Per certi versi, questo articolo potrebbe essere un perfetto, preciso duplicato di quanto scritto nemmeno tanti giorni fa sulla faccenda dei concerti, dei sold out, eccetera eccetera, avete presente? La dinamica è la stessa, i protagonisti pure: Selvaggia Lucarelli e la sua newsletter fanno deflagrare un “caso” all’interno dell’industria musicale, arrivando lì dove molti non arrivano (o meglio: non hanno mai voluto arrivare) e dove chi ci era arrivato, perché qualcuno certe cose le diceva e raccontava già, non aveva una platea abbastanza vasta o, semplicemente, veniva letto ma non ascoltato.
È successo di nuovo, sì. Stavolta qual è il casus belli? Stavolta il giornalismo investigativo della Lucarelli è andato a pungere forte nelle faccende di Esse Magazine, che se non sapete cos’è A) avete più di quarant’anni B) è probabilmente la creatura editoriale di maggior successo attorno alla musica negli ultimi dieci anni C) è un’avventura nata inizialmente sotto il nome di Sto Magazine grazie all’impulso di Ghali e Antonio Dikele Distefano e poi si è tramutata in Esse Magazine con la guida del solo Dikele D) come intuibile parla in primis di cultura urban e hip hop, ma ormai non solo.
Cos’ha scoperto la Lucarelli? Ha “scoperto”, e non vorremmo sminuirla con queste virgolette, ciò che come ha commentato un’amica e collega è “…qualcosa che gli addetti ai lavori sanno tutti, ma proprio tutti, e da tanto tempo”: ovvero che c’è un pericoloso sovrapporsi fra contenuti editoriali ed investimenti pubblicitari delle etichette discografiche, in Esse Magazine. Un sovrapporsi raramente segnalato e dichiarato.
La Lucarelli deve essere entrata in possesso di documenti teoricamente top secret – in realtà meri strumenti di lavoro, protetti da NDA invero gracili – in cui si quotavano le varie “prestazioni” che l’unità editoriale guidata da Dikele poteva offrire alle etichette discografiche per la promozione / copertura editoriale di un album, di un artista, di una serie di release, eccetera eccetera. Come a dire: i contenuti di Esse sono tutti in vendita. Anzi, sono proprio venduti, e venduti bene, tipo “Questi ci fottono e ci fanno pure sopra il grano”, implica la Lucarelli: sottolineando come i bilanci della società a cui Esse fa capo, Cantera srl, offrano da tempo fatturati che superano il milione di euro di ricavi.
Anvedi questi.
Sapete che c’è? In buona parte, è tutto vero. In buona parte, la Lucarelli ha assolutamente ragione. Nella conversazione con la Lucarelli che lei stessa ha riportato nella newsletter dedicata alla faccenda, Dikele – invece di trincerarsi in un “No comment” e di correre poi da un avvocato per fargli gestire la cosa, a riprova per come la vediamo noi della sua buona fede – ha provato a spiegare come ci siano due realtà distinte, una (Cantera) è responsabile della creazione di contenuti a trecentosessanta gradi, l’altra (Esse Magazine) è solo una delle forme in cui l’output di Cantera si declina. Che poi spesso le committenze ricevute da Cantera “atterrino” su Esse Magazine è, come dire, normale, “sensato”, è una ragionevole ottimizzazione del lavoro e delle risorse in campo, diciamo così.
Quindi, facciamo un esempio concreto: la Warner o la Universal o la Sony o chi volete voi commissionano a Cantera un pacchetto – facciamo un esempio a caso – composto da una videointervista, un reportage e tre articoli a copertura di una nuova release a fonte di una cifra X, Cantera produce una videointervista, un reportage e tre articoli, come da richiesta, e di questi contenuti nulla di strano se alcuni (o tutti?) finiscono su Esse Magazine.
Lineare.
La morte del giornalismo? Il funerale dell’obiettività? Il trionfo della marchetta? Lo stupro di quello che dovrebbe essere un obbligo morale ed etico nella professione, ovvero la “terzietà” del giornalista? Facile rispondere: “Ecco, sì, esattamente questo”. Qualcuno altro aggiunge pure, più pragmatico e più attento alle leggi e leggine che prescrivono l’Ordine dei Giornalisti e l’Agcom: vabbé, questi contenuti si potevano inserire pure, massì, si sa che il mondo dell’informazione oggi va così, ma signore e signori andavano preceduti o chiosati dall’hashtag #ADV, così era chiaro a tutti che si trattava non di contenuto puramente giornalistico oggettivo ma di un publiredazionale.
