Lo scorso 12 Aprile ci siamo recati al Brancaleone di Roma per assistere allo showcase della Mindshake, etichetta fondata dal barcellonese Paco Osuna. In consolle assieme a lui, a portare il calore e la felicità delle feste ibizeniche in città, anche John Lagora e Fer Br. Peccato per il dancefloor poco denso perché una contrapposizione del genere è veramente degna di nota: un locale scuro e grezzo come il Branca che ospita artisti capaci di far riecheggiare i fischietti e i colori del Terrace dell’Amnesia di Ibiza. Ad ogni modo, musicalmente parlando, la serata è stata un successo, in perfetto stile Mindshake, quindi stilisticamente variegata, a cavallo fra techno e minimal e con chiusura senza azzardi: Born Slippy degli Underworld (che fa sempre la sua porca figura). Fra tutte le parole che l’artista ci ha lasciato durante la nostra chiacchierata, su alcune non si può discutere, come ad esempio “Paco fa sempre festa… festa, festa, festa”: c’è poco da fare, se Paco Osuna sta suonando balli, punto. Siamo riusciti a bloccarlo durante il check pomeridiano e mentre Felipe Cardenosa (il fidato visual performer dell’artista, venuto direttamente da Barcellona per la serata) montava le installazioni, ci siamo fatti una veloce chiacchierata sui divani arancioni del Brancaleone: siamo partiti dallo Studio 54 di Barcellona per poi toccare la scena di Valencia e arrivare in fine alla Mindshake label passando per l’Amnesia di Ibiza.
Partiamo dalla nascita della tua passione: come hai approcciato alla musica elettronica? Anche solo come ascoltatore, in che modo ti sei avvicinato a questo mondo?
La mia passione è nata quando avevo 13-14 anni grazie a mio zio, direttore dello Studio 54 di Barcellona. Lui è stato il collegamento con questo genere di musica. Ovviamente al tempo me la tiravo un po’ con i miei amici di scuola, gli facevo sempre “Dai andiamo che mio zio è il proprietario, ci fa entrare!”. In quel periodo c’erano delle session live a cui potevano partecipare anche ragazzi di 15 o 16 anni, ora non ricordo bene. Ad ogni modo io avevo la benedizione di mio zio, anche se all’inizio non mi faceva andare in pista; me ne stavo nel suo ufficio che dava sul dancefloor. C’erano inoltre uno schermo enorme da cui potevi vedere tutto quello che succedeva nel locale e degli specie di monitor che permettevano di ascoltare la musica che stavano suonando in sala. Devo dire che la mia passione è nata così, osservando quello che avveniva sotto di me, senza parteciparvi direttamente.
Quali erano le cose che ti incuriosivano, che ti colpivano di più di quel club?
Tutto, decisamente tutto. Poi se pensi che ero un bambino di 13 anni capisci da te che qualsiasi cosa per me era fantastica e folle allo stesso tempo. Ricordo che l’impianto mi ha sempre impressionato: con quelle casse ad ogni angolo della sala, ma casse veramente enormi, alte 2 metri, 3 metri. Era spettacolare! Anche l’ambiente mi incuriosiva parecchio, le ragazze, la gente molto truccata. Erano gli anni della new wave, erano gli anni dei Depeche Mode, quindi la situazione che si creava in pista mi affascinava. Ero un bimbo e vedere quella massa di gente truccata, che ballava come pazzi mi piaceva, non vedevo l’ora di stare in mezzo a loro; prima di ballare con loro e appena ho conosciuto il dj…
Chi era il dj al tempo?
Raul Orellana, è stato lui a trasferirmi la passione del “mischiare”, di mixare dischi. Lo vedevo suonare e capivo che era lui ad avere il controllo, ad avere in mano la pista. Ricordo che facevo sempre caso al fatto che tutti lo guardavano come fosse un Dio, e non lo nascondo: volevo essere come lui [ride].
Successivamente, trasferitoti a Valencia, hai iniziato a cercare e a costruire il tuo stile. Iniziavi a familiarizzare con la pista da un’altra prospettiva… Come ricordi quegli anni, lo spostamento a Valencia, il lavoro al negozio di dischi?
