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St. Germain sta per tornare: ecco perché lo stiamo aspettando

Quando stiamo qua a parlare del nuovo che arriva, del nuovo che eccita e del nuovo che suona da Dio, dobbiamo sempre confrontarci con il passato. Perché senza passato non c’è presente né futuro. Quando venti anni fa è arrivata grande ondata del “French Touch”, oltre ai Daft Punk, oltre agli Air, oltre Etienne De Crecy, oltre Modjo, Philippe Zdar e persino Bob Sinclar prima di darsi alla Carrà, oltre a tutti loro in mezzo a questi nomi c’è sempre stato Ludovic Navarre – in arte St Germain: rischiamo di dimenticarcelo, vista la infinita pausa che s’è preso dal 2003 in poi. Un produttore capacissimo di unire senza paura di cadere in errore due innovazioni musicali del secolo scorso, il jazz e l’elettronica, facendolo in modo astuto e sofisticato. La sua musica infatti è sempre stata destinata a club d’élite e a gente raffinata, forte di un mix dove il jazz, la cassa in 4/4, inserti di sax e pianoforte, contaminazioni electro e afro e tanto sentimento, sono riuscito a imporsi nel mondo magari sotto l’etichetta, un po’ sbrigativa, “nu jazz”. La sua eleganza sulla costruzione di un brano, l’energia del jazz e il tocco “french” a ogni produzione l’hanno consacrato come uno dei più sopraffini e brillanti produttori a cavallo tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000: basti ricordare un paio di release fondamentali e qualche canzone per tracciare la sua fenomenale cifra stilistica. Proviamo a farlo noi, in cinque mosse.

Prima mossa, il suo secondo EP in carriera, “Motherland”: vi sfidiamo a trovare un EP così bello e completo per un artista agli esordi – il 1993 è infatti il suo primo anno di carriera. Tutti i riferimenti musicali che contraddistingueranno i futuri lavori di St Germain sono qui: house, deep, una spruzzata di tribalismi e una prima, leggerissima e timida patina jazz tutti distribuiti con il giusto peso in “Alabama Blues”. Seconda mossa, “Boulevard 2/3″ ed in particolar modo la prima traccia dell’EP, “Easy To Remember”: una passeggiata lounge al tramonto sulla riva del Senna, una produzione del 1995 che ha lasciato tutti a bocca aperta. Terza mossa, “Sure Thing” dei primissimi mesi del 2000: il beat rallenta ma la combo afro-funk-jazz mette sull’attenti i timpani di mezzo mondo, anche quello non dance – tant’è che l’album “Tourist” viene pubblicato dalla regina delle etichette jazz, la Blue Note. E stessa fortunata sorte toccherà subito dopo (quarta mossa) a “So Flute”, una cavalcata deep-jazz di una bellezza disarmante, così disarmante che il timoniere Navarre ci dimostra di sapersela cavare benissimo non solo con mixer e sequencer e filtri ma anche con flauti e pianoforte interamente performati.

Perché vi abbiamo tracciato e contestualizzato alcuni dei suoi brani migliori? Perché a quindici anni di distanza da “Tourist”, il 9 ottobre 2015 uscirà per la Warner Music “St Germain”, il suo terzo album. A sentire l’antipasto e a leggere le prime indiscrezioni la contaminazione e la voglia di sperimentare ed esplorare tutti i lati del mondo nu jazz continuano a pervadere il piglio di Ludovic Navarre: per quest’album ha collaborato con musicisti africani e tanti strumenti tradizioni del Mali come la kora, il balafon e il n’goni, accostando ad essi i suoi strumenti preferiti, e cioè il piano, il sax, la chitarra elettrica e l’elettronica più “classy”. Eccolo allora l’antipasto, “Real Blues”, costruito con il contributo del cantante e chitarrista statunitense Lightnin’ Hopkins. Attendiamo con grande curiosità le prossime anticipazioni e, in generale, la release dell’album: per vedere se in futuro le mosse in cui descrivere la grandezza di Navarre si aggiungeranno di qualche altro capitolo.