– Once, early in the morning, Beelzebub arose – così esordisce il poeta inglese Percy Bysshe Shelley in “The Devil’s Walk”, ballata del 1812 a cui Apparat si è ispirato per il titolo del suo ultimo lavoro. L’omonimo album di Sascha e della sua nuova band è stato uno dei dischi su cui la critica si è scontrata e accanita maggiormente nell’ultimo periodo. Il ragazzo dai capelli estroversi ci aveva già introdotto a questo suo nuovo progetto nella nostra ultima chiacchierata avvertendoci che sarebbe stato qualcosa di veramente nuovo rispetto agli standard che ci aveva sempre proposto. In “The Devil’s Walk” tutto è ragionato al fine di rendere omogenea ogni traccia: è impossibile fossilizzarsi su un unico suono, si è invece travolti dalla musica in tutto il suo equilibrio, si è travolti dalla soffice dinamicità di ogni pezzo. Ed proprio per questo motivo che a noi l’album piace, perché non punta a stupire, non ci sono grandi colpi di scena, ogni suono, ogni linea melodica entra ed esce con grande delicatezza lasciandoci l’amaro in bocca e costringendoci così a rimettere il brano da capo. Come nostro solito siamo partiti con il domandare all’artista qualcosa sulla sintesi dell’album per poi inoltrarci nei meandri della storia, delle emozioni, delle curiosità e delle critiche. So che magari potrebbe sembrare un cliché concludere con le prime due stanze della ballata di Shelley, ma leggendo le parole di Sascha capirete qual è la forte connessione fra le due opere.
“Once, early in the morning, Beelzebub arose,
With care his sweet person adorning,
He put on his Sunday clothes.
He drew on a boot to hide his hoof,
He drew on a glove to hide his claw,
His horns were concealed by a Bras Chapeau,
And the Devil went forth as natty a Beau
As Bond-street ever saw.”
Ciao Sascha! Benvenuto nuovamente su Soundwall, ci ritroviamo dopo non molto tempo!
Ciao e grazie! Aspetta che trovo un posto tranquillo che sono in un club e c’è il delirio. Ok pronti!
Perfetto! Iniziamo riprendendo qualche informazione dall’ultimo incontro che abbiamo avuto: ci raccontavi che questo nuovo progetto nasce da un viaggio in Messico con alcuni tuoi amici e che poi si è evoluto tornando a Berlino e lavorando in studio. Raccontaci meglio della genesi e dell’evoluzione di questo progetto!
Beh è difficile riordinare tutti i vari momenti di questo progetto, non ci ho mai pensato troppo più che altro. Facevo semplicemente musica! E’ complicato parlarne in un’intervista, non ho mai approfondito troppo l’argomento: non è stato tanto un processo fatto di momenti reali, sono stati invece momenti interiori, cose che provenivano dal cuore, musica. Non è scienza, è veramente difficile rimettere tutto in ordine. E’ stato un processo molto lungo; in realtà è iniziato tutto molto tempo fa. Ho iniziato molti anni fa ad appuntare alcune idee suonando il piano a casa, registrando… Ho messo da parte veramente moltissimi spunti che però non ho mai pensato sarebbero poi stati pubblicati come “Apparat”. Così ho iniziato a lavorare su quelle sonorità. Poi però è arrivato Moderat che è stata nuovamente qualcosa di diverso, c’era molta elettronica! Dopo Moderat mi sentivo veramente libero di fare il grande salto, di passare a qualcosa di completamente differente. Mi sentivo come se avessi consumato ogni idea di quel mio lato, di aver prosciugato quel lato di Apparat… Sapevo però che il progetto “Apparat” rimaneva un essere in perenne evoluzione, qualcosa che può mutare in qualsiasi cosa. Ero libero di intraprendere qualcosa di veramente nuovo! Diciamo che questo sentimento è stato la vera genesi di tutto!
Come hai scelto la formazione della Band?
