La favola musicale di Danilo Plessow attraverso gli occhi
di chi ne ha seguito l’evoluzione ed amato il modo di essere.
Una volta ho sentito dire che per scrivere una buona storia si debba necessariamente partire dal suo epilogo e poi andare a ritroso. In questo caso, se proprio volessi dare credito a questa scuola di pensiero, francamente non avrei grandi difficoltà su dove posizionare le lancette del mio orologio emozionale rispetto al momento in cui queste righe vengono vergate: l’aria frizzante di una domenica di mezza estate all’Amsterdamse Bos colma di quell’elettricità che solo certe notti di festa sanno regalare, il main stage del Dekmantel Festival gremito e pronto all’atto conclusivo dell’ennesima trionfale edizione, l’impianto maestoso già scaldato a dovere dal talento eclettico di DJ Koze. E poi, in mezzo a tutto questo, un ragazzo dai capelli crespi, con la sigaretta in bocca e lo sguardo di chi sa di essere di fronte alla famigerata “prova del nove”, andando a chiudere il palco principale di un festival che, nelle precedenti edizioni, lo aveva visto scalare rapidamente gli indici di gradimento a suon di sale gremite all’inverosimile; fino a valergli la promozione definitiva a closing act per quella odierna. Lasciando nel cuore di chi, come il sottoscritto, ne ha vissuto con passione l’evoluzione (musicale ed umana) una grandissima gioia nel cuore. Perché quando si cerca di fare il punto su un personaggio come Danilo Plessow, in arte Motor City Drum Ensemble, si finisce per forza di cose a farne sempre e comunque una questione di affetto e genuinità. È ciò che lasciano trasparire la semplicità (nella sua accezione migliore), l’entusiasmo e l’empatia che riesce a trasmettere a chi ascolta un set o una produzione usciti dalle sue mani. Ogni volta come fosse la prima.
Ne ero rimasto meravigliato quando si era presentato al Link di Bologna nel 2010 prima dei Pastaboys con una birra dopo l’altra in mano ed il locale semivuoto suonando “Let’s Start The Dance” di Hamilton Bohannon saltando dietro al mixer come se avesse davanti una folla oceanica. Quasi come se non gli importasse; come se il fatto che ci fossero lui e la musica fosse sufficiente. Lo avevo percepito (questa volta a locale pieno) quando era stato ospite dei ragazzi di Classic al Tunnel di Milano e sembrava impossibile staccarlo dalla consolle. Ultimo. E poi ancora un altro. E poi “Black Water”. E ancora “Domina”. La gente che sfollava verso il guardaroba convinta che fosse finita e via di corsa dentro un’altra volta. Erano le cinque e mezza del mattino, abbondantemente oltre l’orario di chiusura annunciato, ma dava l’idea che potesse andare avanti altre due ore senza problemi. Era quel tipo di magia che andiamo tuttora inseguendo per le rotte sconfinate del clubbing. Sono i momenti per i quali vale ancora la pena esserci, a discapito di chi si sente migliore nel dirci che non abbiamo più l’età per certe cose.
Ma la cosa che senza dubbio colpisce maggiormente in Danilo è la sua capacità, nel corso della carriera, di fare praticamente tutto. E di farlo spesso e volentieri anche molto bene.
Fin da bambino, insieme ai suoi fratelli, ha avuto la possibilità di prendere confidenza con uno strumento – nel suo caso la batteria, che ha suonato per quasi dieci anni – e di intraprendere un percorso formativo col mondo della musica. La svolta, come capita spesso, l’ha avuta praticamente per caso: lo zio, una Pasqua, decide di regalagli un sequencer, il Magix Music Maker, e tanto basta per mettere in moto la macchia. Una roba da due Lire, ma con l’utilissima possibilità di registrare un numero esponenziale di sample. Da dove credete che escano fuori i celeberrimi Raw Cuts che capita ancora di sentire nel club a distanza di anni?
Per gran parte della sua adolescenza, infatti, Danilo è stato strettamente a contatto con la produzione musicale piuttosto che focalizzarsi sul club (nonostante racconti di aver suonato nei locali con un amico sin dai tempi di scuola), cercando fin da subito di raggiungere un suono basato proprio sul sampling integrale e sulla sinergia fra suoni eterogenei fra loro, ispirandosi per la maggior parte ad artisti come DJ Shadow e Nightmares On Wax, tra le figure iconiche di quel tipo di stile a cavallo fra i due millenni.
La materia prima per questo tipo di lavoro è derivata da una viscerale mania per le apparecchiature analogiche e soprattutto per il crate digging, passione innata che tutt’oggi non accenna ad accusare alcuna flessione nonostante si abbandoni spesso anche all’uso delle chiavette USB durante i suoi set. Vi sarà capitato di certo, nel corso degli anni, di leggere un suo post sui relativi social dove chiedeva candidamente qualche indicazione riguardo a negozi di dischi e mercatini dell’usato nelle città in cui capitava per una gig. La naturale curiosità di chi, durante un SuncèBeat (noto festival croato cugino dell’ormai defunto Southport Weekender) di qualche anno fa girava per la spiaggia (nei giorni precedenti alla sua gig) per sentire, come un normale spettatore pagante, alcuni degli artisti con cui, solo qualche anno prima, mai si sarebbe immaginato di dividere lo stesso booth.