Tutto vero, tutto giusto, quanto sopra.
Ma tutto, ahinoi, insufficiente.
Tutto gravemente insufficiente a capire i veri confini del problema, e del perché esso sia molto più vasto di Esse, della sua redazione, di Antonio Dikele Distefano, se uno si dà la pena di capire, non di colpire.
Ancora una volta si vede in modo nitido il “metodo Lucarelli”, insomma: fare una battaglia giusta, individuare un problema reale e fondamentale su cui troppi nicchiano o fanno flanella per interessi corporativi, ma affrontare però tutto questo con intenti meramente punitori e con grande predilezione per il creare capri espiatori su cui sfogarsi, su cui indirizzare la grande onda dell’indignazione, quell’onda che fa sentire chi la cavalca più puro, più bravo, più onesto – altro che quella merdina di Dikele e il suo giornalismo putrido e prezzolato!
Fate pure così, se volete.
Fate, fate.
Ma ridurre ‘sta questione a questa dinamica qui, a questa ennesima festa dell’indignazione, a noi sinceramente deprime, sconforta. Lo fa tanto quanto – e più – della mancanza dell’hashtag #ADV dietro, davanti o sotto alcuni articoli di Esse Magazine, o di chi volete voi.
Ora: che gli articoli di Esse e in generale il suo modo di fare informazione siano mille miglia lontani dal modo di fare giornalismo musicale “classico” ed indipendente, è la scoperta dell’acqua calda. Gli articoli di Esse – e dei tanti, tantissimi, tantissimissimi che hanno provato ad imitare Esse dopo il suo successo, e che a breve magari faranno finta di non averlo mai fatto – sono spessissimo e con metodo&intenzione aproblematici, acritici, non attaccano gli artisti, non ne contestano o criticano realmente le scelte, si limitano semmai a riproporre, esporre, a confezionare ed amplificare il messaggio deciso a monte dagli artisti stessi e dalle etichette e management che ne guidano/consigliano le azioni.
Lo dice anche Marracash in “Power Slap”, “Tutti bravi su Esse Magazine” (e sì che lui su Esse ci è finito più volte, però ecco, almeno lui è bravo davvero):
Non è sempre così, peraltro. Non c’è cioè sempre e solo accondiscendente melassa, su Esse. E che non sia sempre così, il sottoscritto ve lo può mettere per iscritto, mani sul fuoco, visto che un po’ di anni fa mi capitò di vedermi commissionare un po’ di articoli da Esse e mai dovetti subire la minima ingerenza o il minimo “consiglio”, non mi è mai capitato di mandare qualcosa in redazione e sentirmi poi dire “Eh, però questo non va bene”, anche quando in quanto mandato dal sottoscritto c’erano striature critiche più o meno forti. Boh: sarà che sapevano che a me non potevano dire nulla, perché non avevo nulla da perdere dopo quasi trent’anni di presenza nella scena, o perché sono alto e slavo, che ne so.
Se dopo poco tempo ho smesso di scrivere articoli per Esse, era perché gli articoli in questione erano troppo poco pagati (comunque mi sembrava giusto essere pagato tanto quanto qualsiasi altro articolista della testata, senza chiedere trattamenti di favore: e quel “tanto quanto” era poco), e perché al tempo stesso implicavano troppo lavoro (non solo l’articolo dovevi mandare, ma anche il titolo, occhiello, riassunto per Instagram: spesso questi aspetti collaterali portavano via più tempo dell’articolo stesso). I rapporti però con la redazione e Dikele sono rimasti ottimi, in tutti questi anni. E sapete perché? Almeno da parte mia, per l’enorme stima verso il loro lavoro. Sì. Stima evidentemente reciproca: visto che poi qua e là è capitato di collaborare su questo o quella occasione, essenzialmente in video. Tipo questo, in cui mi sono molto divertito e dove non c’è stato nessun “consiglio preventivo” su cosa dire o non dire:
Lo ripeto, così capite proprio a chiare lettere, metti mai qualcuno non colga nella sua interezza il disclaimer: verso Esse ho avuto stima fin dall’inizio e ho stima adesso non perché mi pagassero lautamente né perché lo facciano ora (anzi: ho smesso di collaborarci perché mi pagavano troppo poco, e nei video sono presente per amicizia o quasi) ma perché stando in contatto con loro ho trovato un team coeso, preparato, efficacissimo nel recuperare notizie e nel pubblicarle in velocità, con un occhio attento e fresco (molto più del mio!) su quello che funzionava e/o avrebbe potuto funzionare a breve. Io insomma avrò sempre parole di ammirazione per Esse, così come l’ho conosciuto fino ad oggi; parole di ammirazione per l’intensità, la metodicità e la precisione con cui ci si lavora e anche di gratitudine, perché da loro ho imparato molto – entrare in contatto con loro e col loro modo di lavorare è stato un aggiornamento professionale che a molti miei colleghi più o meno coetanei, beh, avrebbe fatto (e farebbe…) parecchio bene, molto più dello sfoggio di erudita conoscenza enciclopedica e di malmostosa ostilità verso i “tempi moderni”.