In realtà è stata una cosa molto naturale. L’album è in buona parte fatto di collaborazioni, fra cui quella con Patrick Christensen [Nackt]. Nackt mi è stato presentato da alcuni amici che pensavano avessimo molte idee in comune; ed era vero, eravamo veramente sulla stessa lunghezza d’onda, avevamo le stesse idee, la stessa curiosità nel combinare strumenti acustici ed elettronica e le stesse idee sulle modalità. Siamo stati in studio per circa tre mesi per concludere le registrazioni insieme e dopo ci siamo iniziati a preoccupare di come organizzare il live! E’ stato un problema che si è presentato alla fine perché durante le registrazioni non avevamo veramente la più pallida idea di che format live utilizzare, sapevamo solo che non sarebbe stato un laptop set! Quindi non sapevamo che strumentazione avremmo usato, non sapevamo di quanti elementi avremmo avuto bisogno. Dopo aver chiuso l’album capimmo che avevamo bisogno di 4 musicisti che fossero in grado di suonare vari strumenti. Così ci attivammo nel cercare le persone giuste fra le nostre conoscenze: Nackt chiamò un suo amico batterista che portò molte buone idee. Ad esempio chiamò lui perché era un ottimo batterista, ma sapeva al contempo suonare la tastiera… Insomma aveva capito che era il musicista che faceva per noi. Io invece invitai il batterista con cui avevo lavorato su Walls, Jörg. Così ci incontrammo tutti insieme e fu una situazione divertente perché non ci conoscevamo. Abbiamo iniziato a suonare qualcosa per vedere come andava: capii subito che era una formazione che funzionava. Ci capivamo, ognuno di noi aveva ottime idee. Io non ho assolutamente messo dei pezzi di carta con gli spartiti davanti a loro, ho solo iniziato a suonare i brani dicendo “Ok, vediamo che esce fuori!”. Ognuno quindi partiva con la propria visione del pezzo… E tutte insieme funzionavano! E’ stato fantastico, non dovevo dire “Tu fai questo e tu fai quest’altro” anzi, dicevo “Fate quello che volete!” perché eravamo in perfetta armonia, le cose venivano da sole.
A mio parere nell’album ci sono molte connessioni con il classico Apparat: l’elettronica c’è e non sta molto in disparte secondo me! Non mi riferisco a suoni propriamente elettronici (che comunque in parte sono presenti nell’album), mi riferisco invece al minimalismo, all’attenzione per i particolari, ai cicli di suoni che si presentano nell’opera. Qual è la filosofia sonora alla base di “The Devil’s Walk”?
Si esatto! Ci tengo molto a sottolineare questo punto: io non sono mai partito con l’idea di fare un disco che non avesse nulla a che fare con l’elettronica. L’idea generale e fondamentale era quella di creare qualcosa di organico che non fosse frutto solo dei sequencer. Poi ovviamente abbiamo lavorato anche con i computer. L’elettronica c’è, certo, ma l’obbiettivo era quello di fonderla al meglio con il suono di strumenti reali. Penso che il processo che abbiamo sfruttato sia l’unico che permetta di unire in maniera naturale quelle sonorità. Se avessimo usato solo suoni sintetici di basso, chitarra, tastiere e così via o magari avessimo lavorato separatamente con i computer sarebbero sempre rimasti due mondi separati: quello elettronico e quello dei suoni reali. E questo era esattamente ciò che volevamo evitare! E’ un’ottima domanda perché ripensandoci mi rendo conto di come il progetto si sia evoluto in continuazione durante il processo di sintesi. Certo, non sono mai partito con l’idea di fare un album pop fatto di “love, love, love”… Io rimango in ogni caso un produttore quindi ho iniziato il lavoro con delle sonorità in mente. Erano sonorità assolutamente non perfette, volevo un disco che non suonasse in maniera perfetta, volevo un album che suonasse un po’ cheeky… Ad esempio se registravamo dei loop di batteria, non andavamo a tagliarli al fine di renderli quadrati e impeccabili, volevamo qualcosa di umano! Per questo è fondamentale la band, perché è determinante l’elemento umano.
Ho cercato su internet, ma non ho trovato molte risposte a due domande molto ovvie: in primo luogo perché “The Devil’s Walk”? Chi è il diavolo in questo caso?
[Sascha ride] Allora ci sono varie cose da prendere in considerazione per il titolo dell’album. In primo luogo mi sono rifatto ad una ballata di un poeta romantico dell’ottocento, il suo nome è Shelly. Stavo cercando ispirazione in componimenti romantici ed è così che sono arrivato a “The Devil’s Walk” di Shelly. Il collegamento è questo: noi stavamo lavorando all’album proprio nel bel mezzo di una crisi economica che stava e sta invadendo tutto il mondo e questa cosa non colpisce solo le banche, i prezzi, l’economia, bensì anche, e in maniera diversa, la scrittura di un album. Così leggendo la ballata ho capito di cosa parlasse, parla della reazione di Shelly al collasso economico che stava interessando l’Inghilterra nei suoi giorni. In quel testo lui si sfoga, dice ciò che pensa, esprime le sue reazioni interne… Ed è evidente che era molto incazzato, è infatti un componimento molto critico. Parla ai piani alti, al governo, ai giudici, alla chiesa e dice che per troppo tempo hanno camminato accanto al diavolo. Questo è il ponte di collegamento: dopo 200 anni ci ritroviamo nella stessa situazione. Se vogliamo vedere altri significati del titolo, uno di questi è sicuramente quello che si interessa del rapporto che c’è fra me e le sonorità dell’album, sonorità nuove, libere, quasi come se facessero parte di un’espiazione della musica che ho fatto precedentemente.
