“Per sempre”. Ora, andiamo con ordine: Martyn è prima di tutto un dj/producer di classe enorme. Attivo ormai da oltre quindici anni, si è fatto conoscere prima di tutto come un rappresentata della scena dubstep più “avanzata” ed astratta ma poi, via via, ha espanso i confini, incidendo per label come Brainfeeder e Ninja Tune ed Ostgut ed incorporando, con eleganza e misura, gli elementi stilistici più disparati, tra house, UK garage, techno e broken beat, tutto questo senza mai rinnegare il suo primo amore, la drum’n’bass, che scorre sottotraccia nei suoi set, nella sua attitudine e anche in un libro a cui sta lavorando da anni, su uno degli album più epocali di sempre, e parliamo anche di questo. Ma Martyn – Martijn Deijkers all’anagrafe, figlio tra l’altro di un ottimo calciatore olandese famoso negli anni ’70 e bandiera del PSV – è anche una delle persone più belle che si possano incontrare nel mondo della club culture. Una delle più colte, delle più educate, delle più rispettose. Una di quelle con cui parlare di qualsiasi cosa, e in qualsiasi cosa non mancherà di avere un punto di vista appropriato ma incisivo. In un mondo troppo spesso risucchiato dai propri stessi lustrini e dall’ansia di essere al centro di tutto (o almeno dell’attenzione del momento), passare del tempo a parlare con Martyn è l’antidoto migliore e più illuminante che ci sia capitato in vent’anni e passa che ci occupiamo di questa scena.
Anche ora, col lockdown pandemico, le cose non sono cambiate. Anzi. La risposta concreta più bella l’ha data forse proprio lui: ha creato un esteso, curatissimo programma di mentoring, che davvero vi consigliamo. C’è chi si è dannato a farsi vedere mentre faceva dj set in streaming, chi si è ritirato fra i propri averi e le finanze accumulate in anni di vacche grasse, chi ha provato ad inventarsi dei metodi spicci per spremere un po’ di euro contando sul proprio “nome”, lui invece ha fatto qualcosa dove è stato messo molto lavoro e molta cura non solo per sostenere se stesso, ma anche per dare un contributo concreto alla scena e al suo spirito migliore “dal basso”: ovvero diffondendo conoscenza e la giusta attitudine prima ancora di tutte le cazzate e di tutta l’ansia da competizione e di quella dell’apparire, ansia quest’ultima che corre spesso e volentieri sia da “apocalittico” (chi sta lì cioè a criticare sempre tutto) che da “integrato” (chi è nella faccenda del clubbing solo per ego e carriera).
Insomma: Martyn sia come musicista che come essere umano è una delle voci più interessanti e “dense” da ascoltare oggi. E’ una chiacchierata molto lunga ma, lo vedrete, mai noiosa, mai superficiale, mai tirata via. Come non è noioso e superficiale il suo mentoring: certo, i club e le serate nei club ripartiranno, e abbiamo anche discusso in che modo, ma alla domanda “Quanto pensi che andrà questa cosa del mentoring che hai messo su?” la risposta calma e pacifica è stata “Per sempre”. Come spiega, “Molti hanno pensato che abbia messo su questa cosa solo per guadagnare qualche soldo mentre non si poteva suonare, ma non capiscono quanto possa essere bello aiutare gli altri a tirare fuori il meglio da se stessi”. Dateci più persone così, nel clubbing. Ne avremmo bisogno. Ma veniamo all’intervista. Iniziata chiacchierando, ovviamente, di questa difficile situazione che tutto il mondo, non solo quello del clubbing, sta vivendo, tutto ciò in collegamento via Zoom con casa sua a Washington, Stati Uniti – dove Martyn si è trasferito, per amore, ancora anni fa.
Hai mai avuto l’impressione che il mondo rischiasse di collassare davvero?
Sì.
Sul serio?
Assolutamente sì. Sai, subito dopo le elezioni leggevo un commento che diceva “Biden sarà quel che sarà, ma il solo fatto di svegliarsi e non ritrovarsi a pensare ‘Oddio, Trump quale assurdità avrà detto e fatto ieri e quali ne dirà oggi?’ come primo pensiero del giorno – perché questo era, per moltissimi – è un grande passo in avanti“. La verità è che un Presidente non dovrebbe essere sui giornali ogni santo giorno: no, dovrebbe essere più occupato a far marciare un paese, traducendo nel modo migliore possibile i consigli e suggerimenti che gli arrivano da un team di esperti. Questo dovrebbe fare. E questo invece non succedeva con quell’egomaniaco di Trump. Vediamo cosa succederà adesso, con Biden; ma sono abbastanza sicuro che peggio del suo predecessore non potrà fare. Potrà anche essere incapace ed inadeguato, lo vedremo, ma almeno in un’era di pandemia come questa che stiamo vivendo lui almeno fin da subito ha capito che il Covid era una minaccia seria… è già tanto rispetto all’era Trump, credimi! Io tra l’altro mi sono trasferito negli Stati Uniti giusto due mesi prima che Obama diventasse Presidente per la prima volta, quindi nel 2008; la prima volta che ho potuto votare è stato nel 2012 – di nuovo Obama di mezzo, perché erano le presidenziali. Quindi ecco, posso dire di aver avuto otto anni discretamente buoni, e quattro assolutamente orribili, gli ultimi. Però l’aria che si sta respirando in questo momento negli Stati Uniti è la stessa che si respirava quando ci arrivai, tredici anni fa: dopo un bel po’ di tempo che non succedeva, di nuovo riesci infatti a respirare un’aria di positività, di fiducia, di progresso, e non di rancore e conservatorismo rabbioso. Però vediamo… non facciamo troppe previsioni: intanto pensiamo ad uscire tutti quanti dalla pandemia. Un passo per volta.
