“Devi vederla così, la techno è tecnologia. E’ una maniera futuristica di fare musica: fare qualcosa che non è stato già fatto”.
Non la solita storia della musica elettronica con citazioni e tracce storiche che hanno reso famoso quel determinato dj. Qui c’è veramente qualcosa di più. “Techno: ritmi afrofuturisti” è un vero e proprio manuale, un modo diverso e forse molto innovativo per parlare di musica techno, miscelando all’interno tutto ciò che c’è da sapere e che molti di noi tralasciano su questo fenomeno. Claudia Attimonelli in poco più di 220 pagine ci fa una panoramica generale su quelle che sono state le prime influenze che hanno reso questa musica così futuristica e alternativa. Tra i concetti principali bisogna sottolineare il fatto che la musica techno è una sorta di attitudine, più che catalogarla in un determinato periodo storico, si cerca di creare intorno a queste sonorità alcune influenze partite da molto lontano, come ad esempio le prime riunioni clandestine fra musicisti jazz, addirittura qui siamo nel periodo storico legato alla seconda guerra mondiale. Il concetto di Afrofuturismo è un altro spunto su cui l’autrice posa gran parte del suo scritto. Nato negli anni ’90, l’Afrofuturismo, si basa sulla fusione di 3 elementi vari come possono essere: il tribalismo, l’Africa e poi qualcosa di ultra futuro, tecnologico legato alle ultime tecnologie. La techno, come si intuisce nel libro, si può capire unendo alcuni fattori come l’incontro tra l’elemento della schiavitù, l’elemento dell’alieno e l’elemento del robot che ha reso questa musica veramente unica. Molto spazio anche alla scena dei rave. Dai primi club nati in america, tra New York e Chicago, si passa ad una scena più sotterranea, più underground. In concomitanza con la prima acid house, Manchester diventa il faro europeo della rave culture; giovani provienti da diversi paesi si ritrovavano in luoghi vari come potevano essere ex-fabbriche, ampi spazi, parchi, tutti ambienti in cui vigeva l’illegalità. In un libro così ampio come non poter citare i Kraftwerk: questi quattro ingegneri tedeschi che hanno dato il via un pò alla scena elettronica mondiale. Di sicuro tra i primi ad utilizzare apparecchiature elettroniche, tra i fautori di questo nuovo electro-pop, techno-pop. Le loro performance molto particolari, sia dal punto di vista sonoro, ma anche dal punto di vista stilistico, con questa eleganza che li contraddistingueva, dando un’idea molto più vicina al cyborg ed al manichino. Scoprire ciò che veramente è stata la genesi della musica techno può aprire la mente ad orizzonti fin’ora inesplorati…a volte un libro può presentarci aspetti diversi ma molto curiosi…
L’occasione di chiacchierare con Claudia Attimonelli è stata veramente una bella esperienza, guardate un pò cosa ne è uscito fuori:
Ciao Claudia, benvenuta su Soundwall
Ciao al muro del suono!
Quando nasce l’idea di scrivere un libro sulla techno e in generale sulle sottoculture?
“Techno: Ritmi Afrofuturisti” nasce dentro un percorso di ricerca accademica all’interno del quale mi ponevo quesiti relativi agli stereotipi culturali. In questo caso: come capovolgere l’idea comune secondo la quale la techno è una musica bianca, nordeuropea e fredda? E ancora, è possibile pensare la blackness fuori dall’immaginario tribale, primitivo e antitecnologico? Naturalmente l’amore per questa storia e per questo genere musicale, mi ha dato la chance di unire la passione privata alla ricerca, il che rende l’esperienza della scrittura emotivamente più travolgente.
Il tuo libro sicuramente, non è solo una semplice descrizione storica su quella che è stata la musica techno, ma è molto di più, ci sono concetti principali come “ritmo” e “afrofuturismo”. Quale è l’importanza di questi due elementi?
