosse quella di tenerli nascosti dai promoter. Oggi invece Roma si sta sviluppando sotto vari aspetti, ci sono parecchi producer e dj che stanno scalando la china con feedback positivi anche dall’estero, finalmente sta nascendo una distribuzione di musica techno, ma soprattutto sto notando che c’è molta più collaborazione fra i promoter e gli artisti, anche sulle scelte basilari. Non c’è più la prima donna e spero che continui su questa linea.
Mi fai qualche nome rispetto ai ragazzi che stanno crescendo?
Ah beh c’è un ragazzo, Conrad Van Orton, è uno che sta uscendo parecchio. Pensa che io conoscevo, ma non pensavo fosse italiano, per via del nome. Lui è molto bravo.
Lo abbiamo intervistato per la nostra rubrica Giant Steps, presto faremo uscire l’articolo.
Poi ci sono dei ragazzi che si stanno occupando della distribuzione di prodotti techno. Sono i Korova e la loro è una bella sfida. In Italia ci sono tantissimi bravi artisti e altrettante etichette, ma manca l’anello di congiunzione della distribuzione, gli auguro un grande ‘in bocca al lupo’.
Ma chi realmente è pronto per scavalcare il muro e prendersi la scena?
Io sto attendendo con estrema ansia il ritorno sulla scena di Brando Lupi. Lui è una parte importantissima del mio percorso musicale. So che sta lavorando a delle cose molto belle che presto vedranno la luce ed io non vedo l’ora. Quindi lui in realtà non deve scavalcare nessun muro, si deve solo riprendere il posto che gli spetta.
A questo punto mi viene facile chiederti con quale altro artista italiano collaboreresti volentieri e che tipo di piega prenderesti?
Uno su tutti è Nuel, con cui sicuramente farò delle collaborazioni in futuro. Siamo molto amici e al momento viviamo anche insieme (ride). A livello di sonorità non saprei dirti adesso, perché siamo entrambi molto aperti, come avrei capito. Le poche volte che ci siamo messi sotto e abbiamo cercato di tirare fuori qualcosa, è nato di tutto; dall’ambient, alla techno, a tutta quella roba che è sempre piaciuta ad entrambi, quindi vedremo.
E’ un po’ il concetto che sta alla base di molti dei tuoi discorsi legati alle produzioni, sia tue sia con Dozzy: non sapere cosa volere esattamente, non calcolare, provare e poi godersi quello che viene fuori.
Sì, esatto. Io, lui e Donato ci siamo conosciuti praticamente insieme, tantissimi anni fa e quindi c’è sempre stata una forte unione fra noi tre. Ora abbiamo la possibilità di fare qualcosa. E poi dai, lui è Nuel ed io sono Neel. Cambia solo una lettera, potremmo fare un progetto che si chiama solo N oppure N_el (ride).
Il tuo rapporto con la tecnologia? Ci sono vari punti di vista rispetto a questa cosa e immagino tu lo sappia meglio di me: quelli che solo analogico, quelli che solo vinili e quelli che il digitale va bene.