Sia chiaro: mi ero accorto subito di dove andasse a parare il modello di business, ma anche la direzione giornalistica. Mi ero accorto subito di quanto la produzione di contenuti editoriali andasse di pari passo – e con gli anni lo ha fatto sempre più – col soddisfare tanto gli artisti quanto gli inserzionisti stando attenti a non scontentare troppo nessuno, e coll’immaginarsi fra gli inserzionisti in questione prima di tutto le case discografiche e i management degli artisti, insomma, quella che un tempo si chiamava la pubblicità “di settore”, che quindi esisteva già, ma ora si attiva in un modo molto più stretto e “collaborativo”, anzi, dannatamente invadente rispetto al passato.
Badate bene: avendo iniziato a scrivere professionalmente ancora negli anni ’90 e avendo passato quasi vent’anni nel Mucchio, rivista per necessità e definizione integerrima editorialmente (amministrativamente invece stendiamo un velo pietoso…) proprio per il tipo di comunità di lettori che aveva, io ho ben presente quanto ogni minima idea di “accontentare” la tal casa discografica, il tal artista, il tal manager fosse semplicemente l’impersonificazione di Satana e/o una vergogna immane, inaccettabile. Qualcosa che solo marchettari senza dignità – e non “veri giornalisti” – avrebbero anche solo preso in considerazione di fare.
Un’informazione obiettiva e cazzuta? Oggi? Oggi, non interessa
Nei miei articoli, penso di poter avere la presunzione di poterlo dire, non sono sempre stati “tutti bravi“, parafrasando Marracash, e non lo sono tutt’ora.
Al Mucchio, la sfida era quella di mantenere la libertà di stroncare e criticare, e ci si riusciva, accidenti, ci si riusciva, sì; ma in primis perché proprio le major e le costellazioni di indipendenti che facevano pubblicità sulle tue pagine magari qui e là si lamentavano di giudizi poco lusinghieri o interviste troppo puntute, va bene, ma lo facevano più per onor di firma che per convinzione: anche e soprattutto perché sapevano che iniziare a fare ingerenze dirette ed esplicite li avrebbe esposti a una shitstorm colossale. Bastava che iniziasse a girare la voce che la tal major o il tal artista avessero deciso di boicottare questa o quella rivista per delle mere recensioni o interviste non sdraiate, che la brutta figura andava a colpire l’artista o la major in questione, non il giornale.
Altri tempi.
Tempi in cui, alle persone, un’informazione obiettiva cazzuta interessava davvero.
Oggi?
Oggi, non interessa.
…perché sì, parliamoci chiaro: Esse, non a caso una realtà fatta di persone mediamente giovani, è cresciuta in un contesto in cui ai lettori di una informazione di qualità e di una critica approfondita ed indipendente interessa poco, ma poco poco: queste caratteristiche sono magari desiderate ed invocate a parole, perché nessuno dirà mai “Io voglio l’informazione dozzinale, superficiale e marchettara”, ma nei fatti non sono minimamente premiate dai numeri.
Zero.
Diciamolo a chiare lettere, sì: l’informazione di qualità, cazzuta e indipendente, in questi primi anni duemila non premia. Non viene supportata dall’attenzione e dal sostegno dei lettori, soprattutto quelli più giovani. Non è (più) percepita come valore aggiunto.
Da un lato porta via più tempo (a chi la fa), dall’altro dà più fastidio (a chi la legge, e vorrebbe leggere qualcosa di più “leggero” e meno impegnativo, o al contrario qualcosa che in modo lineare gli conferma le opinioni che ha già, a prescindere).
