Un paio di mesi fa mi sono ritrovato a fare una esperienza molto, molto, molto interessante: e non è (forse) solo questione di raccontare i fatti propri e di trovarli dannatamente divertenti, come un tempo quando si obbligavano parenti ed amici a sorbirsi le diapositive delle vacanze, oggligandoli a un gigantesco ed ininterrotto sbadiglio interiore. No. Perché quando sono stato contattato da EDERA per essere coinvolto in una residenza d’artista per quanto riguarda la sezione musica, immaginavo di fare un’esperienza interessante. Del resto quasi sempre le residenza d’artista sono dei momenti veramente belli, in cui si sprigiona la creatività (vedi ad esempio i risultati artisticamente eccellenti raccolti da Ant Mill, che in vario modo è una “emanazione” del meraviglioso di team di Jazz:Re:Found).
Qui però fin dall’inizio è stato posto l’accento su un fattore ben preciso: la visita alla fabbrica, anzi, la permanenza insistita dentro la fabbrica almeno per qualche giorno. A patrocinare la residenza d’artista era infatti la Guido Gobino, una cioccolateria torinese che è un autentico, atipico gioiello, ok; però ecco, spesso nelle residenze d’artista la “visita alla fabbrica dell’organizzatore” è una sorta di tassa istituzionale da pagare, una cosa cioè che fai perché va fatta per doverosa cortesia ed educazione – nei confronti del mecenate che ha finanziato la residenza – ma che in realtà ti dà abbastanza poco. Alla fine, per te che arrivi dalla musica e di musica ti occupi ciò che più ti attraeva era entrare subito in contatto e in confronto con gli artisti – bravissimi! – selezionati per la residenza (ovvero Camilla Battaglia e Francesca Remigi, bravissime esponenti della nuova onda “libera” e mentalmente aperta del jazz italiano, ed Edmondo Annoni, una bella testa capace di affascinanti viaggi cinematici); il resto, un contorno, o una dovuta forma di cortesia.
Nulla di più sbagliato. La “visita alla fabbrica dell’organizzatore” è stato un momento assolutamente illuminante e fondativo dal punto di vista artistico, creativo, umano. La Gobino, oltre a produrre delle cose maledettamente buone, ha infatti la caratteristica di avere ancora la fabbrica in piena città (zona Vanchiglia, per chi è pratico di Torino), e per una produzione industriale oggi questa è una cosa rara. Ancora più raro ed interessante è il mix di antico e moderno che c’è all’interno della fabbrica stessa, per quanto riguarda le tecniche di produzione; ed altrettanto raro ed interessante il senso “di famiglia” che si respira all’interno, non solo e non tanto per il passaggio di testimone generazionale in progress tra Guido Gobino e il figlio Pietro (solido appassionato di club culture, quest’ultimo: molto bene), ma anche e soprattutto per quello che è il rapporto con i collaboratori e tra i collaboratori in coloro che lavorano nello stabilimento di Via Cagliari.
(Gobino padre e figlio; continua sotto)
Allora. Non siamo qua per fare spot alla Gobino (non ne ha bisogno, tra l’altro: basta il passaparola). E per quanto riguarda il frutto finale della residenza d’artista – che come vi dicevamo ha anche una sezione arte, seguita da Marinella Senatore, e una letteraria, supervisionata da Nicola Lagioia – dal punto di vista musicale potete toccare con mano esattamente domani 30 aprile, se siete in zone torinesi. Proprio la Via Cagliari che è sede dello stabilimento Gobino sarà chiusa al traffico dalle 19 in poi votandosi completamente alla musica, con il momento più particolare ed interessante proprio nella performance di Battaglia, Remigi ed Annoni, che invece di fare ognuno un progetto per i fatti propri hanno invece scelto – che bravi – di unire le forze artistiche, senza fare a gara singolarmente per fare proprio il premio in denaro della residenza ma decidendo fin dall’inizio di spartirselo, lavorando e creando in comune, all’unisono.
Il punto è che tutta questa operazione e il modo in cui effettivamente si è sviluppata ci ha ricordato una serie di cose. Uno: la musica e l’arte possono essere competizione, sì, ma non per forza deve risolversi sempre tutto in una gara, in una serie numeri, in successi individuali/imprenditoriali da sventolare come randello e come “giustificazione finale” del proprio occuparsi di musica. Ma, altra faccia della medaglia, se vuoi rispettare l’arte, e qua arriviamo al punto numero due, bisogna essere altamente professionali. Altamente. La passione non basta; il talento, che è comunque fondamentale ed imprescindibile, non basta. Questo ci porta al numero tre, ed è una cosa importante da scrivere proprio a pochi giorni dal Primo Maggio: la dignità del lavoro. La dignità e difficoltà del lavoro.