E in secondo luogo, la copertina? Sembra nascondere un qualche ben preciso significato, è così?
Anche la copertina è collegata al discorso che stavamo facendo. Io ho iniziato a registrare qualcosa già quando ero in Messico e volevo che l’album presentasse qualche collegamento più evidente con quella terra. Così inoltrandomi nell’arte di quel posto ho conosciuto le opere di Posada [José Guadalupe Posada, ndr] e ne sono rimasto affascinato, non solo per lo stile in sé ma anche per il loro significato. Anche lui come Shelly era molto critico e spesso le sue opere avevano un significato molto vicino a quello che ha il testo di Shelly. Quindi possiamo dire che copertina e titolo dell’album hanno anche un forte significato sociale e politico e che sono fortemente connesse fra di loro.
Hai detto che una differenza importante fra un concerto come gli ultimi che stai facendo e quelli incentrati più sul dancefloor è la tipologia di pubblico: nel dancefloor il pubblico spesso è molto interessato ad essere “wasted”, a cercare una ragazza da portarsi a casa, mentre in un concerto c’è più interesse per la musica vera e propria. E per quanto riguarda le emozioni che provi, le sensazioni… Com’è per te vivere questa nuova esperienza?
Spesso per me non è facile come suonare in un club, lì la risposta del pubblico è più immediata, più diretta. Ci sono serate in cui la gente va a ballare solo per liberarsi dallo stress, per andare un po’ oltre, per trovarsi una ragazza da una sera, poi però ci sono anche serate in cui la maggior parte della gente è lì per ascoltare l’artista. Io ho sempre pensato che i miei show fossero una via di mezzo. Ora invece con questo nuovo format è cambiato tutto. Per dirti, gli ultimi due concerti che abbiamo fatto sono iniziati alle 7 di sera! Per me è una situazione molto nuova, quando suono in un club vedo la gente muoversi, ballare e capisco subito cosa devo fare per tenere alta l’energia e la risposta. Ora invece suoniamo una musica lenta e fatta di emozioni, non si guarda più al muoversi delle persone, si cerca invece di capire cosa si sta muovendo nell’anima del pubblico. Spesso è una cosa molto evidente, ma non sempre. Secondo me in un concerto la risposta del pubblico è ancora più importante, guardare gli occhi degli spettatori, il loro viso, sono cose alla base della riuscita di un concerto. Questa è una cosa che sto imparando ora e che rende ogni volta la serata diversa dalle precedenti. Ovviamente anche quando suono con il mio computer guardo il pubblico a volte, ma poi sono sempre lì da solo nella mia bolla e faccio cose simili ogni sera, perché sono io, io e basta. Ora invece sono lì con il pubblico e con la mia band ed è fondamentale che questo triangolo funzioni al meglio, che ogni vertice si senta a suo agio con gli altri 2. Se io non sono in armonia con il pubblico ne risente anche la band, perché capisce che c’è qualcosa che non va… Entrano in gioco moltissimi aspetti, l’importante è trovare sempre l’equilibrio fra ognuno di questi.
Parliamo un po’ dell’accettazione dell’album da parte del pubblico: sulla tua official Facebook page si leggono molti commenti della serie “Sascha, please come back to the dancefloor!”… Ti aspettavi queste reazioni? Come ha reagito il pubblico a questo tuo ultimo progetto?
Per la prima volta ho ricevuto veramente un mix di commenti. Ci sono anche persone che hanno criticato profondamente quest’ultimo album, ci sono stati commenti molto negativi. Sì è vero, alcuni mi hanno chiesto di tornare al dancefloor, ma pensavo sarebbero stati di più. Per me è stato importante anche imparare a ragionare su queste critiche negative, ma The Devil’s Walk è frutto della mia evoluzione, di un qualcosa che non posso e non voglio fermare; non posso fare a meno di cambiare nel tempo. Non voglio passare la vita a fare sempre le stesse cose. Intendiamoci, continuerò a suonare nei club ogni tanto, ma quello che non voglio è rientrare in maniera definitiva in quel mondo, non voglio suonare tutti i fine settimana così… Non voglio assolutamente diventi solo un lavoro e una routine, voglio che continui a essere uno dei miei vari aspetti, che continui a essere una cosa che faccio soprattutto perché amo farla. Non ho deciso di fare il musicista perché era un bel lavoro, ma perché mi piace essere mentalmente libero, mi piace vivere la mia passione. Spesso se uno diventa un Dj professionista entra nella routine, suona ogni settimana, prende i soldi, va a casa, si risposa, produce, suona, prende i soldi, va a casa… Non è proprio quello che voglio io. Voglio continuare a improvvisare nella mia vita, la voglio continuamente rendere interessante. Sfortunatamente alcune persone non amano prendere e veder prendere nuove direzioni. Sicuramente qualcuno mi ha sostituito con qualcun altro che continua a fare cose simili a quelle che facevo io. Allo stesso tempo ci saranno persone che avranno detto “Ei, ho conosciuto un nuovo artista qualche settimana fa. Mi piace veramente molto il suo ultimo album!”. Quindi ne perdi alcuni e ne guadagni altri, è questo il bello.