…e sapete qual è l’elemento più divertente, in tutto questo valzer? Che l’informazione di qualità, cazzuta e indipendente è di suo più costosa da metter su – o comunque meno redditizia – rispetto all’informazione “altra”, quella che si fa diciamo così meno problemi.
La trappola perfetta.
E il bello, è che ce la siamo costruita da soli, questa trappola.
Un tempo, bastava che iniziasse a girare la voce che la tal major o il tal artista avessero deciso di boicottare questa o quella rivista per delle mere recensioni o interviste non sdraiate che la brutta figura andava a colpire l’artista o la major in questione, non il giornale
Fateci fare qualche esempio, per farvi capire quanto Esse sia un finto problema, o un problema relativo. Tipo: le avete mai lette le recensioni di tecnologia dei quotidiani? Quelle su telefonini, televisioni, eccetera? Ecco, vi siete mai accorti di quanto siano un copia e incolla dei comunicati stampa? Sì? No? O ancora: avete mai letto articoli in cui vi consigliano questa o quella meta? Sì? Pensate che ci siano dei giornalisti che in maniera mascherata ed indipendente vanno a zonzo per il mondo per cercare luoghi e hotel bellissimi, o è invece la redazione centrale che sceglie di cosa a parlare a seconda di quali offerte arrivano dagli uffici stampa di una struttura ricettiva o di una organizzazione turistica territoriale? E in tutti questi articoli, quante volte avete visto la sigla #ADV? Pochine, nevvero?
Ma ancora: nei magazine del gruppo Condé Nast e non solo di quello, pensate che gli argomenti siano scelti dalla redazione in modo puro e semplice, a seconda dell’interesse giornalistico, o queste scelte sono invece filtrate dal dipartimento marketing che impone di parlare solo ed esclusivamente di chi o cosa ha pianificato un investimento marketing nel gruppo editoriale? Sempre più spesso nei settimanali – ormai quasi di regola, anzi – e piano piano pure nei quotidiani alcune interviste avvengono unicamente perché l’intervistato è stato “portato in dote” alla testata da un brand. Anche in casi che non diresti mai: ricordiamo una intervista a Roberto Carlos – sì, il calciatore – che era andato a giocare nel lontano Est Europa in una squadra minore, scelta bizzarra ed esotica, e una delle principali testate sportive italiane gli aveva dedicato una lunga intervista. Avevamo pensato “Ehi, bella scelta redazionale, è un argomento curioso e non scontato, bravi”, per poi invece scoprire che l’idea – e i soldi per realizzarla – era stata fornita da un notissimo marchio di abbigliamento sportivo, che aveva ancora Roberto Carlos fra i testimonial sotto contratto. Altro che “bravi!”.
Le entità editoriali “vecchio stampo” fingono ancora di essere integerrime, i ghepardi incorruttibili di una volta, ma sono sdraiati a stuoino già da decenni nei confronti dei marchi, degli inserzionisti, degli interessi degli editori, di chi per un motivo o per un altro è più potente di loro. Ogni tanto riescono ancora a difendersi, a mantenere isole episodiche di purezza, ma sono battaglie residuali, quasi dei “contentini” lasciati a chi-ancora-ci-crede, che sia lettore, che sia giornalista (povero lui).
Perché dovrebbero fare in altro modo del resto, queste entità editoriali? In anni, i nostri, in cui nei grandi siti d’informazione i numeri si fanno con le famigerate “colonne destre” delle homepage (che ora non ci sono più, visto che guardiamo i siti dagli smartphone), luoghi in cui canini e gattini macinano più attenzione di un’analisi macroeconomica, geopolitica, finanziaria, demografica, etica, filosofica, in cui un panda che si rotola fra i bambù raccoglie più attenzione di un un’inchiesta sul narcotraffico colombiano o sugli intrecci tra i “signori della guerra” africani e le grandi potenze o sulla speculazione edilizia intrecciata al malaffare politico che stupra i territori e le interazioni sociali, insomma, in questi anni perché dovrebbero fare in altro modo? Perché dovrebbero complicarsi la vita da soli, ché la vita è già difficile e quella dell’editoria da anni lo è ancora di più?
