Dopo settimane di polemiche, discussioni, boicottaggi, virtue signaling più o meno espliciti e opinioni assortite sbandierate ai quattro venti, finalmente lo scorso weekend si è arrivati al dunque e, anziché chiacchierare, era ora di toccare con mano.
Siamo sempre andati con molto entusiasmo al Sónar (per chi vi scrive è stata la quindicesima esperienza, o giù di lì – dopo un po’ si perde il conto), ma quest’anno non nascondiamo che eravamo, forse, più del solito, incuriositi, purtroppo di una curiosità diversa sal solito.
Se negli anni passati infatti il Sónar ci diceva moltissimo su dove fosse, e come fosse, la musica di ora e del futuro prossimo (tanto che il claim, recentemente, è proprio “Welcome to the frequency of now”), quest’anno più che altro le risposte che ci aspettavamo erano altre: chi si sarebbe presentato e chi no, degli artisti ancora ufficialmente dichiarati? E tra i presenti, chi avrebbe espresso opinioni sull’affaire KKR? Ci sarebbe stato un boicottaggio anche da parte del pubblico? E più in generale, come ci vogliamo porre, noi scena, nei confronti di fenomeni come questo?
Le risposte sono arrivate, almeno dove possibile, e non sono state incoraggianti fin dall’inizio:

I totem che mostravano gli orari precisi di ogni palco del Sónar de dia, infatti, quest’anno dicevano “Beh dai facciamo che le timetable ve le guardate da soli sul sito e sull’app“, come a dire “Non sappiamo veramente nemmeno noi fino all’ultimo chi ci sarà e chi no“, non esattamente un segno di organizzazione svizzera; se poi a questo si aggiunge che diverse bio degli artisti, sul sito e sull’app, recitavano “More info soon” anche nel momento dell’esibizione degli stessi, ci sentiamo di dire che la sensazione di emergenza-panico-ommioddio-disorganizzazione era molto forte, e in tutti gli anni precedenti non ci era mai successo.
Anzi, in passato era capitato che qualche artista arrivasse tardi per via di problemi coi voli, e i cambiamenti in lineup dell’ultimo momento erano comunque stati appiccicati sopra i totem: qui invece siamo proprio al livello del meme col cane al computer e la scritta “I have no idea what I’m doing“.
La comparsa, all’ultimo momento, di diversi artisti non annunciati in anticipo, come ad esempio Todd Terry il giovedì pomeriggio e Radio Slave il venerdì sera, e soprattutto il clima generale di incertezza, hanno avuto due effetti collaterali fondamentali: il primo è stato concentrare molta gente al SonarVillage, spesso più per mancanza di alternative che altro (l’unico altro palco attivo tutto il giorno era il SonarPark; SonarHall aveva al più due live brevi al giorno e lo stage piccolo, SonarXS o Sonar+D che dir si voglia, aveva una programmazione molto più ristretta degli altri anni e limitata al giovedì e al venerdì), ma il secondo, ben più grave, è stata la quasi totale assenza di rischi da parte degli artisti.
In alcuni casi è stata proprio una scelta intenzionale: dallo stesso Todd Terry sai che nel 2025 non puoi aspettarti che una messa cantata dei suoi classici, come da uno come Mochakk sai che non puoi aspettarti altro che due trombette e due balletti per chi ha la soglia di attenzione della durata di un Tiktok (che sacrilegio dargli lo slot di chiusura del giovedì, storicamente appannaggio di veri e propri dj’s dj), ma in generale al SonarVillage in tanti si sono limitati al compitino, anche artisti su cui avevamo aspettative come Honey Dijon.
Certo, c’è stato chi si è preso dei rischi, chi non ha giocato facile, e sono stati i nostri personali vincitori del Sónar de dia: su tutti Sarra Wild, che ha fatto un set stratosferico (peraltro non al SonarVillage ma al SonarPark) in cui, parole sue, “Qui cambiamo genere a ogni disco” mantenendo però un flow impeccabile e la tensione sempre altissima, anche a costo di qualche imprecisione tecnica che però tutto sommato ha reso il tutto più vero, e soprattutto, con un messaggio diretto e chiarissimo sul megaschermo alle sue spalle a fine set.