(Nel momento in cui si trasferiva in America, Martyn tirava fuori dopo un paio d’anni un capolavoro del genere; continua sotto)
Ecco, partendo dal presupposto che questa uscita non sarà così rapida: il sistema del clubbing collasserà, nel frattempo, si estinguerà? E non parlo solo dell’equilibrio finanziario a gambe all’aria di molte venue e realtà del settore dopo un anno e passa di stop, ma penso anche solo al fatto che c’è il rischio che la gente si “dimentichi” del clubbing, di cosa fosse e di come fosse diventata una abitudine nelle loro vite…
Penso che il mondo del clubbing cambierà; e quando tornerà a marciare, sarà davvero diverso in maniera irreversibile. Non vedo la possibilità di tornare indietro alle dinamiche che erano “normali” prima.
E?
La “nuova” club culture sarà molto più piccola, molto più legata a comunità locali. Scompariranno i club da 300/400 persone – stanno già scomparendo, prima ancora che riparta tutto – e resteranno invece quelli da 50/100 persone. Qui ti sto parlando delle situazioni più “normali”, naturalmente; perché invece le robe grosse-grosse, l’elite “da Spotify” in campo tech-house, beh, quelle ripartiranno esattamente da dove si erano fermate, non cambierà granché. Del resto il clubbing è diventato esattamente quello che lo sport è ormai da anni: ai livelli più alti della disciplina, si tratta ormai più di intrattenimento che altro. Lo sport di alto livello non ha più nulla a che fare con lo sport di base, e lo stesso vale per il clubbing. E vedo questa dinamica come inevitabile, almeno per un bel po’, nel nostro futuro prossimo. Se tutto andrà per il verso giusto, i club piccoli da 50/100 persone piano piano cresceranno. Ma non è detto che accada; e ti dirò, se non accade e restano invece sempre limitatissimi nelle dimensioni non è detto per forza che sia una tragedia. Anzi. Chiaro, molte persone dovrebbero rinunciare a un bel po’ di soldi, rispetto a come era strutturato tutto il nostro ecosistema del clubbing prima della pandemia.
Peraltro quest’ultimo scenario potrebbe essere un problema proprio per te. Tu sei un po’ un dj “middle class”, nel senso che non sei certo un headliner da grandi festival ma al tempo stesso sei da anni conosciuto, rispettato, con un valore riconosciuto, uno da far suonare in club con almeno 300/400 persone di capienza e non uno con poche pretese che può accontentarsi di una manciata di euro a mo’ di rimborso spese e di tre free drink.
Sicuramente quelli come me sono una delle categorie più a rischio, come evoluzione delle dinamiche di mercato: ma sai che c’è? Non sono impaurito. Non sono preoccupato. Prendo le cose come arrivano. Anche perché non c’è motivo di spendere energie nervose arrovellandosi su quale piega prenderà il mercato: questo perché ora entrano in campo delle dinamiche, tra pandemia e post-pandemia, che tu non puoi più controllare in alcuno modo e che comunque sono imprevedibili. Io poi mi sento in qualche maniera fortunato, perché già da prima del Coronavirus avevo iniziato ad interrogarmi sulla mia carriera: già dal 2018, da quando mi è successo quello che mi è successo. E che è stato raccontato anche in “Origins”.
(L’inizio di questo documentario è un colpo al cuore; continua sotto)
Già.
Le domande erano, a maggior ragione dopo quello che mi era successo: “Ma voglio veramente fare tutto questo per tutta la vita? Anche quando avrò cinquant’anni? O sessanta? E’ davvero sostenibile una vita fatta di tour continui e deprivazione sistematica del sonno?”. Nel momento in cui me le sono poste davvero, queste domande,, la risposta è stata iniziare a fare cose che portassero, in qualche modo, ad una “transizione” fluida verso un assetto lavorativo un po’ diverso. Sai, in quel periodo andavo anche da una psicoterapeuta e mi ricordo che durante una seduta mi ero preso particolarmente a male: “Basta musica, basta con quello che le gira attorno, non voglio averci più nulla a che fare, è una merda! Basta…”. E poi aggiungevo, sempre parlandole e raccontandole le mie sensazioni e i miei pensieri: “Sono sempre più convinto che se abbandonassi la musica per fare, che so, lo scrittore starei immediatamente molto, molto meglio, accidenti”. Lei è stata molto brava: perché mi ha lasciato sfogare e poi mi ha detto “Ma senti, sulla musica hai oggettivamente del talento: perché buttare tutto a mare così indistintamente? Perché invece non fare una transizione morbida, progressiva?”. La soluzione insomma era dietro l’angolo, ma non riuscivo a vederla. E’ allora che ho iniziato a dedicare più energia a certe cose “collaterali”: come i programmi per NTS Radio e non solo, o accettando varie committenze non da musicista ma invece come giornalista o “esperto”, oppure dicendo volentieri di sì quando mi veniva chiesto di partecipare a panel e workshop; e poi, infine, soprattutto la cosa del mentoring. Insomma, tutte scelte che potevano rendermi meno pesante e meno reale la prospettiva di dover dedicare tutte ma proprio tutte le mie energie al deejaying ed alla produzione, e allo stare in giro a suonare. Potevano esserci insomma altri modi per sopravvivere e per andare avanti, ecco. Mmmmh, ti ho dato una risposta troppo lunga alla tua domanda?