(L’articolo è lungo, vi meritate una pausa; continua sotto)
Almeno i brand ti pagano. Il panda coi suoi ruzzoli, manco quello. Ti genera un po’ di traffico, quello sì: che tu, contrito e cerimonioso, vai a portare all’altare del brand, baciandogli la pantofola. Perché a quello serve, il traffico, mica ad altro.
Torniamo però al punto. Esse. I suoi contenuti “comprati” dalle major, le sue scelte editoriali che sarebbero influenzate, anzi, guidate dagli investimenti decisi negli uffici di qualche management, o di Sony, Warner, Universal.
Ok.
Nel puntare il dito contro Esse, come fa la Lucarelli almeno apparentemente (o almeno inizialmente), e come fanno tutti i lettori assetati di sangue, non ci si chiede tuttavia di una cosa: ma perché Sony, Warner e Universal investono in una testata che accetta di farsi “comprare” così?
Ai lettori di una informazione di qualità e di una critica approfondita ed indipendente interessa poco, ma poco poco: queste caratteristiche sono magari desiderate a parole, perché nessuno dirà mai “Io voglio l’informazione dozzinale, superficiale e marchettara”, ma nei fatti non sono minimamente premiate dai numeri
Ve lo diciamo noi: perché Esse Magazine fa dei numeri eccezionali. E sapete perché li fa? Perché, come detto, è sempre “sul pezzo”, lo è più di altri, meglio di altri; chiaro, ora ha pure il vantaggio competitivo, perché le imbeccate arrivano a loro direttamente dalle major e dai management stessi (sapevatelo: qualsiasi atto di guerrilla marketing discografico ha, nel piano esecutivo, la copertura editoriale di Esse come primo desiderata, quindi si va subito a bussare da loro per capire se sono on board). Ma questa forza e questa credibilità la redazione di Esse Magazine se l’è costruita lavorando duro, lavorando veloce, lavorando senza pausa, senza festività, senza domeniche, senza ore in cui l’ufficio è chiuso, lavorando capendo in maniera rabdomantica lo spirito-dei-tempi e quindi cosa può funzionare e cosa no, lavorando con una scrittura che è piana, semplice, corretta, efficace.
Non è che arrivato Dikele dal nulla con le mazzette in mano a ricoprire di soldi centinaia di migliaia di persone, “Leggete Esse!”, non è che sempre Dikele avesse alle spalle Elon Musk che gli permetteva di lavare il cervello di una platea infinita di persone; no, sono le persone che hanno scelto di seguire Esse e non altro, liberamente.
…non vi fa riflettere tutto questo?
Non vi fa riflettere che altri modelli di informazione attorno all’hip hop – più concettuosi, complessi e “critici” – si siano in questi anni arenati per crescente disinteresse del pubblico, o se va bene sono rimasti nicchia, e questo nonostante la popolarità del rap sia esplosa sul mercato moltiplicando quindi le risorse e il capitale d’attenzione?
È stato un complotto dei “poteri forti”? No. Al massimo, i “poteri forti” hanno capito – correttamente – che potevano partire all’attacco del mondo dell’informazione, e farlo da una posizione di forza: dettando loro le regole. Vincendo, brutali. Non facendo più prigionieri. Non facendo più compromessi. Imponendosi. Loro hanno gli artisti. Loro hanno i soldi. Stop. Al pubblico, oggi, piacciono i potenti: e major e management di artisti grossi lo sono, lo sono un sacco. Etichette indipendenti etiche e management dal volto umano sono guardati con simpatia, sì, per carità, ci mancherebbe, ma con una simpatia mista a compassione: “Bravi, eh, meritori… Ma non hanno capito come va il mondo oggi, sono destinati a non andare da nessuna parte. Poverini!”.
Poverini.
Ma non solo musica, non solo informazione musicale. La questione di potenza vale per la società dello spettacolo e dell’intrattenimento in toto (e per lo sport, basta guardare ad esempio come la Gazzetta dello Sport abbiamo aumentato a dismisura lo spazio editoriale riservato alle solite squadre grandi di A e ridotto invece quello per le altre).
Questo è il frame etico in cui è cresciuta l’informazione nelle nuove generazioni.
Questo è.
Etichette indipendenti etiche e management dal volto umano sono guardati con simpatia, sì, per carità, ci mancherebbe, ma con una simpatia mista a compassione: “Bravi, eh, meritori… Ma non hanno capito come va il mondo oggi, sono destinati a non andare da nessuna parte. Poverini!”