Ve lo riassumiamo, ma il senso era “I working class musicians non possono necessariamente permettersi il lusso di boicottare un festival come il Sónar, ma è importante supportare le comunità marginalizzate, perché senza di esse non esiste nessun Sónar, KKR merda” – e dopo questo, microfono alla mano, “Remember, it’s all about unity and community” e “Born Slippy” degli Underworld, unica concessione un po’ nazionalpopolare, ma che, non lo nascondiamo, ci ha fatto venire gli occhi lucidi.
Gli unici altri che abbiamo visto prendersi dei rischi, o comunque uscire un po’ dal seminato di “Oh qui non so che cazzo sta succedendo meglio andare sul sicuro” al Sónar de dia sono stati Branko, con un live (tra l’altro: pochissimi live al Sónar de dia rispetto al solito e molti più dj set, altra scelta safe) sbilenco, pieno di percussioni, poliritmi e allegria in pieno stile Buraka Som Sistema e, inaspettatamente i due DJ Heartstring, che sulla carta avevamo bollato come fenomeni da baraccone e invece hanno fatto un set vero, per nulla scontato, tanto più che fanno un genere in cui è facilissimo scadere nella caciara più becera e che invece è molto difficile fare in modo raffinato. Molto bravi.
E il Sónar de noche?
I numeri li ha fatti, eccome, come anche il Sónar de dia che non ci ha mai dato la sensazione di “Ok ecco vedi che dopo tutto sto casino è venuta poca gente“, ma come?
Con artisti che ormai hanno ampiamente scollinato la soglia dell’EDM più nazionalpopolare, come Peggy Gou, i Bicep ed Eric Prydz (SonarClub gremito per tutti e tre) o col solito headliner locale che riempie facile – C Tangana due anni fa, Nathy Peluso quest’anno – o con artisti di valore ma con cui in questo momento si va sul sicuro, come Four Tet e Interplanetary Criminal: per carità, bravissimi entrambi, ma non esattamente di nicchia.
Eppure, al Sónar de noche di “nicchia” ce n’è sempre stata, e ce n’era anche quest’anno, ma con due problemi fondamentali: in alcuni casi era assolutamente fuori posto, come Daito Manabe e un live astrattissimo e molto bello ma più da SonarHall che da SonarPub, o Polo&Pan che sarebbero stati perfetti al SonarVillage il pomeriggio e invece hanno suonato in contemporanea col suddetto Eric Prydz che gli ha “mangiato” tutto il pubblico, in altri invece gli artisti locali del SonarCar erano, diciamo, non proprio entusiasmanti (Nusar3000 stiamo guardando te, mannaggia: l’anno scorso avevi fatto un set incredibile e quest’anno sta porcheria?)

Insomma, abbiamo raccontato in lungo e in largo cos’è successo al Sónar quest’anno, ma cosa ci dicono tutti questi artisti, questa disorganizzazione, questo contesto, se li guardiamo tutti assieme con un po’ di distacco, a distanza di qualche giorno?
Come stiamo oggi, noi scena, come sta la nostra musica, e dove stiamo andando?
Male, stiamo.
Stiamo che siamo ancora a fare i talk sponsorizzati da Timeout al pomeriggio in cui ci diciamo “Ommeoddeeo i Gen Z non vanno più a ballare e non bevono più gli alcolici perché stanno sempre dietro a sti telefoni, dobbiamo tornare alle situazioni più piccole, più intime, e soprattutto coi cellulari banditi” per far annuire gli anziani e poi alla sera la stessa artista fa un set di una noia mortale sul palco più grande di tutto il Sónar, in una sala che tiene tranquillamente diverse decine di migliaia di persone.
Stiamo che tolta Sarra Wild e pochissimi altri, tipo degli interessantissimi Teto Preto, o Dixon nei giorni precedenti al festival, non abbiamo visto nessun commento sui fatti recenti che non fosse un “Free Palestine” buttato lì a caso che fa figo e non impegna, perché a discutere in maniera approfondita, e magari anche veemente, abbiamo rinunciato, per evitare di perdere follower.
Come stiamo oggi, noi scena, come sta la nostra musica, e dove stiamo andando? Male, stiamo
Stiamo che al SonarVillage si suonano le hittone perché è il palco grosso e bisogna far ballare la gente, quello stesso palco su cui avevamo visto Floating Points fare un set mattissimo solo di 45 giri e rare grooves, su cui abbiamo visto “Laurent plays Garnier”, un set solo di dischi suoi, e se ci mettiamo a fare il conto delle cose assurde che abbiamo visto negli anni potremmo andare avanti per giorni.
Stiamo che se da un lato abbiamo vinto, e a un festival che resta comunque per molti versi ancora “nostro” ci vanno ancora, nonostante tutto, diverse decine di migliaia di persone, da molti altri abbiamo perso: abbiamo perso il modo e la voglia di parlare ai più giovani (l’età media quest’anno era più vicina ai quaranta che ai trenta), abbiamo perso la voglia di sfidarci e sentirci sfidati, anche in uno dei posti storicamente più sfidanti della nostra scena, abbiamo, più in grande, perso la voglia di affrontare temi difficili sapendo che, non ci sono, per definizione, risposte facili e, come diceva giustamente Dixon di recente, “perfection isn’t an option”.
Forse più che aver perso siamo solo maturati, o invecchiati, a seconda del lato della medaglia che volete guardare.