Certe volte nel fare una recensione è necessario riavvolgere il nastro e ripartire dall’inizio per capire come siamo arrivati a ciò che stiamo ascoltando e di cui stiamo scrivendo. Per capire come siamo arrivati a “The Jazzness”, l’ultimo lavoro di Inoki, è necessario partire da molti anni prima. Da una musicassetta.
…pulisco la polvere dal walkman, indosso le cuffie ed estraggo la cassetta in questione dalla custodia. Play. Il fruscio iniziale viene interrotto da uno scratch che a sua volta introduce un pianoforte jazz in loop. Inoki comincia a rappare. Il timbro è inconfondibile, ma la sua voce, più acuta di quella a cui oggi sono abituato, mi ricorda che dalla registrazione che sto ascoltando ad oggi è passato più di un quarto di secolo.
“Demolizione: hip hop underground mixtape” è una milestone del rap italiano datata 1998.
Venduta, anzi, spacciata di mano in mano come buste di white widow, ha fatto irruzione nelle nostre orecchie portando il rap lontano dai centri sociali e diffondendolo nei palazzi popolari e nelle panchine delle piazze e dei parchi di periferia. Tralasciando Inoki (di cui come ovvio parleremo abbondantemente, in questo articolo) o Deda (il cui nome era già circolato con SxM), questo mixtape ha fatto conoscere a molti nuovi ascoltatori Joe Cassano e Fabri Fibra, niente di meno: due figure che, anche se in maniera molto diversa, sono spesso descritte come figure chiave nella storia del rap italiano.
Anno 1998, dicevamo. Le morti di Tupac e Biggie sembrano aver messo la parola “Fine“ alla golden age. Il gangsta rap, dopo aver illuso la comunità nera di essere la via per un rapido riscatto sociale, mostra il tributo di sangue necessario per ottenerlo. Negli USA, sugli scaffali dei negozi di dischi, la cover di Black Star presenta i volti dei rookies Mos Def e Talib Kweli, mentre Big Pun, dalla cover di Capital Punishment, intimorisce chiunque incroci il suo sguardo. Pete Rock pesta i tasti del suo Sp-1200 per Soul Survivor e Guru si affida al 950 di Premier per “Moment of Truth”, il quarto disco dei Gang Starr.
Secondo l’opinione di Shea Serrano (autore di “The Rap Year Book”), però, il disco dell’anno non è nessuno di questi.
E’ un album totalmente diverso, che annuncia l’inizio di una nuova era.
“It’s Dark And Hell Is Hot” di DMX con la produzione di Swizz Beatz porta infatti in classifica il suono e i testi che segneranno un punto di non ritorno della musica hip-hop, definendo il suono degli anni successivi. Arrivati a questo punto non ci sono più dubbi o discussioni: la Golden Age è certamente finita, stop, i campionatori stanno lasciando il palco principale a sintetizzatori e drum machines. Un nuovo suono è arrivato.
Come si è arrivati a questo punto? Ripartiamo dall’inizio. L’hip hop, dalla sua nascita, è sempre stato legato al soul e al funk: quando Kool Herc saltava da un piatto all’altro con due dischi identici facendo juggling per creare loop di drumbreak, questi erano i generi che trovavano più spazio nella sua valigia.
Ma la musica evolve e cambia, presto il juggling viene sostituito dai samples, e con la diffusione dei campionatori i producers cercano gioielli sonori dimenticati a cui dare nuova vita: in maniera solo apparentemente paradossale, chi suona futuribili macchine elettroniche giapponesi diventa un esperto di musica organica americana passata che rischia di essere dimenticata. Il soul e il funk, il blues e il jazz diventano gli elementi essenziali con cui costruire i beats.
Music evolution change
Buckshot Lefonque
Sometimes the common makes it sound strange
Add a little this, take out a little that
Then you’ll come up with that jazz called rap
É un sistema praticamente perfetto, che consente di attualizzare vecchie musiche accostandole a batterie che fanno soffiare i woofer: un vinile comprato al mercato delle pulci per pochi dollari consente ai possessori di un campionatore di suonare il sax di Coltrane, la tromba di Miles Davis, il piano di Bill Evans.
Il jazz, la musica suonata dagli abitanti dei ghetti e che allora veniva suonata negli eleganti teatri europei si era riappropriata dei propri spazi e dalle finestre dei projects si poteva sentire facilmente sentire Nas rappare “The World Is Yours” sopra il piano di Ahmed Jamal.
Questo sistema ha però un tallone d’Achille: il copyright.
Quando il rap arriva in classifica e comincia a far girare soldi – i soldi veri – si attira le attenzioni degli autori e dei proprietari dei diritti che reclamano la propria fetta della torta o, come nel caso di Lou Reed, arrivano a farsi dare tutta la torta: gli ATCQ cederanno infatti il 100% dei diritti di “Can I Kick It?” per l’uso del sample di “Walk On The Wild Side”. Risulta quindi facile capire perché, a pochi anni dalle prime cause e dai primi risarcimenti, si moltiplicheranno le produzioni alla Swizz Beatz, alla Timbaland o alla Scott Storch, produttori che non usano più il sampling come fondamenta dei loro beats ma si affidano a sintetizzatori e drum machines.
