Fra le perle della programmazione di un festival bellissimo come Musical Zoo (andateci: anche solo per la location, resterete a bocca aperta), spicca di sicuro la presenza del live di Clark. Un live veramente d’impatto, come abbiamo potuto testimoniare vedendolo allo spin off turco del Sónar, per un artista che dopo anni continua ad essere sempre molto rilevante – anzi, lo è sempre di più. Quando ha iniziato, ormai una quindici d’anni fa, sembrava fosse un cascame di un tempo già andato, quello della IDM, della musica di Mike Paradinas, dell’elettronica dance-non-dance “intelligente” e con strutture complesse, tutto un mondo spazzato via dall’avvento della techno/house di impianto minimale (o, al contrario, industriale). Però per fortuna, sul lungo periodo, la qualità conta. E invece di essere progressivamente messo in soffitta come ultimo dei giapponesi di una musica che non interessava più, negli anni il suo profilo si è sempre più stagliato come uno di quelli veramente (e meritatamente) “pesanti” nel campo della musica elettronica. Giusto così. Anche perché pure l’uomo Clark, non solo il musicista, se ci si entra un po’ in confidenza di cose da dire ne ha parecchie. Eccovi allora un’intervista per nulla banale, partendo dalle considerazioni sul suo ultimo album “Death Peak” – come del resto per nulla banale è la sua musica.
Iniziamo dalla fine: sei soddisfatto dell’album?
Oh sì, ne sono svergognatamente soddisfatto! Sai, provo una strana sensazione dolceamara: il 2016 è stato un anno proprio bello. Perché non ho suonato in giro…
Ah, bene. Alla faccia!
No, aspetta, ora non vorrei sembrare scortese ed ingrato con tutti quelli che mi hanno chiamato a suonare in questi anni nei club o nei festival! A me piace molto suonare in giro, andare in tour. Mi piace, sì. Però lo ammetto, dovessi scegliere non ho dubbi: tra stare in tour ed essere chiuso in studio a creare, beh, tutta la vita la seconda. Quindi ecco, che ti devo dire, il 2016 è stato un anno proprio bello. Poi certo, mi sono pure sposato – chiaro che diventa un anno da ricordare già di suo. Ma al di là delle questioni personali, ti assicuro che essermi preso un anno di pausa rispetto a date ai quattro angoli del mondo è qualcosa che ho davvero apprezzato, me lo sono goduto. Tant’è che “Death Peak” mi rende davvero felice, sono proprio soddisfatto del risultato: onestamente, credo sia la musica più avventurosa che abbia mai composto.
Hai impiegato tanto tempo ad idearlo, a scriverlo? Te lo chiedo perché mi sembra un disco più complesso della media anche dal punto di vista melodico ed armonico, non solo da quello della produzione sonora.
Mmmh, sì abbastanza. Diciamo quattro mesi. Anzi no, sei. La differenza, rispetto al passato, è che tutto il disco è stato scritto esattamente in questi sei mesi: in passato, invece, utilizzavo materiale accumulato negli anni. Stavolta no, stavolta avevo in testa una idea ben precisa e andava costruita da zero, non c’era la possibilità di riciclare cose pensate precedentemente. Un disco che ho iniziato in Australia, finito in Inghilterra. Di solito la parte più divertente per me è l’inizio, quando si tratta di dare vita ad una traccia – quando cioè ci sono le prime scintille, le prime idee. Tutta la parte successiva, quella in cui devi editare, rifinire, la trovo molto noiosa. Il divertimento torna solo quando c’è finalmente da chiudere tutto quanto! Con questo album invece devo dire che momenti di noia non ce ne sono stati mai. Ero proprio innamorato di quello che stavo facendo. Lo ero mentre lo facevo, lo sono rimasto riascoltando il prodotto finito. Poi ok, questo non significa necessariamente che sia così buono… però ecco, a me piace, mi ci sono “calato” dentro come non mai. Tant’è che a sessioni definitivamente chiuse, mi è scesa addosso la tristezza: e adesso cosa faccio? Riuscirò di nuovo a fare del materiale così valido?
A me pare che “Death Peak” si situi esattamente a metà tra “Iradelphic”, di cui ha la propensione alla scrittura, e “Clark”, di cui ha l’impatto e in parte la cupezza.
Forse ci sta, come osservazione. Di sicuro è un album strano: inizia in un modo molto “estivo”, le prime due tracce infatti non sono ambiziose, sono in qualche modo molto “amichevoli”. E’ con lo scorrere dei brani che il disco diventa una specie di “bestia cattiva”. Ho voluto lavorare molto sulla “narratività” dell’album nel suo insieme – come mai in passato. “Iradelphic” lo amo veramente molto; ok, in realtà amo tutti i miei dischi, ma “Iradelphic” fu un’avventura nuova per me, a partire dall’uso di strumenti veri, convenzionali. Però “Death Peak” in effetti è diverso. Vero: ci sono elementi techno, come in “Clark”. Ma ce ne sono anche di folk. O di death metal.
