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Il meglio del Paradise Garage in una playlist di 100 tracce

C’è un posto in quel di New York dove, nonostante la polvere e le nuove costruzioni che sovrastano le fondamenta, si sente ancora odore di quell’umanità che celebra un’era, una visione, una subcultura, una comunità slegata da qualsiasi vincolo di appartenenza. Ancora pulsa di vita, vibra di furore che sembra salga proprio dal profondo della terra, questa energia tipica delle sfavillanti caldi notti degli anni ’80 quando si sudava cuore e anima in un garage anonimo al numero 84 di King Street a Manhattan, quando ancora il Paradise Garage era lì, scintillante, strapieno, strabiliante. Larry Levan era il timoniere di questo status quo, di quel club che non era solo un passatempo del fine settimana, era molto di più: aggregazione, celebrazione, integrazione, era un’espressione algebrica di stimoli e suoni, alla ricerca del proprio spirito. “Perché djing non è solamente recapitare beats, è una forma d’arte e non solo una professione”. Qualsiasi elemento presente doveva essere perfettamente in linea con l’idea di un party che non si ferma solamente al dress code o alla selezione musicale, ma sfiora quel concetto di festa vista come esaltazione massima di ogni minimo dettaglio, dalla palla di discoteca perfettamente lucidata ai bidoni della spazzatura, tutto veniva trattato con estremo rispetto da chiunque perché in quel momento si partecipava ad un tutt’uno di teste e piedi, dove il singolo essere possedeva un’esistenza relativa, si era parte del Paradise Garage anche solo per un attimo, anche solo per una notte.

A riguardo, proprio ieri Red Bull Music Academy ha pubblicato “Saturday Mass: Larry Levan and the Paradise Garage” uno studio sui caratteri principali che hanno permesso lo sviluppo del movimento Newyorkese della post-disco attraverso la storia dei propri maggiori esponenti, il Paradise Garage e l’operato del suo resident dj Larry Levan. In aggiunta a ciò Red Bull Music Academy propone una fine selezione di brani che più hanno testimoniato questa decade ’78-’87: inni come “Street Player” o “Ain’t No Mountain High Enough” sovrastano la scena a colpi di funk e soul mentre Diana Ross, Talking Heads, Eddy Grant e molti altri artisti brano dopo brano ci regalano un po’ di quell’aria, così lontana dalla nostra realtà ma che in pochi attimi può diventare altrettanto facilmente palpabile e quasi sembra di essere lì, nel mezzo della sala da ballo del garage più famoso di New York dove si calpestava libertà, ad occhi chiusi, in attesa del prossimo disco.