Nonostante l’annus horribilis appena trascorso, la musica ha continuato a fluire e il mondo non si è realmente fermato come sembrava: per questo è utile fare un recap, giusto per sottolineare lo stato dell’arte nel qui e ora. Questa non è una classifica, ma semplicemente un modo per fare ordine, selezionando i dischi che sono stati probabilmente i più significativi, i più interessanti o, semplicemente, quelli che hanno segnato lo zeitgeist del 2020.
Prima di iniziare però, una precisazione doverosa, in questo articolo non saranno presenti alcuni lavori di cui abbiamo già trattato: “High Off Life” di Future per l’America, e “L’ultimo a morire” di Speranza per l’Italia; come sono assenti “Gang” di Headie One, e “Banzai (lato blu)” di Frah Quintale, entrambi super consigliati ma anche loro già approfonditi, basta cliccare sui link per vedere come.
Parlando di spirito del tempo, è doveroso dedicare l’attacco di questo sunto al rapper dell’anno, quello che più di tutti ha monopolizzato l’attenzione del mondo e ha aggiunto un capitolo alla grammatica del drill: parliamo ovviamente del compianto Pop Smoke. Dell’ormai defunto rapper newyorkese si è parlato davvero tanto; per questo ci si limiterà semplicemente a dire che il suo grande merito stato quello di prendere una cosa bella ma di nicchia come il Drill UK e portarlo negli USA – quindi al grande pubblico. Nel fare questo, Pop Smoke però non si è limitato a copiare pedissequamente il già fatto ma ne ha creato una propria versione, affiancando a produzioni di matrice Drill UK un rap che ricordava il primo 50 cent. Connubio interessante Per questo i suoi lavori “Meet the Woo 2” e l’album postumo “Shoot For The Moon Aim For The Stars” aprono le danze di questo recap: perché sono dischi interessantissimi che hanno dato nuovo sangue alla scena, di conseguenza è doveroso celebrarlo come una grande perdita e al tempo stesso incoronarlo come il rapper dell’anno.
Parlando di album postumi, è doveroso anche dedicare qualche riga a “Circles” del defunto Mac Miller (uscito all’inizio di quest’anno e curato interamente da John Brion), con cui il rapper stava lavorando per quello che, originariamente, sarebbe dovuto essere il gemello di “Swimming”. “Circles” è un lavoro che lascia l’amaro in bocca perché dà la dimensione della crescita umana e stilistica del proprio autore, passato da brutto anatroccolo a cigno, da ragazzino sbruffone a unico rapper bianco accettato nella black music. Mac Miller e Pop Smoke lasciano in eredità dei grandi lavori e, in generale, delle discografie che meritano di essere approfondite e ricordate.
In mezzo a molti emergenti che hanno provato a farsi strada, quest’anno è stato segnato però dal ritorno di saghe di classici recenti che hanno continuato su filoni consolidati, confermando la bontà dei progetti. Andando in ordine cronologico di uscita, parto da “Run the Jewels 4”, un quarto capitolo sul livello delle uscite precedenti (e forse pure oltre…) nato sull’onda delle proteste di Black Lives Matter. L’unico motivo di perplessità che si porta dietro questo lavoro è quanto sia durato poco perché, al di là dell’effetto boom, ha avuto una vita davvero molto breve nella discussione pubblica; che questo sia dovuto al CoVid o ad altro non si può sapere, ma il neo rimane.
Il secondo lavoro di cui non si può non parlare è “Savage Mode II”, uscito a sorpresa tra lo sconcerto iniziale del mondo prima e il successivo giubilo dei fan poi, che letteralmente sono impazziti nell’ascoltare il sequel di quell’ormai leggendario primo ep. “Savage Mode II” è un’operazione riuscita alla perfezione, un disco solidissimo con tutti i crismi del caso, nonché la testimonianza della crescita e dell’evoluzione di due degli artisti più influenti di questa generazione che, con questo nuovo lavoro, marchiano a fuoco il 2020 con i loro nomi.
Per chiudere il segmento delle legacies, non può mancare il terzo capitolo di una delle saghe più iconiche del rap contemporaneo: parliamo ovviamente di Kid Cudi e del suo “Man On The Moon 3”. Kid Cudi è “…il rapper preferito del tuo rapper preferito”, una delle figure più influenti nella musica rap degli ultimi dieci anni e questo “Man on the moon 3” – di cui risulta quasi superfluo sottolineare quanto sia interessante, con testi geniali e tappeti melodici brillanti – è solo l’ultimo tassello di una carriera che negli anni e nei dischi è stata sempre più rivalutata, fino ad assumere uno status quasi mitico.