Autentiche icone della musica elettronica da cui ha pescato a piene mani anche per i già citati Raw Cuts, che hanno fatto un’autentica strage di cuori tra appassionati ed addetti ai lavori a cavallo fra 2008 e 2009 ed hanno contribuito al ritorno delle sonorità deep e black all’interno dei club di tutta Europa nelle annate successive. Una volta iniziato a comparire nelle line up dei più famosi locali del vecchio Continente, ecco che MCDE non era più semplicemente un produttore X celato dietro l’etichetta di un vinile, ma anche e soprattutto un dj di grandi qualità tecniche e dall’impressionante carica emotiva dietro alla consolle. Tanto da garantirgli, nel 2011, la partecipazione ad una delle compilation series più famose al mondo, il leggendario DJ-Kicks (nel quale troviamo “L.O.V.E.”, un’altra delle sue opere più rinomate ed apprezzate), andandosi così a porre sullo stesso gradino di artisti di fama mondiale come Tiga, Carl Craig, Four Tet, CJ Bolland e Claude Young.
Fino al punto di arrivo – o per lo meno l’attuale situazione in cui è approdato – dove l’attenzione è focalizzata principalmente sul djing, (con l’eccezione dell’album ambient prodotto insieme a Marcus Worgull sotto il moniker “Vermont”, su Kompakt, anche se Danilo giura di essere al lavoro su nuovo materiale solista per il prossimo futuro) mutando la proposta musicale da una selezione principalmente deep con qualche eco vintage ad un calderone di black music che spazia dall’afro-jazz alla disco, passando per house e funk, e che confluisce spesso anche in suoni più ruvidi come quelli della sua collezione di dischi acid-house e techno. Un suono che lo pone inevitabilmente, così come accade nel campo automotive per la sua città natale Stoccarda, come ideale contrapposizione europea allo stile dell’altra Motor City, quella sul lago Michigan. Quella di Theo Parrish e Moodymann, in un ritorno al passato che apre orizzonti musicali molto più ampi di quanto era stato negli ultimi anni.
E proprio il già citato Dekmantel, una delle organizzazioni migliori nell’attuale panorama musicale, ha avuto l’acutezza – e, se me lo concedete, anche la fortuna – di catturare l’essenza di questa visione musicale e di traslarla all’interno del suo campo di gioco grazie allo stage Selectors, che si è guadagnato fin da subito il ruolo di “club nel festival” grazie anche ad una scelta artistica volta a creare l’atmosfera intima, quella dei set lunghi e della sperimentazione musicale senza barriere, tipica dei club che hanno scritto la storia. L’idea ha riscosso un successo tale da rendere il Selectors, già da quest’anno, non solo un festival a se stante (organizzato a Settembre in Croazia) ma anche una serie di EP volti a mettere “nero su bianco” un po’ dell’alchimia eccezionale che solo quel “boschetto” e certe sonorità riescono a sprigionare. Il fatto che sia stato chiesto proprio a Motor City Drum Ensemble di curare la prima uscita di questo progetto è solo la diretta conseguenza di quell’infallibile incastro di talento e circostanze.
I risultati fin qui raggiunti non sorprendono affatto, perché oggi Motor City Drum Ensemble è un dj nell’accezione originale del termine. Quello che non è più costretto a produrre per avere visibilità (come dettano sempre più spesso i tempi moderni), un artista ancora in grado di far sussultare la pista con tracce mai sentite prima, magari scovate in qualche scatolone polveroso in una rivendita di paese. Oppure riproponendo per l’ennesima volta vecchie hit di cui non saremo mai stanchi. È il motivo per cui c’è chi ancora si avvicina al mondo del djing solo per ricreare quelle sensazioni a sua volta, solo per trasmettere il verbo della musica. Danilo è quel tipo di artista che, una volta alzata la puntina dall’ultimo disco, inizierà già a mancarvi. E’ quel dj per cui è impossibile non fare il tifo. E per farlo non ci resta che tornare al punto da cui avevamo cominciato.
Un arcobaleno si staglia lungo tutta la parete di ledwall dietro alla consolle. La musica si ferma.
È ora Danilo, siamo tutti qua per te. Lo speaker prende la parola.
“Da questo momento, e fino alla fine, è solo Motor City Drum Ensemble.“
Anima e cuore di Pulp Graphic, Daniele Saccardi è un grafico e illustratore fiorentino che fa della musica elettronica una ragione di vita, passione che si tramuta in lavori meravigliosi. Come quelli che ha preparato oggi per noi.