No, no, è assolutamente perfetta! Tra l’altro hai già tirato fuori la cosa del mentoring, e allora ne approfitto subito per chiederti: che impressioni hai delle persone che decidono di seguire i tuoi programmi di mentoring on line? Sono lì perché amano la musica in generale, perché amano la tua musica nello specifico o invece perché sperano, attraverso la musica e magari col contatto diretto con uno affermato come te, di diventare famosi?
Credo che tutti quelli che hanno aderito al programma l’abbiano fatto in primis perché un minimo mi conoscono, sanno che musica faccio e con quale attitudine. Non penso quindi ci sia il rischio che qualcuno mi veda come uno che può aiutare a fare “leva” nel mondo più commerciale della musica dance. Penso, invece, che molti mi percepiscano come uno che sta nel mondo della musica “per i motivi giusti”, qualsiasi cosa questo significhi: credo sia questo che li abbia attirati verso i miei programmi di mentorship. Non sono magari tutti i primi fan delle mie cose come producer e della mia attività da dj, ma credo che a prescindere le rispettino, e non è poco. La maggior parte degli iscritti è arrivata essenzialmente per la musica, non per chissà quale prospettiva o ambizione di successo. Sono arrivati perché sono ancora alle prime armi, però vogliono diventare bravi; o perché hanno già esperienza, ma sentono che gli manca qualcosa per fare il salto di qualità che vorrebbero; o infine molto semplicemente perché sentono il bisogno di stare dentro una comunità di persone che abbiano mentalità affine alla propria.
Quest’ultima categoria è molto interessante.
Sì. Poi chiaro che interessano anche, più concretamente, connessioni e contatti; ma non è solo un fine utilitaristico. Sai, dovendo riassumere in un concetto penso che si possa dire che tutte le persone che si sono radunate attorno alla mia mentorship la musica la amano, assolutamente, e allora io voglio portarli a riuscire a fare qualcosa di così tanto ben fatto da diventare interessante ed “amabile” anche per gli altri, anche per un pubblico potenziale che ancora non hanno raggiunto.
Ora che questa mentorship va avanti da un po’ possiamo dire che ha soddisfatto come risultati le tue aspettative? O addirittura le ha superate?
Questa è una cosa che volevo fare ancora prima dell’arrivo del Covid. Questo ci tengo a dirlo. Solo che ovviamente, quando ancora il mondo non si era “fermato”, non avevo lo spazio mentale per dedicarmici, per capire cioè come organizzarlo e farlo funzionare. Le linee guida di quello che volevo fare le avevo però già ben chiare in testa; ma tu puoi avere chiaro in testa tutto quello che vuoi, non potrai però mai avere la certezza di come sanno effettivamente le persone che si raduneranno di fronte a te, per quanto virtualmente. Qui sta il discrimine.
E come è andata?
Diciamo quindi che per i primi sei mesi sono stato particolarmente bravo nel raccontare quello che ero io, quello che volevo io e quello che facevo io; ma poi ho iniziato ad “aggiustare” tutto, iniziando a studiare con attenzione anche quello di cui potevano avere bisogno loro – non solo quello potevo e sapevo dire io. Lì, le cose sono migliorate un sacco! Perché ogni musicista, se ci si mette un minimo, può sì fare delle buone sessioni in cui spiega come si può fare tecnicamente della musica, con quali strumenti, con quali software, eccetera eccetera… ma il vero mentoring è qualcosa che fa un passo in avanti rispetto a tutto ciò. Quando ho iniziato a farlo per bene, inizialmente era una cosa solo per gruppi, è in un secondo momento che ho iniziato a farlo individualmente; ma già quando lo fai solo per gruppi, capisci che ogni persona assimila ogni nozione in modo differente ed è differente come bisogni. “Ascoltare” tutto questo è fondamentale. E sai perché? Non solo per la riuscita del mentoring in se stesso…
…ma anche per?