Passando oltre, è il momento di parlare di due dischi che hanno dietro una storia particolare, ovvero un percorso personale prima ancora che artistico. Il primo di questi è Jay Electronica, “A Written Testimony”, scritto in collaborazione con Jay Z e atteso per oltre dieci anni. Qualcuno, commentandolo in modo superficiale, si è concentrato su quanto in realtà questo lavoro sia interessante solo per la presenza di Jigga, ma sono considerazioni che non rendono giustizia ad un lavoro di sostanza, che mischia vecchio e nuovo, in modo preciso e accurato, e che contiene alcuni dei versi e delle produzioni meglio riuscite dell’anno.
Discorso simile ma diverso per “Pray For Paris” di Westside Gunn, che rappresenta la vetta del percorso di Griselda, una crew nata come fan del boom bap e che negli anni è diventata punto di riferimento per tutti coloro che amano il suono più classico (…ma che però non vogliono sentirsi dei boomer). “Pray for Paris”, in questo senso, è la consacrazione di un percorso che culmina con un disco la cui cover è disegnata da Virgil Abloh e che contiene al suo interno i migliori produttori della Golden Age, ma che al tempo stesso vede anche la partecipazione di Tyler The Creator e di Joey Badass, certificando come ormai Griselda sia un patrimonio comune ed intergenerazionale. Questo lavoro di Westside Gunn non è l’album della vita, ma la nomination non vale per il disco in sé quanto per il percorso complessivo fatto. “Pray For Paris” è il riconoscimento di un modo personale di fare musica, modo che per molti potrà sembrare demodé o affetto da retromania ma che ha, di fatto, conquistato il mondo.
Uscendo dagli Stati Uniti, chi stato vivendo una primavera artistica nel rap è senza dubbio il Regno Unito, che negli ultimi anni sforna prodotti di grandissima qualità. Meno esposti mediatamente rispetto ai loro cugini di Oltreoceano, gli inglesi hanno in casa alcuni dei nomi più caldi del mondo, come per esempio il già citato Headie One ma anche Dave, Slowthai, Octavian et cetera e, soprattutto, come J.Hus, che con il suo “Big Conspirancy” entra di diritto nella lista dei top del 2020. “Big Conspirancy” rappresenta meglio di tanti discorsi il bello della scena inglese, ovvero la varietà. Nel rap UK al momento si può trovare davvero di tutto, dal drill, a cose più classiche, passando per il grime, il dancehall e arrivando a ricerche più sperimentali. J.Hus è un rapper che fa del suo eclettismo un punto di forza, così come della sua capacità di dare ritmo e suono ai testi che si caratterizzano per la bellezza delle melodie di ispirazione quasi Jamaicana. Ma J.Hus è anche impegno sociale e riflessione su temi attualità, per questo si qualifica come un rapper completo e un nome da tenere d’occhio per il presente e il futuro.
Chi invece sembra arrivato alla fine è Bad Bunny, che quest’anno ha pubblicato due dischi: “YHLQMDLG” e “El Ultimo Tour Del Mondo”, e ha annunciato il suo ritiro dalle scene. Per molti il rapper-cantante portoricano non ha niente a che vedere con il rap; personalmente non sono d’accordo, e credo che il suo percorso sia anzi profondamente hip hop. Come fecero con il G Funk nella West Coast negli anni ‘90, appropriandosi del funk della generazione precedente e modificandolo con gli strumenti del rap, Bad Bunny ha imbevuto le sue radici latine con la la grammatica del suo tempo (il rap e la trap) per creare un percorso musicale unico che rappresentasse in modo nitido e pulsante se stesso e la sua realtà. “YHLQMDLG”, che è il disco più interessante da lui prodotto, è il tentativo da parte del suo autore di spalancare al mondo latino le porte del mondo, proponendosi come punto di riferimento per quella che è definita e stabilizzata come latin trap. Tentativo riuscito: “YHLQMDLG” è un lavoro che grida contemporaneità, e che certifica lo stato di salute del rap come esperanto musicale del mondo nel 2020.
Insomma, quest’anno come nello scorso (…e, si spera, come il prossimo) il rap ha prodotto dischi di livello. Manca però forse IL disco che ci porteremo dietro da qui in avanti e che, tra dieci anni, vedremo come un classico. Forse sarà “YHLQMDLG” di Bad Bunny o più probabilmente “Meet the Woo 2” di Pop Smoke, però rimango dubbioso in tal senso. Sarà il tempo a sciogliere questo dubbio.