Intrecciare una residenza d’artista ai racconti, agli aneddoti ed alle dimostrazioni di operai altamente specializzati – con un sapere nobilmente “artigianale” – come quelli che popolano la fabbrica della cioccolateria Guido Gobino è stato davvero significativo. “Produrre” qualcosa – che sia cioccolato, musica, tondini di ferro, idee, strategie promozionali, automobili, bibite – può essere fatto in modo massificato e va bene, ma quando si cerca eccellenza, originalità e personalità bisogna contare su una stratificazione non scontata di abilità, conoscenza, esperienza, “innamoramento” verso ciò che si fa ma anche la consapevolezza che proprio ciò che si fa non è solo passione, è anche lavoro. Con tutte le responsabilità e le fatiche del caso.
(Da sinistra a destra: Francesca Remigi, Edmondo Annoni, Camilla Battaglia)
Esiste e va sempre ricordata – e incoraggiata – una “terra di mezzo”: “terra” che sta tra la produzione in grande scala, a grandi numeri ed e grandi fatturati da un lato e, dall’altro, il dopolavorismo fatto di piccole passioni, piccole nicchie, piccoli risultati senza grandi aspirazioni e senza grandi assunzioni di responsabilità. Troppo spesso ce lo scordiamo. Troppo spesso ci impigriamo, ed andiamo a pensare che la musica “lavorativamente” vera sia solo quella commerciale (o comunque coll’obiettivo di essere economicamente ricca e soddisfacente), e – altra faccia della stessa medaglia – si pensa invece che la musica “pura” e “autentica” sia solo quella fatta senza sforzo ma solo d’istinto e passione, lontana dalle logiche della professionalità, lontana dal principio di sostenibilità e sopravvivenza materiale, lontana dall’idea di “lavoro”. Entrambi questi estremi hanno la loro ragione d’essere: ci sta e sempre ci starà che alla musica ci si avvicini con un piglio votato alla massimizzazione dei guadagni, così come ci sta e sempre ci starà che la musica sia una piccola, privata “cura dell’anima” invece che il proprio lavoro quotidiano vero e proprio. Entrambi i casi possono essere percorsi da passione: si può essere appassionati anche nel avere a che fare con progetti mainstream e di impronta massifica e multinazionale, si può essere altrettanto appassionati nel curare con amore un proprio hobby.
Il discrimine è il senso di “lavoro”. E quando hai a che fare con realtà che mettono una grande conoscenza artigianale in quello che fanno (vedi appunto Gobino come cioccolateria, ma vedi anche gli artisti che sono stati selezionati per la residenza da Gobino organizzata), capisci bene la differenza tra “lavoro” e “passione”. Attenzione: non si escludono a vicenda, anche se sempre più spesso tentano mefistofelicamente e sistematicamente di farcelo credere. Anzi, è bellissimo quando si incontrano. Ma una non basta a fare l’altra, e viceversa. Se lavori a qualcosa non ne divieni automaticamente appassionato; se sei appassionato di qualcosa non per forza lo fai bene, ai migliori livelli di competenza possibili. In giorni di Festa del Lavoro, ma soprattutto in anni di modelli ultracapitalisti dell’economia in cui vogliono farci credere sia normale che solo i ricchi&cinici&avidi possono essere (più) ricchi mentre per tutti gli altri il destino è vivacchiare sempre più spenti e sempre più tagliati fuori dal mercato, è fondamentale ricordare tutto questo. Onori e responsabilità. Passioni e fatiche.
Non è semplice. Ma è possibile. Quando si cita l’articolo 1 della Costituzione, “L’Italia è una Republica fondata sul lavoro” spesso si resta, come comprensione e come analisi delle implicazioni, solo sulla superficie. Il discorso invece merita sempre di essere approfondito. A maggior ragione in questi anni in cui le dinamiche capitaliste e di finanziarizzazione stanno pervadendo tutto: l’arte, il senso del lavoro stesso, la nostra quotidianità, il nostro sistema di valori e di preferenze.