Diciamo quindi che con questi tuoi ultimi live show il pubblico è più selezionato. Come vedi la presenza dell’Apparat live band per l’apertura del Club to Club di Torino? Pensi sia un terreno fertile per questo tuo progetto?
Come ti dicevo mi porterò sempre dietro il mio bagaglio culturale elettronico e continuerò ad amare festival come il Club to Club. Sono festival che aprono la mente, che fanno conoscere a me come al pubblico cose nuove. Penso che sarà un terreno molto fertile per questo mio nuovo progetto. Sì, sicuramente ci sarà moltissima elettronica, molta gente che andrà per ballare, ma la gente è cosciente del fatto che, per quanto mi riguarda, sta andando a sentire Apparat in un teatro e che non sarà uno show da ballare. E’ il compromesso perfetto. Per dire, se avessi suonato sul palco principale del festival sarebbe stato veramente strano e fuori luogo… Sarebbero entrate in gioco le aspettative del pubblico e la sua reazione che sarebbe stata tipo “Ma che è?!”. Avevamo detto ai ragazzi del Club to Club che genere di show avremmo presentato e loro hanno proposto il teatro. Penso sia un’ottima idea! E lo è non solo perché così la serata è presentata subito per quel che è, ma anche perché è il posto migliore per la nostra musica, per le emozioni che vogliamo dare… Quindi great!
Torniamo all’album e ad un suo aspetto molto importante: la voce! Avevi già usato in passato la tua voce mi sembra, in ogni caso è la prima volta che ha un ruolo così importante: com’è stato esplorare e sfruttare questa tua “nuova” capacità?
Guarda anche qui ti devo dire che è stata una cosa molto naturale, non è stata una scelta campata in aria, è stata una cosa che è venuta da sola. Non volevo sicuramente usare la mia voce per cantare canzoncine o raccontare storielle. Secondo me la voce è lo strumento più diretto e più sentito che esista; con qualsiasi altro strumento hai bisogno di un’interfaccia, hai bisogno delle mani ad esempio, non è un approccio realmente diretto perché c’è sempre qualcosa di mezzo. La voce al contrario viene direttamente dalla tua testa e dal tuo corpo e non ci devi neanche stare a pensare, sei lì canti e non ci pensi, è qualcosa di magico, di naturale; solo dopo che hai registrato ci pensi e ti chiedi “Ma da dove diavolo è venuta fuori questa cosa?”. E questa magia è molto più facile da sentire con la voce più che con uno strumento musicale, perché la voce è tua, sei te! Anche per questo l’ho usata molto nell’album, proprio per l’idea di base, cioè l’idea di fare un album semplice, un album con pochi effetti speciali, con poca post-produzione e che venisse dalla semplicità del cuore. Devo dire che l’idea ha funzionato molto bene con gli altri ragazzi!
C’è una traccia o alcune tracce dell’album a cui ti senti più vicino, a cui sei più affezionato? Ma non tanto per la loro bellezza, più che altro per la loro storia o per i ricordi e le emozioni che vi legano?
Sai una cosa?! Mi stai facendo tutte le domande giuste! Parlavamo proprio prima di quei magici momenti quando sei in studio e succede qualcosa. Sfortunatamente questa cosa non succede per ogni traccia, a me capita solo due o tre volte all’anno. Per quanto riguarda l’album, questa cosa mi è successa con “Ash black veil”. Non ci ho lavorato a casa, sono andato semplicemente in studio con un’idea in mente: quella dei mandolini. Ho sentito la traccia dei mandolini a ripetizione per venti minuti. Poi mi sono tolto le cuffie e tutto è magicamente venuto da solo in una sola ora e mezza! Mi sono messo a suonare tutto quello che mi veniva in mente e sentivo che era perfetto. Non mi riuscivo a fermare. Ascoltavo il brano, pensavo alle percussioni, registravo ed erano perfette. Poi il basso allo stesso modo. Poi la voce. Tutto veniva da solo già al secondo take. In un ora e mezza l’anima del pezzo era pronta, era pronto il pezzo quindi! E quello che dicevo è appunto che queste cose si verificano molto raramente e con quel pezzo è successo. Per questo adoro “Ash Black Veil” così tanto!