Ti dirò, credo che i discorsi sull’analogico meglio del digitale oppure sul vinyl only, siano legati a tematiche che lasciano il tempo che trovano. Io ho uno studio pieno di macchine e processori analogici, ma ho anche tantissima roba digitale. L’unica differenza che trovo non sta nell’analogico oppure nel digitale, ma piuttosto nella convinzione che ci sono alcune macchine analogiche che non possono essere clonate e quel tipo di suono possono darlo solo loro. Ti faccio un esempio molto banale: se prendi un Mini Moog oppure una 303 e ascolti cosa esce, sai che quella roba la troverai solo lì dentro, non possono esistere emulatori. E’ anche chiaro che dall’altra parte, nel digitale, ci sono tecnologie con delle sintesi di suono che puoi ottenere solo con il digitale. Quello che voglio dire è che la cosa migliore è l’unione delle due tecnologie. Se vogliamo puntualizzare c’è anche la questione legata all’approccio del fare musica. Ovvero artisti che si avvalgono di un metodo più performativo e quindi hanno bisogno di fader, controller e via dicendo per stendere i live al meglio, piuttosto che incastrarsi davanti ad un monitor. Lo spettro è talmente ampio che tutto dipende dall’idea che hai e capirne il dosaggio. Secondo me le correnti puriste sono limitanti, come quelli che usano solo modulari oppure i dj set 100% vinyl, come se fosse sinonimo di garanzia. Ti faccio un esempio: ci sono stati dei momenti in cui dovevo creare dei suoni per Phobos e ho provato a farli con le macchine, poi ho provato in digitale, ma non usciva come dicevo io, alla fine lo strumento me lo sono costruito. Perché dovevo perdere parecchie ore ad intestardirmi nel tirare fuori un suono, quando potevo uscire, registrare il battito sopra una lastra di metallo e poi lavorarlo con la modulazione che volevo io?
Infatti ho notato che ci sono diversi field recordings all’interno di “Phobos”.
Non tantissimi, però ci sono. Sembra ce ne siano molti, ma in realtà sono solamente due o tre. C’è da dire che io uso i field recordings soprattutto come waves, se tu ascoltassi gli originali, capiresti che non c’entrano praticamente nulla. Nel disco c’è il suono di un trasformatore di alta tensione molto potente, che trasformava 200.000 Volt in 20.000 Volt. Era anche piuttosto pericoloso e dovevo starci distante per non rischiare di restare arrostito.
Due parole sui Voices from the Lake: insieme a Dozzy siete riusciti, in qualche modo, a riportare l’ambient al grande pubblico, soprattutto italiano. E’ solo circolarità musicale oppure è connesso ad un bisogno di introspezione in una società che è diventata l’opposto?
Credo che nella tua domanda sia richiusa anche la risposta. Nel senso che hai detto una cosa molto vera. Quello che sta succedendo oggi nel mondo della techno è che c’è stata una crescita esponenziale, arrivando quasi ad essere considerata mainstream. Quindi succede che c’è molta domanda e dunque molta fretta nel produrre, che porta inevitabilmente ad un calo della qualità. Questo per dire che, al di là dei Voices from the Lake, il discorso legato alla consapevolezza che stai ascoltando un qualcosa che ha una profondità o, molto più semplicemente, un produzione dove niente viene lasciato al caso, è sinonimo di qualità e viene apprezzato dalla gente.
Però, dall’altra parte, credo che l’ambient di “Phobos”, potrebbe avere una difficoltà di fruizione per quanto riguarda il live, anche se mi rendo conto che, chiaramente, è ancora presto per fare un discorso del genere. Nel senso, forse il grande pubblico è pronto per i VFTL, ma non è ancora pronto per “Phobos”, o quantomeno non lo è abbastanza da soverchiare un modello com’è quello della techno. Forse semplicemente perché smuove meno il dancefloor.
E’ un discorso molto più soggettivo, basato sulle singolarità e sulla passione per questo tipo di musica. E’ chiaro che oggi stiamo vivendo il fenomeno della techno in modo piuttosto netto. “Phobos” non è un progetto particolare che mira comunque a tutti. Uscirà per una label altrettanto particolare. Non lo so cosa si aspetta la gente dall’album e dal live. La domanda me la sono posta, considerando che è il mio primo album, ma in realtà so che questa è una mia visione rispetto ad un certo tipo di cose e quindi va bene così. Mi fermo qui e penso al futuro, come anche ai progetti con Dozzy. Ad ogni modo i primi feedback rispetto a quello che dici tu ci sono, basti pensare che prima il Mutek e poi l’Atonal hanno richiesto il mio live, quindi qualcosa si sta muovendo. Ci sono promoter che richiedono questo tipo di performance e dunque c’è di conseguenza un pubblico, seppur ancora di nicchia.
Bisogna sapere aspettare.
Precisamente.