Perché ti aiuta pure a capire dove e come sei messo tu, musicalmente parlando. E’ importantissimo. Ascoltando loro, cercando di capire cioè le loro esigenze e le loro richieste, tu stesso ti chiarisci meglio dove sei posizionato, nella geografia della musica e della scena legata all’elettronica. Io ho iniziato nei primi anni ’90 ad interessarmi a questo tipo di scena e, verso il 2000, ho iniziato a produrre ed a suonare in giro seriamente. Parliamo di venti, trent’anni fa; mentre fra i miei corsi c’è chi Ableton lo ha installato giusto qualche mese fa. Non piccola come differenza. Capire allora come vedono loro, con sguardo fresco e “nuovo”, qualcosa in cui io sono immerso già da decenni ti assicuro che è fantastico, è un grande aiuto. Il mio poi non è un mentoring unicamente indirizzato a musicisti giovani ed esordienti: in realtà c’è anche qualcuno che ormai la sua esperienza ce l’ha ma, appunto, vuole capire come fare un salto di qualità, e magari si sta ancora chiedendo – e vuole un aiuto da me nell’avere una risposta – “Io però che genere dovrei fare?”. Lì il tuo compito è portarli lì dove sai che sono veramente “a casa”: quando ci riesci, vedi che in loro scatta qualcosa. Ed è una soddisfazione incredibile vederlo succedere, credimi.
(Come suonava Martyn all’epoca del suo primo album? Ecco la risposta. Continua sotto)
Eh, a proposito: qual è il tuo genere musicale, nel 2021?
Che musica suono?
O quale dovresti suonare…
(ride, NdI) Produco troppo poco, lo so. Dovrei essere più prolifico. Sai, quando è arrivato lo stop da pandemia penso che in tantissimi di noi abbiano pensato “Oooh, ora finalmente leggerò un sacco”, e quello che fai adesso – è capitato a me per primo – è guardare la pila di libri intonsi che ancora ti aspetta e che ancora non hai preso in mano. E’ successa la stessa cosa per quanto riguarda la musica, la produzione.
E molti a dire: “Bene, ora faccio un album ambient, preparatevi”.
Esatto! L’ambient non è mai stata popolare come nel 2020… (risate, NdI) Un mio amico ha notato una cosa molto intelligente: “In tempi di pandemia, se produci, la cosa migliore sarebbe trovare nuove collaborazioni”. Questo perché ora, coi vari lockdown e l’impossibilità di viaggiare e di girare, passi a casa molto più tempo: se hai famiglia, non puoi immergerti per otto-dieci ore di fila dentro lo studio completamente indisturbato ma ogni due, tre ore ad un certo punto invece c’è qualcosa che interrompe, anche giustamente, il tuo flusso di lavoro. E’ qui che entra in campo l’importanza avere qualcuno con cui collaborare: crei qualcosa in due, tre ore e poi la mandi, “Ok, qui vai avanti tu, quando hai finito rimandamela che poi proseguo io…”. Funziona! Ad esempio con Om Unit ho fatto esattamente così. E infatti, completare quello che avevamo in mente di fare è stato molto veloce e facile. Anche perché il grosso del lavoro lo ha fatto lui, che aveva più tempo libero e meno impegni famigliari, lo ammetto… (risate, NdI)
(Il frutto del lavoro congiunto con Om Unit; continua sotto)
Farete altre cose assieme, voi due?
Siamo già al lavoro su una nuova uscita e, pure stavolta, il flusso di lavoro procede davvero spedito. Ad ogni modo: la verità è che tolto il lavoro vero e proprio io in questo periodo ascolto veramente pochissima musica elettronica, come colonna sonora casalinga. Già non lo facevo molto di mio anche prima; ma ora questa attitudine è ancora più accentuata. Ascolto di più altro.
Tipo?
Jazz, prima di tutto. Vinili comprati su Bandcamp. L’aspetto più avanguardista e “free” del genere. E ti dirò: mi piace un sacco, mi ispira veramente parecchio. Tutto questo è destinato a sfociare in un EP su Ostgut.
Davvero?
Ho già una cartella sul mio computer a nome “Corona Music” e sì, è tutto materiale diciamo… “jazz mutevole”. Da un lato ha il mio tipico suono, dall’altro è musica dilatata, rallentata, senza beat. E’ sempre stato un mio sogno fare un disco così. Ho fatto sentire un po’ di roba a quelli di Ostgut e la loro reazione è stata: “Oh, questa roba non c’entra niente col dancefloor. Bello! Facciamolo uscire!”. Sai, credo che ora, col Berghain chiuso, anche loro abbiano una visione stilistica molto più disponibile ad aprirsi, a cercare terre inusuali. D’altro canto che senso ha rilasciare delle martellate techno adesso, con tutti i club chiusi?
Che poi tutto questo mi spinge a dirti che ho sempre trovato divertente il fatto che tu fossi così strettamente legato ad Ostgut, quindi l’etichetta del Berghain. Tu di “berghainiano” hai sempre avuto molto poco, almeno a vedere le cose da fuori. Poi, conoscendo te e conoscendo un minimo loro, so benissimo che potete trovare un sacco di terreno comune. Ma visti da fuori, sembra davvero che ci azzecchiate poco l’uno con l’altro.