Spesso nelle recensioni del tuo album alcuni puntano il dito sul fatto che le sonorità, la voce rimandano molto ai Sigur Ròs, ai Radiohead, a Four Tet e a queste affermazioni segue il pensiero che proprio per questo motivo l’album non è una novità, che nell’album non c’è sperimentazione… Come reagisci a queste affermazioni? Ma soprattutto a tal proposito: quanto conta l’evoluzione propria dell’artista, Apparat in questo caso, e quanto conta invece la sua evoluzione nella totalità della scena musicale?
Penso che la parola “evoluzione” nasconda molte trappole perché se ci pensi quand’è che possiamo parlare di “evoluzione”? Non è necessario stravolgere la propria musica per evolversi. Spesso sono le piccole cose che indicano un’evoluzione, mettere in atto piccole idee. Altre volte evolversi non vuol dire inventarsi qualcosa di nuovo, bensì vuol dire inventare nuovamente un mondo, poi ricostruirlo magari dopo anni. Questa è la crescita. E’ quello che penso di aver fatto con questo ultimo album. Ho sempre fatto un tipo di musica in passato, con questo nuovo album ho esplorato nuovi suoni, che sono nuovi per me. Ad esempio anche nella stessa Ash di cui parlavamo prima ci sono sonorità nebbiose che sono nuove per me, e che personalmente non ritrovo identiche negli artisti che hai citato, per il semplice fatto che sono mie! E’ tutto basto sul combinare aspetti, suoni, penso questo sia l’unico modo per fare musica oggi. Non è facile inventare qualcosa di nuovo in assoluto, ma più che altro non può essere questo l’obbiettivo di un musicista. Poi è divertente perché trovo veramente stupida questa categoria di giornalisti, trovo stupidi e superficiali i loro ragionamenti… Dammi qualsiasi pezzo, qualsiasi cazzo di pezzo che sta là fuori oggi e ti trovo 5 altri artisti con sonorità simili. Devi essere stupido per fare affermazioni del genere. Certo, a volte in giro si sentono brani che sono vere e proprie copie e quelle cose fanno schifo, sono d’accordo. Che senso hanno? Ma non penso proprio che i pezzi che ho scritto siano copie. Accetto le critiche, ma che siano ragionate [ride].
E hai già in mente nuovi sviluppi per questo tuo nuovo progetto? Non saprei, magari un album di remixes in questo caso sarebbe veramente interessante… O magari avete già nuove idee da mettere su disco?
Mah, se dovessi fare un album di remixes dovrei anche remixare me stesso… Mi piace molto il concetto del remix e ci sono molti artisti con cui sarebbe interessante collaborare, ma ancora non è una cosa a cui ho pensato troppo. Per ora una cosa di cui sono certo è che farò un altro album Moderat, ma ci vorrà un bel po’. Non saprei, per ora sono più interessato a suonare live, continuare il tour, poi mi prenderò una piccola pausa. C’è talmente tanto schifo in giro, anche l’industria musicale… Si rischia di trasformare tutto in qualcosa di noioso. Poi produrre è sempre bello, ma di questi tempi se non si sta attenti si rischia di cadere nel circo che sta creando l’industria musicale. E’ importante per me prendermi un attimo per pensare a quello che ho fatto, al perché l’ho fatto e non farmi risucchiare da tutte le dinamiche della promozione.
Grazie mille Sascha, ci vediamo al Club to Club di Novembre!
Certo! Grazie a voi, è sempre un piacere.
English version:
– Once, early in the morning, Beelzebub aros – in this way Percy Bysshe Shelley begins “The Devil’s Walk”, ballad pubblished in 1812 that inspired the title of latest Apparat work. The homonymous album of Sascha and his new band was one of the most criticized and discussed releases of the last period. Apparat had already introduced his new project in our last conversation warning us that it would be something really new, if compared to the stuff he usually proposed. In “The Devil’s Walk” everything is designed in order to make harmonious each track: it’s impossible to fossilize on a single sound, on the contrary we are overwhelmed by the music in all its balance and by the soft dynamics of each track. And for this reason we like the album, because it does not aim to impress, there are no big surprises, every sound, every melody line goes in and out with great delicacy leaving great nostalgia for those sounds and forcing us to listen to the track again. As our usual we started asking to the artist something about the creation of the album and then we entered into the depths of history, emotions, curiosities and criticisms of the work. I know that conclude with the first two stanzas of the Shelley’s ballad might sound like a cliché, but reading the words of Sascha you will understand what is the strong connection between the two works.