Ci sono brani molto ambiziosi come “Un UK”, che è quasi una sinfonia più che una semplice traccia.
Credo sia una delle cose migliori che abbia mai fatto. Inizialmente volevo addirittura metterla ad inizio album, poi però ho pensato che sarebbe stato un inizio troppo ingombrante. Ho avuto due ispirazioni, lavorandoci sopra: il death metal e la drum’n’bass (sai, io ho una passione enorme per quest’ultima, per gente come Ed Rush e Optical). Volevo combinarle. Anche perché ero in quelle settimane molto incazzato per la faccenda della Brexit, c’era un sacco di emotività in me. Tuttavia poi ho pensato che non era il caso di iniziare così col botto. Non puoi arrivare nudo, su un palco: arrivi tutto vestito, poi se le cose vanno bene traccia dopo traccia ti esalti e ti spogli, allora sì…
Ma scusa, che te ne frega della Brexit: ti dividi tra l’Australia e Berlino, tu. (risate, NdI)
Vero, vero, hai ragione! Ma sai com’è: vedere trionfare la faccia più brutta dell’Inghilterra, quella razzista e xenofoba, è stato un duro colpo, qualcosa di difficile da digerire. Però non voglio parlare troppo di politica. Fammi solo dire che le persone che facevano campagna per il Leave, ecco, erano davvero delle persone “piccole”. Uno come Farage, per dire. Mamma mia. Non farmici pensare.
Intanto, com’è vivere in Australia, almeno per una parte dell’anno?
Oh, è buono! Pure troppo, guarda. C’è troppo sole, il tempo è troppo bello. Io faccio fatica a scrivere musica quando c’è bel tempo – sono maledettamente inglese in questo, ho bisogno di grigio, freddo e pioggia, sono evidentemente l’habitat più naturale per la mia creatività.
Tornerei un attimo ad “Iradelphic”: onestamente, non trovi che sia stato sottovalutato come disco? Io ne sono fermamente convinto. Ok, sì, è anche piaciuto, c’è chi ne ha parlato bene, per circolare ha circolato, ma secondo me non ne è stato capito abbastanza l’enorme valore.
Non lo so… Ok, sì, una parte di me effettivamente la vede in questo modo. Però: come fai a decidere tu la qualità di quello che fai? Posso solo dire che io, personalmente, di quel materiale sono ancora molto felice. Alla fine ho deciso che questo è quello che conta – l’unico criterio da soddisfare è che tu stesso sia felice di quello che hai fatto. Se fai così, tagli fuori tutta una serie di cazzate, di giudizi, di opinioni. Devi confrontarti giusto con te stesso, e tenere per buono il tuo giudizio. Funzione anche rovesciando la prospettiva, eh: nel senso, può essere anche molto pericoloso quando i giudizi su quello che fai sono troppo positivi, esageratamente positivi, pure lì è sbagliato, è dannoso. O ancora: pure quando vieni criticato in modo un po’ veemente, a ben vedere è in ogni caso bello che la musica susciti delle passioni forti. No? Io ad ogni caso mi tiro fuori da tutto, col mio approccio.
Ma le “cazzate” sono quelle dei media, dei giornalisti musicali, delle webzine…?
No, no, no, assolutamente no! Le “cazzate” sono di tutti. Soprattutto, uso la parola non con un’accezione negativa, è quasi affettuosa invece. A maggior ragione in una fase storica in cui, mai come prima, i feedback ti arrivano da tutte le parti, e ti arrivano in tempo quasi reale. Non ce l’ho con nessuno, in realtà, men che meno con quelli che mi criticano. Perché sta a te, musicista, mantenere la giusta distanza. E prendere tutto con un po’ di humour.
A proposito del mantenere la distanza, quanto ascolti della musica che c’è in giro? O preferisci farlo poco, per non farti influenzare?
Mah. Dipende. Quando sono alla stretta finale per finire un mio album, l’ultima cosa che voglio fare è ascoltare musica di altre persone. Passato però questo periodo, mi concedo volentieri il piacere dell’ascolto, della scoperta. L’ultima di queste è stata Mark Fell: accidenti, la sua musica è fantastica. E’ in giro da tanto, ma solo di recente mi sono accorto di quanto è meravigliosa tutta la sua discografia. Tra l’altro, è stato un’ispirazione molto forte proprio per “Un UK”. Amo di lui il fatto che sai così unico, riconoscibile, diverso dagli altri. Detto questo, io non ho un tipo di ascolti sistematico ed allargato. In altre parole: non sono e non sarò mai n dj, e lo dico soprattutto per il rande rispetto che provo per l’arte di fare il dj. Se sei un dj serio, devi passare tutto il tuo tempo ad ascoltare – con attenzione – la musica degli altri. Il che può anche essere divertente e stimolante, oltre ad essere impegnativo e serio quando fatto bene, ma appunto non fa per me. Non avrei il tempo e nemmeno la predisposizione per diventare un buon dj e preparare dei buoni set.