Ma vedi, è proprio perché la gente sovrappone Ostgut con Berghain, e in realtà le cose sono un po’ più sfaccettate. Ostgut è anche Panorama Bar – che è un posto dall’identità e dal suono molto diverso rispetto alla techno del piano di sotto. Quello che posso dirti è che quando mi misero sotto contratto erano evidentemente in cerca di qualcosa di nuovo, di “diverso”, con l’idea di mantenere sempre qualcosa di fresco e particolare nel loro roster. Del resto il mio agente dell’epoca era inglese, uno stroricamente legato alla scena UK garage, quindi il tutto poteva avere senso, soprattutto in ottica Panorama. All’inizio non nego che mi sono preoccupato in minimo di adeguarmi alla loro linea stilistica, quindi produzioni spiccatamente club oriented, ma siamo arrivati ad una tale fase di fiducia reciproca che ora posso fare veramente quello che voglio. Il che è un’ottima cosa, no? Anche perché a tutto ciò siamo arrivati in maniera molto spontanea, molto naturale. Io comunque ho loro, ma ho anche la collaborazione con NTS, ho la mia etichetta, per giunta non vivo nemmeno più in Europa ma in America…
(Martyn su Ostgut suona così; continua sotto)
Chiaro, però Ostgut ha effettivamente un minimo di potere iconico. Non fosse altro per questo legame a doppio filo col club più chiacchierato e mitizzato degli ultimi quindici anni. Ecco, a proposito della mitizzazione: prima di tutto, è giusto usare questa parola?
Assolutamente sì.
Il Berghain col tempo è diventato quasi più un’ossessione che un club.
Vero.
Con la gente a parlarne tutto il tempo, e a fare a gara a chi ci passava più ore di fila e ci vedeva le cose più assurde…
Ma in quello, boh, che dirti: è l’edonismo. E’ fisiologico che possa essere un qualcosa che attrae. Da che mondo è mondo, l’edonismo attrae.
Ok, hai ragione. Ma non era solo quello. Era anche questione di questa mania sull’entrarci o non entrarci, su Sven alla porta, sulla necessità di “esserci”.
Ecco, quello credo sia prima di tutto colpa della stampa.
Ok, colpa nostra.
Beh, sì. Anzi, sarò più specifico: colpa prima di tutto della stampa specializzata inglese. Alla fine è sempre in Inghilterra che si muovono i fili, il grosso hub mediatico ed imprenditoriale è lì. Il modo in cui loro vedono e scrivono di musica e di clubbing diventa subito egemone in tutto il mondo. Guarda, pensa ad Ibiza: la maniera in cui sono gli inglesi a vedere e descrivere Ibiza è diventata la maniera in cui tutto il mondo la vede e la descrive. Poi però capita che ci vai, ad Ibiza, e scopri “Ah ma caspita, ma non è solo quello che dicono loro quest’isola”: tipo che ci sono mille modi per stare bene e non finire stritolati dalla chiassosa ed impietosa macchina di un certo tipo di turismo da clubbing. Io infatti amo Ibiza. Ma ehi, puoi star sicuro che se fosse quella descritta dalle cover story di Mixmag la troverei invece insopportabile. Che succede allora? Che sta succedendo da qualche anno? Succede che quando Ibiza per la macchina mediatica specializzata inglese è diventato un argomento già logoro e sfruttato, si sono inventati allora Berlino e il Berghain, o meglio, hanno concentrato tutta la loro attenzione e la loro capacità di creare hype lì. Il Berghain è diventato un Moloch, un bestione feroce che devi temere e che puoi toccare solo da lontano con un bastone, con la paura che sennò ti morda o ti bruci (e naturalmente tutto questo diventa un fattore d’attrazione, di seduzione). D’altro canto c’erano tutti gli elementi per la storia perfetta, no? La techno, il club 100% tedesco (con tutto quello che la Germania può rappresentare per gli inglesi), e poi ‘sta cosa della door policy, ok, che però è stata caricata in maniera completamente insensata. Sia chiaro: uno può anche discutere se sia corretta o meno, se sia esagerata, ci mancherebbe; ma l’hanno trasformata in qualcosa di assurdo, messianico, stravolgendo completamente il senso della realtà e anche il senso concreto delle cose. Ma questo, se ci pensi, è il funzionamento tipico della stampa inglese. Da sempre. Creare gli hype, ingigantirli a dismisura, per poi lucrarci ancora iniziando a dargli contro e incitando i lettori ad abbatterli.
Beh, non solo della stampa inglese. Anche, in generale, del pubblico tutto, inglese e non. Penso ad esempio a Resident Advisor, tanto per stare nel mondo dei media anglofoni ma rovesciando i ruoli: prima si è creata un’ossessione positiva attorno ad esso, se non eri lì sopra non contavi davvero, ora l’ossessione per i più “avvertiti” è invece parlarne male, indicarlo come origine di tutti i mali. E lo fanno spesso proprio quelli che l’hanno reso grande e rilevante…
Già: quando in realtà si potrebbero fare ragionamenti molto più posati. Tipo, è normale che nessuno sia perfetto, no? Quindi nemmeno i media, specifiche testate giornalistiche. Tutti sbagliamo. Costantemente. L’importante allora è discuterne, e non invocare solo il rogo e la distruzione. Che senso ha odiare? A cosa serve? Cosa lascia, cosa costruisce davvero? Sai, io credo che per noi che siamo cresciuti ancora negli anni ’90 sia anche più facile relativizzare le cose, almeno sulla carta, ne abbiamo viste e passate tante; ma per chi si è avvicinato nel clubbing dal 2010 in poi, la percezione era effettivamente che esistesse solo Resident Advisor, tra queste generazioni l’influenza di Dj Mag e Mixmag per dire è molto bassa…
Ma è vero che RA oggi pilota dittatorialmente il mercato?