“Once, early in the morning, Beelzebub arose,
With care his sweet person adorning,
He put on his Sunday clothes.
He drew on a boot to hide his hoof,
He drew on a glove to hide his claw,
His horns were concealed by a Bras Chapeau,
And the Devil went forth as natty a Beau
As Bond-street ever saw.”
Hello Sascha! Welcome back on Soundwall, we end up not long after!
Ciao! Thank you! Wait, I need a quiet place, I’m in a club right now and there is lot of caos. Ok, I’m ready!
Great! Let’s start taking some informations from the last meeting we had: you’ve told us that this new project was born from a trip in Mexico with some friends and then evolved once you were back to Berlin working in studio. Tell us more about the genesis and the evolution of this project!
Well, it’s hard to sort all moments of this project. I never thought about it too much. It was just music! It’s difficult to talk about it in an interview, I’ve never detailed the argument too much: it was not so much a process made up of real moments, but instead of inner moments that came from the heart, simply music. It is not science, it’s very difficult to put everything back in order. It was a very long process, started long ago. I started many years ago to jot down some ideas, playing the piano at home, recording … I’ve put aside a lot of ideas but I never really thought they would be later published as “Apparat”. So I started working on those sounds. But then Moderat project came, so again something different, there was a lot of electronic! After Moderat I really felt free to take the plunge, moving on to something completely different. I felt like I had consumed every idea on that side… But I knew that “Apparat” remained something ever-evolving, something that can change into everything! I was free to do something really new! I think this feeling was the true genesis of all!
How did you choose the band members?
Actually it was a very natural thing. The album is mostly made up of collaborations, including with Patrick Christensen [Nackt]. Nackt was introduced to me by some friends who thought we had many common ideas. And it was true, we were really on the same wavelength, we had the same ideas, the same curiosity in combining acoustic and electronic instruments and the same ideas on how. We were in the studio for about three months to finish the recordings together and than we started to worry about how to organize the Live! It was a problem that occurred at the end of the recordings; we had really no idea of what live format to use, we only knew it would not be a laptop set! So we knew that we would used real instruments, but we didn’t know how many musicians we needed. After closing the album we knew we needed 4 musicians who were able to play various instruments. So we searched the right people: Nackt called one of his drummer friends who brought many good ideas. For example, he called him because he was a great drummer, but he also plays keyboard … In short, he understood that he was the right man. I invited the drummer with whom I had worked on Walls, Jörg. So we met all together and it was a funny situation because we did not know eachother. We started playing something together to see how it goes: I knew immediately that was a great session. We understood each other, each of us had very good ideas. I didn’t put a paper with the music in front of them, I just started playing songs saying “Okay, let’s see what comes out”. Everyone then started with his own vision of the track… It all worked! It was great, I should not say “You have to do this and you this”, indeed I said “Do what you want!”, because we were in perfect harmony!
In my opinion the album has many connections with the classical Apparat: ther’s electronics, and it is not much on the sidelines! I am not referring specifically to electronic sounds (which are part of the album), I refer rather to the minimalism, to the attention to detail, to the cycles of sounds that occur in the work. What is the sound philosophy behind “The Devil’s Walk”?
Sure! I want to stress this point: I’ve never started with the idea of making a record that had nothing to do with electronics. The general idea was to create something organic that was not the result only of sequencers. Then we obviously worked also with computers; of course there is electronics, but the goal was to fuse it at the best with sounds of real instruments. I think the process we used is the only one that allows to combine those sounds in a natural way. If we had used only synthetic sounds of bass, guitar, keyboards and so on, or maybe if we had worked separately with computers, they would always remain two separate worlds: the electronic sound world and the real sound world. And this was exactly what we wanted to avoid! It’s a very good question because looking back I realize how the project evolved continuously during the synthesis process. Of course, I never took the idea of making a pop album made up of “love, love, love”; I remain in any case a producer so I started working already with a sound in my mind. It was absolutely not a perfect sound, I wanted a record that did not sound so perfect, I wanted an album that sounded a little cheeky… For example, when we recorded drum loops, we didn’t cut them to make them clean and perfect, we wanted something human! Exactly for this reason the band is essential, because the human element is crucial!
I searched on the internet, but I have not found so many answers to two very obvious questions: why the name “The Devil’s Walk”, who is the devil in this case?
