Chiunque abbia mai provato ad addentrarsi nella ricerca di una solida realtà (e cultura) musicale presente nel territorio salernitano, sa che Unibeat è una delle poche “boccate d’aria” che le nostre orecchie possano prendere non solo nella provincia di Salerno ma nell’intera Campania, soprattutto se poi si parla di una scena musicale elettronica ben più ampia della solita techno, EDM e dub. Un festival, questo, che è nato e si è man mano evoluto negli anni, allargandosi e rafforzandosi, portando con sé nomi del calibro di Underground Resistance, Nathan Fake, Floating Points e Gold Panda, rimanendo tuttavia sempre totalmente gratuito e ponendo le basi della propria edificazione sull’idea di proporre e diffondere una nuova realtà territoriale, anche (e non solo) universitaria.
Quest’anno, come sempre, abbiamo deciso di prenderne parte da spettatori, godendoci i pochi giorni (8 e 9 dicembre) in cui è stata svolta la sesta edizione del festival.
Primo punto su cui si è concentrata la nostra attenzione è stato, come si può ben immaginare, la scelta artistica fatta. Sebbene infatti essa non sia l’unica e sola parte che contraddistingua la buona riuscita di un evento, è, bene o male, ciò che spinge le persone a parteciparvi. Per quanto riguarda l’Unibeat quest’anno gli organizzatori hanno voluto rischiare un po’ di più, creando una line up che, storicamente, si potesse contrapporre – e nello stesso tempo potesse insegnare – a quella marea di giovani (clubbers e non…) alla costante ricerca di cassa in 4/4 rigorosamente rinchiusa in un range dai 124 ai 128 bpm.
Il primo grande merito di Unibeat, quindi, è stato quello di dedicare l’intero festival alla celebrazione della musica electro, con particolari riferimenti a Detroit, Londra e Parigi.
Il palco ha, infatti, visto susseguirsi artisti nazionali e internazionali, in un alternanza tra dj set e live in cui la performance sonora è stata spesso accompagnata da contributi video che, secondo il nostro parere, hanno rappresentato uno dei punti di forza del festival, rendendolo più coinvolgente e, a tratti, estraniante. Stiamo parlando di performance quali quelle degli statunitensi Aux 88 (con cui abbiamo parlato qui), di Filippo Diana (la cui identità era stata fino a quel momento avvolta nel mistero), e dei sognanti Clock DVA, in un live tra sperimentalismo ed electro glitch, degnamente accompagnate da chi invece anche senza nessun aiuto visivo ha saputo smuovere e far ballare gli ascoltatori, I-F (aka Interr-Ference) tra questi.
In lineup anche il live del francese Gary Gritness, in un’esibizione electro-funk tra vocoder e tastiere a tracolla, e i dj set di Rawmance, nato in Francia ma ora residente a Roma, e degli italiani Mariiin e Francesco Leone, che hanno saputo, in una mescolanza di generi, mantenere il palco e trascinare il pubblico.
Secondo punto focale per il nostro interesse è stata la location. Sebbene, infatti, le esibizioni degli artisti abbiano saputo ben mantenere viva l’attenzione dell’intero pubblico, esse sono state in parte ostacolate dalla scelta di una nuova location molto – forse troppo? – grande (Palazzetto Polifunzionale di Baronissi) che, se da un lato ci ha permesso di muoverci liberamente nello spazio circostante o prendere aria quando necessario, rendeva dall’altro lato, purtroppo, poco chiaro e definito il suono e, di conseguenza, non era in grado di avvolgere pienamente lo spettatore nel contesto del festival, risultando a volte dispersivo.
Terzo ed ultimo punto, il tema. Come negli scorsi anni, anche la sesta edizione di Unibeat ha voluto un tema legante per queste due giornate, tema che è risultato evidente non solo nella grafica pubblicitaria ma anche in tutte le esibizioni susseguitesi sul palco e legate tra di loro da un filo comune: l’essere “musica per schermi neri”, per sensibilità da risvegliare e corpi da coinvolgere. Ed è proprio “Black Mirror” il concept proposto per quest’edizione. Alla base di questa scelta, infatti, la concezione di voler aiutare a percepire il suono e la realtà, oltre questo “schermo nero”, partecipandovi in prima persona e diventandone parte integrante e attiva.
Possiamo quindi dire, in conclusione, che Unibeat é uno dei pochi festival della zona che merita di essere vissuto, poiché vi é dietro una forte idea ed una solida organizzazione, nonché la consapevolezza che portare avanti eventi del genere, e cioè gratuiti e non nei canoni della musica da semplice ascolto e fama diffusa, a volte può essere una vera e propria scommessa, fatta con cognizione ma anche con una piccola (o grande) dose di coraggio. Qualche aggiustamento è possibile, forse anche necessario, ma la strada continua ad essere ben rivolta nella direzione giusta.
Qui di seguito il video riassuntivo del festival, per chiunque se lo fosse perso.