No, non lo credo.
La vedo come te.
Poniamo il caso che esca un tuo mixato sulle pagine di RA: bene, ma ormai a cosa sono, al numero 700 dei propri podcast? Tu sei uno dei 700, stop. O ancora: c’è uno speciale ben fatto su di te? Bene, per un paio di settimane ti aiuta, di esposizione infatti te ne dà e ben venga, ma loro ormai sono talmente produttivi che due settimane dopo fanno un altro speciale su un’altra label o un altro artista, altrettanto bello – e allora tu cadi nel dimenticatoio. Vogliamo parlare poi anche delle recensioni? La realtà è che la gente non le legge manco più, a maggior ragione adesso che non ci sono più i voti in fondo! Quelle che ti sto dicendo non sono opinioni, eh, ma sono cose che ho riscontrato nei fatti: una mia release un po’ di tempo fa prese solo 2,5 stelle su 5, la verità però è che questa mezza stroncatura non ha minimamente influito negativamente sulle vendite. Vale lo stesso per quella che invece prese 4,5 su 5: credi che la cosa le abbia giovato? Nella realtà dei fatti: no. Quindi di cosa stiamo parlando? Non è più come negli anni ’80, quando un giornalista su New Musical Express scriveva qualcosa su una oscura band di Manchester chiamata The Smiths ed improvvisamente The Smiths diventavano famosissimi. Ehi, mi piacerebbe fosse ancora così – mi divertirei a tentare io di fare così da “influencer” – ma non lo è più, mettiamocela via.
Segui però Dave Clarke su Facebook?
No. Che dice? Sai, se devo seguire sui social qualcuno preferisco seguire quelli che sono un po’ meno assertivi, che mettono in dubbio le cose che dicono, piuttosto che quelli che hanno sempre un’opinione definita e netta su tutto… e ho l’impressione che Clarke possa ricadere nella seconda categoria. Ma magari mi sbaglio. Insomma: che dice?
Dice un sacco di cose interessanti. Ma dice anche che Resident Advisor avvelena la scena, che “Save Our Scene” era un incrocio tra una truffa e un’estorsione, che loro non dovrebbero permettersi di parlare di “salute della scena” perché sono in realtà i primi ad avvelenarla…
Ok, sì, credo di aver capito la posizione. Peraltro, sono convinto che se ci ritrovassimo a cena assieme a parlare, passeremmo una serata molto gradevole: lui mi sembra una persona molto intelligente e brillante. Tuttavia questo non significa che sia d’accordo con lui per forza, a prescindere. Ok, “Save Our Scene” è criticabile in alcuni aspetti: va bene. Ma la domanda che faccio è: quante altre volte è capitato che piombasse sul mondo una pandemia che mette in ginocchio un intero settore in meno di un mese? Ci era già successo in passato? Sì? No? Sapevamo come reagire e come difenderci? Non credo.
Mi sa di no.
L’intenzione di Resident Advisor era comunque di provare a fare qualcosa, di aiutare. L’hanno fatto male? L’hanno fatto anche per se stessi? Può darsi. Era meglio se non facevano nulla? Questo non credo. Perché se non facevano nulla, allora magari arrivava il Dave Clarke di turno a dirgli “Ecco, hanno mangiato per anni sulla scena del clubbing e ora non fanno nulla”. Perché la verità è che mettersi lì a criticare tutto quello che fanno gli altri è il mestiere più facile e comodo del mondo. Resident Advisor può aver fatto delle azioni discutibili ed imperfette, ma nel momento in cui ti trovi ad affrontare una situazione che nessuno e dico nessuno aveva mai affrontato prima vogliamo forse dire che era facile venirsene fuori subito col “piano perfetto” per risolvere le cose? Sul serio? Guarda, tanto per tornare a parlare di Berghain: sì, credo che anche io che su Black Lives Matter abbiano sbagliato, dovevano affrontare più e meglio la questione, hanno avuto una reazione tardiva e un po’ troppo pallida, ma ehi: fare errori è normale. Nessuno è perfetto. La cosa buona è se provi a fare qualcosa, prima di tutto, se ti poni il problema. Poi, in maniera posata, discutiamo tutti insieme se si poteva fare di più e meglio, senza gettare la croce addosso a nessuno.
Ma vale ancora la pena leggere articoli, interviste, recensioni?
Per quanto riguarda la musica elettronica?
Sì, soprattutto.