Di qua dall’Oceano, in Europa, in Italia soprattutto, nel 1998 la situazione è ben diversa. La scena è molto più immatura e ancora non si è ripresa dagli imprevedibili cambi di direzione di alcuni dei protagonisti. Il mercato è piuttosto silenzioso, ma nell’underground le cose si muovono parecchio: nuove leve sono pronte ad entrare in scena e a prendere il microfono in mano e ad affrontare il palco, a dipingere muri e treni, a riconoscersi in una crew. La PMC, con Inoki e Joe Cassano col microfono sui palchi e Pazo con gli spray sui muri e sui tetti, si fa notare velocemente e la consacrazione della crew arriva con il mixtape, con il “Demolizione” di cui vi dicevamo all’inizio, instant classic dell’underground bolognese e non.
E così, anche sotto i grattacieli del popolare quartiere Mazzini, arriva il jazz, sotto forma di sample. In “Demolizione” le prime note che si ascoltano sono quelle di “Get Out of My Life, Woman” di Joe William e le ultime, quelle con cui la cassetta si chiude, sono quelle di “Here’s Looking at You, Kid“ di Henry Mancini. Nel mezzo è possibile ascoltare quelle che hanno fatto conoscere l’oscura e sofisticata “Necronomania” di Siegfried Schwab ai maragli con le nocche dure.
Tell the truth, James Brown was old
Stetsasonic
‘Til Eric and Ra came out with “I Got Soul”
Rap brings back old R&B
And if we would not, people could’ve forgot
Bologna, dalla nascita del jazz, ha sempre avuto una tradizione jazzistica importante, ma questa tradizione ha vissuto prevalentemente all’interno delle mura, negli eleganti jazz club del centro e nei teatri: quando ottoni, archi e pianoforti escono dalle autoradio delle auto parcheggiate sotto un palazzo IACP (ora ACER) è una rivoluzione musicale.
A questo punto dovrebbe essere piuttosto chiaro dove voglio arrivare, no?
“The Jazzness”, il nuovo album di Fabiano Ballarin in arte Inoki, è il ritorno di un lungo viaggio in cui l’andata era iniziata con “Demolizione”.
(Un album veramente intenso; continua sotto)
E’ un cerchio che si chiude insomma, sotto molti punti di vista. E’ un disco suonato con gli strumenti, non con il campionatore. E’ un disco ambizioso. E’ un disco che porta nei club il linguaggio e gli argomenti delle periferie e che porta nelle periferie il suono jazz in purezza, senza manipolazioni, senza modernizzazioni a supporto. E’ un omaggio al jazz, senza il quale l’hip hop non esisterebbe. E’ la rivincita di Inoki e, come lui stesso aveva profetizzato in “Bolo By Night”, della “mentalità del ghetto“, del suo approccio.
Il disco è una antologia di nove pezzi già editi, risuonati con una certa fedeltà agli originali fatto salvo il totale cambio di strumentazione. La scelta dei brani appare al limite del casuale: si potranno infatti trovare brani presenti nel vecchio “V° Dan” (2001) o brani usciti nel giovane “Medioego” (2021, 20 anni esatti più tardi), come si potranno anche trovare reinterpretazioni di brani celebri i cui video erano in loop su MTV (“Il mio paese se ne frega 2025”) o brani meno noti al pubblico perchè usciti su mixtape pirata (“Basso profilo 2025”).
(Inoki alla guida di The Jazzness; continua sotto)

Il fil rouge che lega i testi è composto dalla coerenza nello stile e nei contenuti di Inoki; e, se come detto, è percepibile la crescita stilistica avvenuta nel corso della sua carriera, nei suoi versi si possono sentire gli elementi – a tutt’oggi inalterati – che hanno sempre contraddistinto le sue liriche.
Da un lato il giovane Inoki non è così diverso da quello attuale, ma dall’altro tra il giovane Fabiano e quello attuale c’è tutta la differenza del mondo e si sente, come si può vedere nella maniera di affrontare il palco, da veterano.
Musicalmente la band tesse morbidi tappeti che si rifanno a hip hop e r’n’b (con il contrabbasso che a tratti ricorda quello di Maxwell), e la registrazione rende giustizia al lavoro degli strumentisti e alla loro dotazione composta da pianoforte, contrabbasso, sax alto, chitarre, synth ed una voce di supporto, oltre alla ovvia presenza della batteria.
Fabiano ha dichiarato che pensa che questo sia “il suo album migliore“. Personalmente penso che questo sia qualcosa di più, sia l’Inoki migliore: quello che tramanda il suono dei ’90, scomponendolo negli elementi fondamentali e riproponendolo in una nuova sontuosa veste, facendo tutto per amore dell’hip hop e per nient’altro. Qualcosa dal significato che va oltre, felicemente oltre un (bel!) disco in sé. E che questo disco vada a conquistare, nelle sue date dal vivo, un palco dal prestigio immenso come quello del Blue Note – proprio oggi a Milano, sì – è un punto esclamativo in più su un discorso articolato, e dalle radici profonde.