Dopo aver finito il servizio militare, nel ’95, volevo passare l’estate in città, ci stava un bel movimento a Valencia in quegli anni. Sarebbe dovuta essere una vacanza di qualche mese mentre invece alla fine mi ci sono trasferito. Mi sono innamorato delle feste che facevano, dell’ambiente, della gente, del clima. E’ li che ho iniziato a suonare, anche grazie al mio coinquilino che aveva appunto quel negozio di dischi che hai citato. In quel periodo ho iniziato a prendere contatti, a conoscere gente e quindi, di conseguenza, ho iniziato a suonare e a lavorare in quel negozio.
Pensi che quel lavoro ti abbia aiutato a costruire la tua identità musicale?
Assolutamente. In quel periodo ancora andava il vinile, si parlava solo di vinile e avere un promo era una cosa difficile e a cui si teneva molto. Era come avere l’esemplare migliore dello stesso disco che poi sarebbe uscito, infatti averlo era una specie di lotta. C’erano dei ragazzi che arrivavano al negozio, vedevano quante copie di un disco avevamo e se potevano se le compravano tutte per evitare che qualcun altro oltre a loro le avesse. Io ero privilegiato perché avevo sempre la possibilità di avere i dischi in mano prima degli altri, quindi me li ascoltavo, li selezionavo.
E quale era il genere su cui ti concentravi maggiormente… forse ancora non eri incanalato in maniera decisa verso la techno…
Come no! Certo, era esattamente techno! Successivamente la scena di Valencia ha avuto un cancro, ma inizialmente era molto buona, erano gli inizi dell’EBM, dell’Electronic Body Music, si univa l’industrial techno con quella più pop come quella dei The Sister of Mercy. Era veramente molto divertente ed era techno… techno, techno, techno! [ride]
Come mai dici che poi la scena si è rovinata? In che termini?
Beh, come tutte le cose che iniziano a tramutarsi in fenomeni di massa, e quindi inevitabilmente a diventare commerciali, anche la scena di Valencia ha iniziato a perdere qualità e si è rovinata.
E da un punto di vista più generale, globale?
Beh, ormai con internet la situazione si è globalizzata, ha perso spessore. Non c’è più grande differenza neanche fra quello che succede qui e quello che succede in America. Con la morte del vinile (perché anche se ancora fisicamente esiste in realtà è morto, è inutile prenderci in giro), con la morte del vinile, dicevo, è cambiato tutto. Io anche avevo un negozio di dischi, ma l’ho dovuto chiudere perché non guadagnava abbastanza neanche per sostenersi. Pensa che un vinile costava 11-12 euro, se era americano 13, e magari te lo andavi a comprare solo per una traccia; oggi vai su Beatport e quella traccia te la compri ad un euro. La gente non ha soldi, non ne ha abbastanza per potersi permettere la scelta più costosa.
E questo secondo te è un discorso che va di pari passo con la qualità musicale?
Senza ombra di dubbio. Perché con l’abbassamento dei prezzi le case hanno bisogno di produrre di più, quello che prima gli fruttavano due tracce su un EP oggi lo devi raggiungere con la vendita di molte più tracce, vendute singolarmente. Quindi conseguenza diretta è l’aumento spropositato della musica che c’è in giro. Ti faccio il mio esempio, senza tanti giri di parole: ogni settimana, anzi ogni giorno, mi arrivano circa 60-70, a volte anche 100 email di promo… AL GIORNO! Fai conto che devi sentire 2-3 tracce per EP, sono 300 tracce al giorno, quindi ogni settimana sono 2100 brani… Duemilacento! E’ impossibile che siano tutte buone, anzi, l’esperienza mi insegna che quelle buone sono pochissime. La gente ormai pensa più alla quantità che alla qualità. In passato alla pubblicazione di un vinile precedeva una selezione per così dire naturale: inviavi il demo all’etichetta, questa ti diceva se andava bene o meno, se piaceva lo inviavano per il mastering e successivamente si procedeva alla scrittura del vinile. C’era molta più qualità, oggi la gente invia l’mp3 così [schiocca le dita]. Ti dico solo che la maggior parte della gente non mi invia neanche tracce in .wave, neanche quello! Inoltre ormai chiunque può vendere tracce su Beatport, le mette in buona qualità e via, quello che succede, succede.