Stando sempre su Resident Advisor, ascolto molto i podcast della serie Exchange: questo per dire che mi piacciono le cose più lunghe, approfondite, che mettono in campo artisti e questioni interessanti, ad ampio respiro. Le recensioni, invece, onestamente no. Quasi mai. Ma questa è una cosa che mi tocca già da tempo, perché è da mo’ che il grosso delle recensioni sono diventate, come dire, routine, dei meri esercizi di stile… qualcosa di funzionale solo a se stesso, non a ciò di cui scrivono. Perché la verità è che le uniche recensioni buone, secondo me, sono quelle che ti spingono ad ascoltare musica, che sia quella recensita o altre ad essa collegate. Le recensioni che sono fine a se stesse, che servono solo a dimostrare quanto è bravo a scrivere e giudicare colui che recensisce, mah. Poi mi chiedevi anche degli articoli in generale, no?
Esatto.
Beh, quelli sullo “Stato della scena” per un po’ li ho letti, anche con interesse, ma devo dire che ormai ho smesso perché bene o male girano ormai tutti attorno agli stessi argomenti.
Alla fine è sempre in Inghilterra che si muovono i fili. Guarda, pensa ad Ibiza: il modo in cui sono gli inglesi a vedere e descrivere Ibiza è diventato il modo in cui tutto il mondo la vede e la descrive
Ma senti, il tuo libro? Quello che devi scrivere tu?
Dobbiamo proprio parlarne? (ride, NdI)
Eh, mi sa di sì… anche perché molti non sanno di che si tratta.
Beh, mi è successo quello che è successo a tutto il mondo della musica che non sia multimilionario: arriva il Covid, pensi “Oh, finalmente ora avrò il tempo di finire quella cosa a cui sto pensando o lavorando da tanto ma che ho sempre rimandato”, poi però ad un certo punto la vita ha il sopravvento, le bollette da pagare, l’inventarsi qualcosa per arrivare comunque decentemente a fine mese. Sai, e tu lo dovresti sapere, per scrivere bene un libro ci vuole tempo e concentrazione, devi dedicartici parecchio. La cosa buona è che la serie per cui deve uscire ha già tanti titoli sempre pronti e in fase di lancio quindi non mi hanno mai messo addosso particolare pressione.
Ho capito, altri dieci anni almeno prima che esca… (risate, NdI)
Già, e odio questa cosa! E’ che ormai si è sparsa la voce su di lui prima ancora che finissi di scriverlo e sì, ora è diventata una specie di Spada di Damocle, sta sempre lì, tutti ne parlano, tutti ne chiedono (vabbé, non tutti… ma un po’ di amici ed appassionati sì), e ti senti ogni giorno più in colpa perché puoi solo dirgli “Eh no, manca ancora un po’, mi spiace”.
Va bene, allora non diremo di che si tratta.
Grazie!
Però, e so che sto mezzo spoilerando così, ti chiedo: torneremo mai ad innamorarci tanto follemente e visceralmente di un genere così come ci successe negli anni ’90 per la jungle / drum’n’bass, che per molti rappresentò veramente un salto di paradigma e di visione?
Buona domanda. L’impressione è che in tempi come questi, e vale anche per il discorso che facevamo prima sull’ambient, la gente più che l’avventura e la scoperta cerchi la conferma, la rassicurazione, il trovarsi in posti, contesti e suoni che conosce già. Non che questa sia la fine della musica, tutt’altro: anche in questa maniera esce ottima roba, la stessa drum’n’bass è più viva che mai, e anche i dischi che sono molto citazionisti e revivalisti sono spesso e volentieri ottime release, davvero di qualità. Quindi sì, probabilmente sono anni che non sta venendo fuori nulla di radicalmente nuovo, ma quello che c’è è sviluppato davvero bene. Cosa succederà quando questa stasi da pandemia si interromperà, anche musicalmente?
Già, penso sia una domanda importante.
E la risposta è: non lo so. Però il fatto che per colpa o grazie al lockdown sia venuta un po’ a cadere per quanto riguarda la musica da club la dittatura assoluta in chiave tech-house nel mercato, potrebbe promettere nel futuro prossimo sviluppi piuttosto interessanti. Tra l’altro una novità significativa è che c’è attenzione come non mai a musiche non-occidentali. Fino a poco tempo fa, nel meccanismo senza pausa delle release, ti focalizzavi – o eri spinto a focalizzarti – su quello che masticava il mercato. Ora che nel clubbing il mercato è fermo, e ti mette quindi addosso meno pressione, ti capita molto più facilmente di concederti il gusto di esporti a musiche non convenzionali, di avere anche solo il tempo di andartele a cercare. Una volta il discorso pubblico sulla musica da club sarebbe stato colonizzato dal nuovo album dei Bicep, e poi un paio di settimane più tardi sarebbe stato qualche altro album simile di qualche artista o gruppo vendibile molto bene nel mercato del booking; adesso invece sì, ci sono i Bicep, perfetto, ma hai anche la possibilità e il tempo di imbatterti, che ne so, nel metal angolano – e questo senza perderti nulla e senza restare indietro rispetto al resto della scena e delle sue dinamiche.