[Sascha laughs] There are several things to consider for the album title. First, I was inspired by a ballad of a romantic poet of the nineteenth century, his name is Shelly. I was looking for inspiration in romantic poems and that’s how I came to Shelly’s “The Devil’sWalk”. The connection is this: we were working on the album right in the middle of an economic crisis that is affecting the whole world and this thing is affecting not only banks, prices, the economy, but also, and in a different way, the composition of an album. So reading the ballad I realized what it was about, it talks about the Shelly reaction to the economic collapse that was affecting England in his day. In that text he pours out, he says what he thinks, expresses his internal reactions… It is evident that he was very angry, in fact it’s a very critical ballad. He talks to the upper floors, to the government, to the courts, to the church, saying that for too long they walked next to the devil. This is the link: after 200 years we are in the same situation. If we want to see other meanings of the title, one is surely the one that concerns the relationship between me and the sound of the album… New sounds, free sounds, almost as if they were part of an “expiation” from the music that I did before.
And the cover? It seems that it hides some very precise meaning, is it?
Even the cover is connected to the speech we were doing. I had already started to record something when I was in Mexico and I wanted that the album presented some evident connection with that land. So, going into the art of the place, I knew the works of Posada [Jose Guadalupe Posada] and I was fascinated, not only for the style, but also for their meaning. He was very critical too, like Shelly, and often his works had a meaning close to that of Shelly’s composition. So we can say that the album cover and title have a strong social and political meaning and that they are strongly connected to each other.
You said that an important difference between a concert like the last ones you’re doing and a dancefloor night event is the type of audience: in the dancefloor the audience is often interested more into being “wasted” or to looking for a girl, while in a concert there is more interest in music! And what about the emotions you feel, the sensations… How is this new experience for you?
Well, for me is often not as easy as playing in a club, there the public response is more immediate, more direct. There are nights where people go to dance just for relief stress, to overdo, to find a girl for one night, but then there are nights when most people are there to listen to the artist. I always thought that my shows are a middle ground. But now with this new format, everything changed. The last two shows we had started at 7 pm, for example. For me it’s really something new, when I play in a club I see people dancing and moving and I quickly understand what I should do to keep the energy and the feedback high. But now our music is slow and emotionally strong, it’s not all about dancing people, it’s about “move something inside people”, it’s about understand the inner reaction of the audience. Often it’s very obvious, but not always. I think in a concert the audience response is even more important… To watch through the audience eyes, their face, these are the basis of the success of a concert. It’s something I’m learning now and that makes each concert different from the previous. Obviously also when I play with my computer I look at the audience from time to time, but then I am always alone in my bubble and I do similar things every night. Now I am there with the public and with my band and it is essential that this triangle runs smoothly, that every vertex feels comfortable with the other 2. If I am not in harmony with the audicence, my band feels that, because they understand there is something wrong… There are many aspects and variables to consider, the important thing is always to find the balance between all these aspects.
Let’s talk about the album acceptance by the public: how did the public react to this your last project? On your official Facebook page there are many comments like “Sascha, please come back to the dancefloor !”… Did you expect these reactions? Why?
For the first time I got a real mix of comments. There are also people who have deeply criticized this album, there have been very negative comments. Yes it is true, some asked me to return to the dancefloor, but I thought they would be more. For me it was also important to learn something from these negative reviews, but The Devil’s Walk is a result of my evolution, something that I can’t and don’t want to stop. I can’t stop change over time. I do not want to spend my life doing ever the same things. Mind you, I will continue to play in clubs from time to time, but I don’t want to come back permanently in that world, I don’t want to play every weekend… I absolutely do not want to turn my passion into a job and into a routine, I want to continue to do it because it’s something I love, not because it is something that I have to do… I have not decided to be a musician because it was a good job, but because I like to be mentally free, I like to live my passion. Often if one becomes a professional DJ, enters into the routine: you play every week, you take your money, you go home, you sleep, you produce, you play, you take your money, you go home and so on… It’s not really what I want! I want to continue to improvise in my life, I want to keep my life interesting for me. Unfortunately some people do not like to take new directions and listen to other directions. Surely someone replaced me with someone else who continues to do similar things to what I did. At the same time there will be people who say “Hey man, I listened to a new artist a few weeks ago. I really like his last album”. So you lose some and gain others, this is what is great!
Let me say that with your last live shows the audience is more selected. What do you think about the presence of the Apparat live band at the opening of the Turin’s Club to Club in November? Do you think is a good ground for your project?
As I told you, my cultural electronic luggage will be always with me and I will continue to love electronic cultural festivals like the Club to Club festival. These are festivals that open minds, festival that teach to me and to the pubblic new things. I think it will be a very fertile ground for my new project! there will be a lot of electronic music and many people who go to dance, but people are aware that the Apparat Band show it’s going to be in a theater and it will not be a dance show. It’s the perfect compromise. I mean, if we play on the main stage of the festival it would be something really strange… The public reaction would be like “What is it?”. We explained to the Club to Club’s guys what kind of show we will bring and they suggested the theater, I think it’s a great idea! And not just because in this way the show is presented for what it really is, but also because in my opinion it is the best place for our music, for the emotions that we want to give to the audience… So great!