Il frame estetico, invece, è quello di Instagram prima e TikTok ora: pillole veloci, linguaggio semplificato, lunghezza sotto controllo, abolizione di ogni orpello, andare dritti al punto, far sembrare tutto chiaro ed inequivocabile o – altra faccia della stessa medaglia – incoraggiare alla rissa fra opinioni sotto nei commenti, perché appunto tutto è bidimensionale, quindi è bidimensionale anche il modo di porsi al tutto (pro, o contro).
Ecco da dove nasce Esse. Ecco l’humus che ne ha decretato la morfologia ed il successo. Ecco il campo operativo in cui si è ritrovato a stare, gli piacesse o meno, e in cui ha dovuto trovare un modello di business che funzionasse. E parlando di potenza, nella sua nascita e nella sua crescita Esse si è posto il problema di creare dei rapporti forti non solo e non tanto coi propri lettori (semmai, coi numeri che essi generano), ma più che altro con chi aveva ed ha davvero le risorse di soldi e/o di popolarità, ed era ed è interessato a “metterle a terra” imprenditorialmente nel campo in cui Esse opera – quello della musica, quello del rap, dell’hip hop, della cultura urban a trecentosessanta gradi (fino a lambire l’indie: perché oggi l’indie è mainstream, ed è “giovane”, quindi c’è un’affinità marcata, infatti pure l’indie italico spesso e volentieri su Esse ci finisce).
In tutto questo, in questo contesto diciamo così “industriale”, Esse si è guadagnato una credibilità notevole non stroncando e facendo scelte di campo forti, alla Pitchfork nei vent’anni precedenti per intenderci o prima ancora Rolling Stone, vecchio modello di business oggi in affanno; no, lo ha fatto lavorando invece in maniera puntigliosissima per non perdersi una notizia, non perdersi un aggiornamento, non perdersi un contatto prezioso, non perdersi un emergente, non perdersi un fenomeno, e coprire tutto questo “confezionandolo” in modo agile, veloce, chiaro, facilmente consultabile scrollando.
(Cosa che non si può certo dire di questo articolo che state leggendo, per inciso, ammesso e non concesso che siate arrivati fino a qua. Nevvero?)
Gli articoli e le notizie di Esse sono chiari, “pop”, sul pezzo, non eccessivamente problematici né fatti di chiaroscuri, acrobazie verbali o sottintesi, ché tutta la problematicità la delegano a chi si vuole azzuffare più sotto nella sezione commenti (…creando così l’engagement che tanto piace all’algoritmo).
Quindi Esse, il modello-Esse, in questa fase storica dell’informazione, funziona. Come del resto si capisce anche in alti campi, non solo nella musica: dalla politica all’attivismo, dall’attualità allo sport, dalla scienza al gossip, dal fai-da-te ai deliri dei complottisti, dall’editoria strutturata al self branding dei creator. Le dinamiche sono sempre pericolosamente quelle. Siamo terrorizzati dalla complessità e dalle difficoltà che implica il distinguere, considerare, ipotizzare, cercare soluzioni a più incognite.
Poi: nemmeno per un attimo Esse ha contemplato che i mezzi economici per crescere potessero arrivare dai lettori, probabilmente. Ne siamo abbastanza certi. I lettori sono oggi consumatori passivi, non supporter attivi pronti ad investire tempo e denaro, il massimo che puoi aspettarti da loro è il polliciaggio e qua e là qualche commento in calce brillante o demente, lo si dà quasi per scontato; da qui, la necessità di immaginare altri modelli di sostentamento e crescita – la cosa più ovvia è allora guardare lì dove le risorse ci sono, e dove queste risorse vedono in un prodotto editoriale un megafono, un moltiplicatore, accettando quindi di buon grado di allocarci degli investimenti.
Anche qui, non è un complotto. Non è nulla di losco. Non è un brainwashing di un clubbino o clubbone Bilderberg.
No.