Sai che però faccia fatica ad immaginarti come uno che si mette a fare elettronica contaminata massicciamente con elementi non-occidentali…
Ma la musica che faccio non è per forza quella che riassume tutti i miei interessi e i miei ascolti! Certo, essa mi rappresenta al cento per cento; ma non è per forza esaustiva. Ti faccio però un esempio concreto: in un mio brano abbastanza recente ad un certo punto compare una tabla, e ti garantisco che non mi sarebbe mai venuto in mente di usarla se non avessi passato nei mesi precedenti un po’ di tempo ad ascoltare musica indiana, “capendola” in maniera più approfondita. Alla fine ho usato solo un suono, ma dietro quel suono, anzi, dietro la scelta di quel suono ci sono ascolti estesi. Oppure, parlavamo prima di jazz: chiaro che la musica che faccio non è jazz, ma il tipo di sensibilità che percorre la musica jazz un po’ influenza il mio modo di approcciarmi alla musica elettronica.
Qual è la tua release di cui vai più orgoglioso?
Sai che non c’ho mai pensato? Anche perché ti confesso una cosa: nel momento in cui esce un mio disco, quella musica lì finisce coll’interessarmi di meno. Infatti non è un caso che nei miei dj set non suoni quasi mai produzioni mie.
Ok, magari non la migliore dal punto di vista musicale allora, ma quella che è stata più complicata da far uscire?
Credo l’album per Ninja Tune. Era un momento abbastanza complicato, per me. Sai, agli inizi è tutto più facile: sei quello giovane, nessuno si aspetta nulla da te, tutto quello che fai lo fai senza la minima pressione addosso, e quando arrivi a fare un album – beh caspita, sei già contento di essere arrivato a questo traguardo! Col secondo LP, è stata comunque una esperienza molto bella perché la Brainfeeder è stata davvero molto d’aiuto, è riuscita in maniera davvero naturale a portarmi anche a pubblici che prima non mi conoscevano. Il casino è stato il terzo. Quello per Ninja Tune. Perché c’era di mezzo un’etichetta importante, c’era di mezzo pure un budget non banale, c’erano improvvisamente di mezzo manager di qua e di là, insomma, d’un tratto c’erano un sacco di persone da soddisfare e da ascoltare, persone che volevano rassicurazioni, e io di mio volevo comunque fare qualcosa di fresco, di “diverso”. Col senno di poi, penso di poter dire che ho permesso a troppa gente di interferire col processo creativo, di metterci un po’ il naso dentro. E questo, credimi, è un errore che quasi tutti i musicisti fanno ad un certo punto della loro carriera: fidarsi ed affidarsi più al parere degli altri che al proprio. Lì qualcosa si inceppa, vai fuori giri, perché finisci col voler accontentare non solo te stesso ma anche molte altre persone e, semplicemente, perdi la direzione. E’ stato difficile, insomma. Non riesco nemmeno a dirti oggi se quello su Ninja è un buon album o meno perché, come ti dicevo, faccio molta fatica a relazionarmi alla mia musica una volta che è uscita; però sì, è stato difficile, accidenti se è stato difficile. Oddio, non che coll’album successivo, anche se magari con meno pressioni addosso, sia stata proprio liscia liscia… Forse dovrei smettere di fare album…
(Un album difficile, ma lodatissimo in giro; continua sotto)
No, ti prego!
Dovrei fare solo EP, come la vedi? E’ tanto più facile! Tu cosa ne pensi, del formato album?
Io ci credo ancora. So che è demodé dirlo, ma perché è ancora il formato su cui si misura lo spessore di un artista.
Davvero? Non lo so. Leggevo recentemente sul Guardian un articolo piuttosto acuto sul fatto che ormai, oggi, gli album sono più un vestito da cucire attorno ad un brano costruito espressamente per finire su una playlist. Pensa come sono cambiate le cose. Oggi può avere meno senso fare un album non solo e non tanto perché la gente non ha più la pazienza di ascoltarlo tutto dall’inizio alla fine, ma perché sono gli stessi algoritmi dei servizi di streaming a puntare tutto sulla playlist. Sono loro che stanno ammazzando il formato dell’album, più ancora degli ascoltatori.
Però vale sempre la pena farli, dai.
Ma guarda, è molto semplice: se sei un artista, devi sempre fare solo quello che ti senti di fare. Perché, hai mai sentito che nel mondo dell’arte pittorica qualche sedicente esperto dicesse “Ma lascia stare tutte queste rifiniture, vai più sull’essenziale, tanto oggi la gente non ha più tempo e voglia di stare lì a guardare i dettagli”? No, vero? Te lo immagini, anche in passato, gente che va da Michelangelo e gli dice “Ma sì dai, lascia perdere, tirala via, tanto poi la gente mica si ferma lì a guardare mezz’ora quello che hai fatto…”. Traducendo: non è perché Spotify lavora contro il formato album che allora non devi fare più album, non funziona così, non deve funzionare così. La gente dovrebbe fidarsi più degli artisti, e gli artisti dovrebbero fidarsi di più di se stessi. E non sono gli ascoltatori che dovrebbero dire ai musicisti come fare la musica. Ad ognuno il suo.