Returning to the album and to one of its very important aspects: the voice! You used your voice in the past I think, in any case it’s the first time that your voice has a such important role: how was to explore and to take advantage of this your “new” capability?
Well, here I have to say it was again a very natural thing, it was not a far-fetched choice. I definitely didn’t want to use my voice to sing a song or to tell a story. To me, voice is the most direct and real instrument there is. With any other instrument you need an interface, you need the hands for example, it is not a direct approach, there is always something between. On the contrary the voice comes directly from your head and from your body, you have only to sing, it’s something magic, something natural and only after you registered you think about it and you ask “How the hell I did this?”. And this magic is much possible with our voice more than with a musical instrument, because the voice is yours, the voice is you! Even for this I used a lot my voice in the album, just for the basic idea: to make a direct and simple album, an album without special effects, with not so much post-production. An album that comes from the simplicity of the heart and the idea worked very well with the other guys!
Is there or are there particular tracks in the album that you feel closer to you, that you’re more affectionate with, not so much for their beauty, but more for their history or memories and emotions that bond you?
You know what?! You’re asking me all the right questions! We spoke just little before of those magic moments when you’re in the studio and something happens. Unfortunately this thing does not happen for each track, it happens to me two or three times a year. Talking of the album this thing happened to me with “Ash Black Veil”. I didn’t work at home on it… I went into the studio with the mandolins idea in mind. I heard the track of mandolins for twenty minutes. Then I took off my headphones and everything magically came to me in only one hour and a half! I started playing all that came in my mind and I felt it was perfect. I could not stop. I listened to the song, I imagined the percussion, I recorded and they were perfect. Then the bass in the same way. Then the voice. Everything was ready at the second recording! In an hour and a half the soul of the piece was ready, so the track was ready! And that is exactly what I was saying! These things occur very rarely and with that track happened. This is why I love Ash Black Veil so much!
Often in reviews of your album, they point the finger on the fact that the sounds, the voice are very similar to those of Sigur Ros, of Radiohead, of Four Tet, and than it follows the thought that for this reason the album is not fresh, there is no experimentation… How do you react to these statements? But especially in this context: in your opinion how much is important the evolution of an artist, in this case Apparat, regarding his and only his evolution, and how much is important his evolution in the totality of the music scene?
I think the word “evolution” hides many traps because when can we talk of “evolution”? Think about it. It is not necessary to reinvent our music in order to evolve ourself. Often are the little things that bring to the progress, implementing small ideas, sometimes evolution does not mean inventing something new, but it means reinventing a world, maybe it already exists, but it doesn’t matter becouse when you invent it, it becomes your. This is growth. And it’s what I think I’ve done with my album. I’ve always made a kind of music in the past, with this new album I explored new sounds, sounds that are new for me. For example, even in the same Ash mentioned earlier there are foggy sonorities that are new to me, and I personally do not find the same sonorities in the artists you mentioned, for the simple fact that they are mine. It’s all based on combining different aspects, sounds, I think this is the only way to make music today. It is not easy to invent something really new, but more than anything else this can not be the goal of a musician, it would be a foible. Then it’s funny because I find this kind of journalists really stupid, I find stupid and superficial their arguments … Give me any record, any fucking records out there and I’ll find you 5 other artists with similar sounds. You must be stupid to make such claims. Sure, sometimes you listen to songs that are copies of others and I agree: those tracks suck! What sense do they have? But I really don’t think I wrote “facsimile” music. I accept the criticism, but criticism coming from the reason [laughs].
Finally: do you already have in mind new developments for this project? I do not know maybe an album of remixes in this case it would be very interesting… Or maybe do you have new ideas to put on disc?
If I do an album of remixes, I have also to remix myself… I really like the concept of the remix and there are many interesting artists but it is not something that I thought too much about. For now, one thing I am sure is to do another Moderat album, but it will take quite a while. I don’t know, now I’m more interested in playing live, in continuing the tour, then I will take a little break. There’s so much crap around, expecially in the music industry… I don’t know, the risk is to turn everything into something boring. Then producing is always something beautifull, but in these days if you’re not careful you could fall in the circus that the music industry is creating. It is important for me to take a moment to think about what I did, why I did it and it’s very important not to fall into the dynamics of the promotion.
Thank you Sascha. See you at the Club to Club!
Of course! Thanks to you, it’s always a pleasure!