Beh, è senza dubbio uno degli aspetti negativi delle nuove modalità di produrre musica, non sono più necessarie settimane per produrre una traccia…
Eh sì, io mi ricordo quando ho iniziato a produrre che per lavorare bene su un loop, un solo loop, con l’Akai ci mettevo un ora e mezza, due. Per rifinirlo bene, tagliarlo… Oggi un secondo e hai fatto. Come mettere un loop a tempo, ormai è in automatico. E’ tutto molto, molto più semplice e io penso che proprio per questo motivo si è persa molta qualità. Le librerie di suoni sono l’emblema di questa perdita di qualità, sono suoni già fatti che riutilizzano diverse, o meglio, molte persone… Gente da tutto il mondo che utilizza lo stesso campione, poi mi arrivano 2100 brani a settimana e ci chiediamo perché la maggior parte non mi colpiscono?! Per me è molto più difficile in questo periodo trovare musica di qualità ed è inoltre un periodo in cui io stesso produco di meno: quest’anno non ho avuto molto tempo, avevo 3-4 date alla settimana e quando rientravo a casa ero troppo stanco, non avevo la testa, non avevo le idee chiare per creare nuovi suoni, ma preferisco non produrre piuttosto che attingere a piene mani alle librerie e fare qualcosa che non sia di qualità. Oggi tutto quello che mi arriva sono copie di copie di copie. Non tutto, certo! Ci sta gente che ha talento, che si impegna nel creare cose personali… però è difficile. Ormai la gente vuol arrivare subito al top, vuole essere subito una star.
La famosa gavetta, quella che alla fine dei conti fa la differenza, quella che costituisce la sostanza. A tal proposito volevo proprio chiederti del tuo periodo di rodaggio ad Ibiza. Nel 1999 ti ritrovasti improvvisamente a lavorare stabilmente all’Amnesia… Ricordi com’è stato suonare lì la prima volta?
Sì, me lo ricordo: è stata una frustrazione.
Perché?
Era la prima volta che suonavo all’Amnesia, ed era l’opening party. Io suonavo come quarto dj… Ci stava il primo, poi il secondo, il terzo ed in fine io, il quarto. Avevo una voglia assurda di suonare, di dimostrare cosa fossi capace di fare, di presentarmi alla folla, ma alla fine praticamente non ho suonato, mi hanno lasciato la consolle per tipo mezz’ora. Erano le 10 di mattina, non c’era quasi nessuno. Però faticando e andando dritto per la mia strada sono riuscito nel mio intento. In meno di due mesi sono arrivato ad essere il primo dj, dal quarto al primo dj dell’Amnesia in meno di 2 mesi, è una cosa di cui vado molto fiero.
Beh, quella sì che è una vera gavetta, perché essendo dj resident dell’Amnesia immagino dovevi necessariamente suonare a tutti i suoi party, vari generi, pubblici diversi…
Sì, questo infatti l’ho sempre detto: devo profondamente ringraziare l’Amnesia e tutti loro. Per me è stata come una scuola, perché ero il resident e dovevo suonare in tutte le situazioni. Se il dj arrivava tardi sapevo all’ultimo momento che dovevo fare l’apertura o a volte magari la chiusura; in alcuni giorni dovevo suonare per feste di promoter inglesi quindi serviva una musica più progressive, più trance; c’erano i giorni in cui suonavo per la Cocoon e quindi dovevo essere più Techno; agli schiuma party invece dovevo suonare il più commerciale possibile. E’ stata veramente una scuola, un realtà che mi ha insegnato a muovermi nel mondo di cui ora faccio parte.
E se invece parlassimo di persone che hanno contribuito di più alla formazione della tua personalità musicale?
Senza dubbio il primo è stato Raul Orellana, colui che mi ha fatto venire la voglia di suonare, lui mi ha fatto innamorare di questo mestiere. Successivamente, come dj, ci sono due persone che hanno marcato profondamente il mio stile, uno è stato ovviamente Richie Hawtin e l’altro Marco Carola. Veramente, penso costituiscano il cinquanta e cinquanta dell’influenza che ho avuto. Poi, senza dubbio, Hawtin è quello che più di tutti mi ha insegnato a personalizzare, a render mio ciò che suonavo. Da lui ho imparato come usare cinquanta effetti su un solo loop e renderlo ogni volta diverso, lui mi ha veramente portato ad evolvermi nella produzione, come persona e anche come dj. E‘ sempre stato quello un passo avanti a tutti, e non è una cosa che si dice così tanto per dire, non è una frase fatta, è la verità! Ogni volta che io suona con lui imparo, sempre. Non copio, ma imparo, che è diverso. Ed ogni volta che imparo qualcosa, la volta successiva ne imparo un’altra.. Mi dico sempre “Ma come cazzo è possibile che io non riesca mai a lasciarlo a bocca aperta e lui con me ci riesce ogni volta?!”. Quindi senza dubbio lui è la persona che più mi ispira. Poi come ti dicevo ci sono stati altri dj nel passato, ad esempio, quando lavoravo per la Cocoon, Sven mi ha insegnato veramente tanto sulla techno, quella vera; lui mi ha insegnato molto. Però la persona che veramente è stata il più fra i più è stata Richie, e ancora è Richie.