La techno ricentra il problema che ruota intorno a cosa sia il musicale, filosoficamente e sociosemioticamente parlando, proprio sul ritmo; é stato ed è tutt’ora più facile per il giornalismo musicale raccontare, criticare, recensire e studiare generi musicali fortemente legati al testo, quali sono stati il rock, per ragioni diverse anche il punk e cosi via. Ma nei confronti dell’elettronica, non quella d’avanguardia, bensì quella da dance floor, bisogna parlare di ritmo, di groove, o se vogliamo dirla in altre parole, si tratta del puro musicale. E qui le parole spesso vengono meno.
L’afrofuturismo è essenziale al mio ragionamento, perchè è una “cosa” (movimento, scena, cultura) esplosiva di cui mi sono innamorata la prima volta che l’ho sentita. A-F-R-O-F-U-T-U-R-I-S-M-O. Quando lo pronunci t’immagini già Sun Ra and the Arkestra, tute spaziali su maschere egizie, o alieni dai dread lunghissimi. Basquiat è afrofuturista, il video di Missy Elliot “Get your freak on” è afrofuturista, il romanzo di Toni Morrison “Beloved” è afrofuturista, la mitologia e iconografia di Drexciya, il duo cult di Detroit è afrofuturista. Una perfetta coincidentia oppositorum o la seduzione per l’ossimorologia postcolonialista.
Il concetto di underground è un pò il filo conduttore che lega il libro, partendo dalla descrizione delle culture urbane, fino ad arrivare al concetto di afrofuturismo. Quale è stato l’impatto iniziale di queste subculture, come può essere ad esempio la nascita e l’evoluzione della musica techno?
L’underground è la zona oscura dove ci muoviamo quando abbiamo il desiderio insopprimibile di sperimentare, a nostro rischio e, naturalmente, a nostro sublime vantaggio, ciò che nei luoghi ufficiali della cultura non viene preso in considerazione. Per questo nacque il termine “subcultura”, perchè negli anni ’80 c’era ancora una netta divisione fra una cultura ufficiale e delle culture minori, non ancora considerate tali (l’arte urbana, la musica pop, i graffiti, le arti visuali). Pensiamo a cosa è stata la città di New York alla fine dei Settanta: c’era contemporaneamente l’esplosione della house al Paradise Garage (Lerry Levan & Co.), al contempo al Max’s Kansas City si esibivano le star del glam rock e dell’art-proto-punk (Lydia Lunch, Suicide, Arto Lindsay, New York Dolls, Patty Smith), e poi c’era Bowie e tanti tantissimi altri, ebbene quello era l’underground, cioè i veri bassifondi, luoghi lerci e marci, dove è nato il suono che ancora oggi viene reinterpretato, riproposto in varianti e stili che devono tutto a quella manciata di anni seminali, gli anni dell’underground. Le memorie dal sottosuolo…
Techno è soprattutto amore per la tecnologia, concetti vari come possono essere: loop, remix, campionamenti hanno avuto un impatto decisivo su questa cultura musicale, tra i primi ad usufrire di tanta tecnologia senza dubbio ci sono i Kraftwerk, qual è stato a tuo avviso il messaggio forte che hanno lasciato?
I Kraftwerk (a questo punto strappo una parentesi alla nostra chiacchierata per suggerire la pronuncia del loro nome: KraftVerk, come la V di Wagen in Volkswagen 🙂 sono stati capaci, con strumenti unicamente elettronici e con testi ripetitivi e futuristi, ad inventare il suono perfetto per atmosfere retro-cyborg che smuovono il corpo alla danza, la loro musica è seducente grazie al connubio di sonorità robotiche provenienti da carne pulsante. I Kraftwerk hanno dato vita erotica alle macchine.
Aspetteremo con ansia un tuo prossimo libro. Grazie ancora per la disponibilità.
Il prossimo libro si addentra ancora più profondamente nei misteri e nei falsi ossimori del nero, in termini di darkness, blackness e feticismi. Grazie e a te e… Stay underground, underground resistance.