Se guardi alla tua carriera nel complesso, vedi una precisa evoluzione? O le cose si sono sviluppate in ordine un po’ casuale?
Trovo che sia sempre più sciolto, veloce e a mio agio nel fare musica. Che detto così pare bello, no? Invece può diventare un problema, puoi iniziare a sentirti troppo sicuro di te. Prendi oggi, prima di mettermi a parlare con te: ho gettato le basi per addirittura sei tracce. Pattern, melodie. Sento che le idee mi scorrono dentro con grande facilità e naturalezza, negli ultimi tempi. Posso farle “apparire” quasi a comando. Questa cosa da un lato è molto positiva, dall’altro devi stare attento ad essere molto severo e selettivo su quello che fai e soprattutto su quello che davvero merita di arrivare fino all’orecchio del pubblico. Insomma: devi stare attento a non diventare uno stronzo pieno di sé che pensa che qualsiasi sia suo parto artistico sia una meraviglia. Questo è fon-da-men-ta-le. E lì come si può intuire è questione prima di tutto di equilibrio mentale, di psicologia, non di talento o padronanza tecnica. Il talento resta un fattore primario, ovvio, ma non basta. Deve essere sempre accompagnato dal giusto equilibrio.
Che poi l’equilibrio spesso non c’è nell’usare marchi e definizioni. Quando tu ti sei affacciato sulle scene, la definizione IDM già era inflazionata e vista come fuori moda (lei, e anche la musica a cui era associata: infatti all’inizio in molti ti definivano bravo ma anacronistico e quindi irrilevante – ma la tua permanenza nelle scene con un ruolo sempre più importante direi che è la smentita migliore). Ora addirittura come definizione non si usa proprio più. Quanto senso aveva allora, e quanto ne avrebbe adesso, per la tua musica?
In realtà la gente può chiamare la musica come diavolo le pare. Però sì, mi faceva un po’ ridere IDM, ovvero “intelligent dance music”: se ascolti un certo tipo di musica, ti stai dando dell’intelligente da solo? Mah. Ho sempre pensato che per quello che facevo io di “IDM” bastava ed avanzava la “M”.
Parlando di musica “non-intelligente”, quali sono i tuoi “guilty pleasures” musicali?
Oh, ce ne sono tanti! Gabber, certa trance, l’hip hop di peggior lega, certe robe di classica veramente dozzinali e mielose. Sì, diciamo che mi piacciono le cose un po’ tamarre. E occhio: non è che mi piacciono secondo un’attitudine all’ironia tipicamente post-moderna, legata a una griglia interpretativa elaborata da qualche filosofo francese post-strutturalista, cose così. No: mi piacciono davvero, mi piacciono perché mi piacciono, mi piacciono per quello che sono. Chissà, forse di mio sono proprio un tamarro. Il che non sarebbe manco male, perché meglio essere dei tamarri di cattivo gusto ma sinceri piuttosto che persone raffinate ed intelligenti ma che l’identità la prendono in prestito da qualcuno o qualcosa.
Credi che ci sia un eccesso di ironia post-moderna, oggi? Secondo me sì.
Lo credo, sì. Ed è così già da un sacco di tempo. Sai qual è il risultato finale? Che non c’è più avanguardia, non c’è più chi si prende dei rischi veri. E’ tutto in qualche modo così omogeneo, piatto… perché tutti hanno accesso a tutto. Cosa che in sé sarebbe fantastica, attenzione: non voglio essere cinico su questo. Zero. E’ una gran cosa. Però porta la gente a non impegnarsi.
Occhio che alla fine se tutto è piatto ed omogeneo, finisci coll’essere piatto ed omogeneo pure tu. Anche tu fai parte del panorama attuale. Anche io.
Esatto. Ci siamo invischiati tutti. Siamo tutti dentro a dei pattern comportamentali monitorati da Google.
Se tutto è tendenzialmente piatto, dov’è che bisogna andare a cercare i picchi?
Ah caspita, buona domanda. Sai cosa? Una cosa che bisognerebbe fare, ogni tanto, è spegnere internet per un po’. Disconnettersi dal web. Connettersi col tuo respiro. Mmmmh, suona un po’ troppo hippy, vero?
Ormai più che una techno-head berlinese stai diventando un hippy australiano…
(ride, NdI) …sì, devi focalizzarti sul tuo respiro. Ma prima, devi bere venti tazze di caffè! Se fai così, poi diventi pronto per scrivere la musica più assurda e geniale. Niente internet; venti tazze di caffè; focalizzarsi sul proprio respiro. Voilà: sei pronto per scrivere la musica più fantastica del mondo. Però subito dopo ti viene un infarto.
Cercando il picco, si arriva alla morte. Ah, ecco allora perché hai chiamato il tuo album “Death Peak”… (risate, NdI)
Vero, vero! Accidenti, con questa chiacchierata abbiamo scoperto l’allegoria perfetta per raccontare il mio disco. Fantastico!