Parliamo un po’ del tuo secondo bambino ora: Mindshake! Dalla Shake alla Mindshake, quale necessità ti ha spinto a creare questa seconda etichetta?
Shake era nato con altri due ragazzi con cui avevo dato vita ad una società: uno faceva il PR, uno seguiva un’etichetta con sonorità più house ed io con la Shake mi occupavo del lato puramente Techno. Con il tempo, però, non mi rispecchiavo più nella Shake, non ero convinto del suono che aveva assunto l’etichetta. Era stata ormai bollata come label molto techno ed io, per come ero allora, per rispettare la mia crescita artistica che era partita da ambienti molto diversi che mi avevano dato una mentalità aperta, non volevo fare solamente techno. A me piaceva suonare House, Techno, così come minimal, Hardtechno… per questo motivo ho deciso di creare la mia etichetta, solamente mia. L’ho chiamata Mindshake proprio per l’idea che mi ero fatto di una mente agitata, aperta ad ogni tipo di input, che cerca di dar vita a qualcosa di diverso. Volevo uscire dalle dinamiche che incasellano una label in un unico genere. Mindshake non è un etichetta solo per la techno o solo per l’House, no, la Mindshake è un’etichetta per il dancefloor, questo sì! E‘ una label che fa musica per ballare, questa è sempre stata infatti una delle cose che mi caratterizza: sono uno di quei Dj di cui la gente dice “Paco fa sempre festa, festa, festa, fa la festa”. Ed è vero, io sono così e voglio che la mia etichetta rispecchi il mio essere. Ad esempio io non potrei mai far uscire sulla mia etichetta un disco che non suonerei. Ci sono alcuni miei colleghi che fanno uscire tracce anche se non le suonano, magari solo perché gli piacciono… Io no, io devo suonarla. Non posso credere in un prodotto se in primis non lo suono io.
E il logo?
E‘ per l’appunto un cervello, un cervello agitato. Quello che in realtà volevo era la raffigurazione della mente, ma ovviamente non si può fare perché come la raffiguri una mente!? E‘ una parte del cervello diciamo. Questo è stato il risultato più vicino a quello che volevo.
Spiegaci meglio le linee guida dell’etichetta…
Ma dal punto di vista musicale? Mah, quello lo abbiamo già un po‘ chiarito, parliamo degli aspetti più generali. Il sito ufficiale recita “Mindshake, more than a label”. Esatto, non è solo un’etichetta musicale. Stiamo iniziando a fare un pò di design di magliette, ad esempio. Il concetto è quello di fare qualcosa in più, non solo di fare musica, non solo dj, serate, vogliamo allargare il concetto di una “mind shake” a più universi. Ovviamente tutto necessita di un tempo e di un grande sforzo, sia fisico che economico: fare delle magliette top di qualità così come fare delle feste top di qualità ha un costo. Un costo un po‘ alto a volte! Per dirti la prima maglietta che avevo disegnato è costata, a me, 70 euro… Ovviamente non potevo continuare così, non ho il conto di Bill Gates. Però a parte la questioni dei costi, quello che vogliamo fare è attivare una realtà culturale sotto il nome di “Mindshake”, creare una tendenza, cercare di far sì che la gente segua il nostro movimento, segua la nostra musica così come il brand in tutte le sue sfaccettature.
Perfetto, per questa volta abbiamo finito. Questa è la tua prima volta al Brancaleone?
Sì! La mia prima volta al Brancaleone, ho portato anche Felipe con me! [ride] Inoltre, ora che ci penso, è anche la mia prima volta a Roma di Venerdì!