Se i lettori premiassero oggi le riviste e i siti che rompono i coglioni, che fanno analisi approfondite e lunghe e magari pure puntute, che cercano la problematicità, che fanno critica vera e non virtue signaling, che gettano dubbi e suggestioni invece che certezze facili da lodare o sblastare, ecco, se i lettori premiassero oggi tutto questo, state pur certi che le major e i management e i brand investirebbero lì. Infastiditi, certo, perché sarebbero realtà meno “facili”, meno gestibili; ma investirebbero lì, porco cane se lo farebbero. Senza la minima remora. Esattamente come non si fanno problemi ad investire su artisti e loro famigli che, come esseri umani, spesso sono attacabrighe e problematici, ottusi e psicopatici, viziati ed immaturi; ma nel momento in cui hanno un carisma che incontra lo zeitgeist dei tempi (la trap oggi, il punk ieri, il rock’n’roll l’altro ieri), diventano un investimento che comunque va sostenuto, una sfida imprenditoriale che va affrontata, costi quel che costi, turandosi il naso.
Se per Esse il mettere a lungo dei contenuti in qualche modo finanziati dalle etichette e dai management senza però inserire l’hashtag #ADV avesse comportato in tempo reale e nel mondo fattuale una perdita di credibilità e di forza (leggi: reach), le etichette e i management in questione avrebbero smesso di investire lì. Non è successo. A (quasi) nessuno dava troppo fastidio che l’hashtag #ADV non ci fosse. Anche se spesso più di una voce si è levata per denunciare la cosa, ben prima di Selvaggia Lucarelli. E gli artisti, diciamola tutta, facevano e fanno a gara a comparire su Esse: anche quelli che lo hanno criticato nelle rime, e magari lo criticano parlando con gli amici o coi fan.
Perché la verità è: ad artisti, etichette e management fa dannatamente comodo che quell’hashtag #ADV non ci sia, o non venga comunque strillato ed evidenziato: se fosse stato evidenziato e strillato dall’inizio, gli investimenti nel prodotto editoriale in questione sarebbero molto minori, o direttamente nulli (sappiamo di realtà che hanno detto “Se mettete #ADV a fondo articolo, io il contributo che vi sto dando e che ho messo a budget per ‘sto contenuto ve lo taglio, chiaro?”. Doppia trappola, insomma. Doppia tenaglia.
Trappola e tenaglia da cui si esce in un modo, e in un modo solo: se mettere l’hashtag #ADV (e sentire la necessità di farlo) ti guadagna i favori dei lettori e degli artisti e non il contrario, se ti fa moltiplicare i numeri o almeno il capitale di credibilità di mercato. Invece, come abbiamo provato a spiegare per righe su righe su righe ed anche con altri articoli passati, questo non accade. Da anni. Ai lettori non interessa se un contenuto è biased o meno a causa di un investimento commerciale a monte. Non si pongono il problema, o se lo pongono per cinque minuti poi se ne dimenticano. Anzi: probabilmente, lo danno per scontato, sono rassegnati. E questo non perché siano stronzi, occhio: ma perché da ormai troppo tempo pure l’editoria tradizionale – quella che formalmente segue tutte le regolette e i requisiti dell’Ordine e dell’Agcom, no? – è comunque marchettara, da anni!, e lo è tanto quanto gli Esse Magazine che certi hashtag talora li mettono, talora invece no. Di situazioni in cui l’editoria tradizionale dovrebbe mettere #ADV ma non lo mette, appoggiandosi ad alcune scappatoie formali, il mondo è pieno.
Bella situazione in cui siamo finiti.
…ma ci siamo finiti noi. Da soli. Con le nostre scelte di comportamento e lettura.
(Ok, se siete arrivati fino a qua non è di voi personalmente che stiamo parlando, voi almeno la fatica di leggere un articolo con più di 25.000 caratteri ve la sobbarcate: chapeau)
Il problema è che il modello imprenditoriale di Esse e pure di mille altre realtà legate a musica e lifestyle e non solo, che è sbilanciato a favore degli inserzionisti e dei loro desiderata e dei loro interessi, è al momento l’unico modello che sta economicamente in piedi.
L’unico.
In questi anni di nuovo millennio, a chi legge evidentemente bastano un’informazione e un giornalismo fatti un po’ così: un po’ prevedibili, un po’ semplificati, un po’ addomesticati
L’unico che crea lavoro; l’unico che permette una professionalizzazione solida e continua dei collaboratori; l’unico che al momento ti offre una prospettiva di crescita; l’unico che ti permette investimenti e rilanci; l’unico che paradossalmente ti dà forza e potere contrattuale coi “cattivi” (se diventi stabile economicamente e un minimo grande, puoi iniziare a dire dei “No” ogni tanto, a mettere un minimo di paletti; se non lo sei, dovrai sempre soccombere alla legge del più forte, a meno che il tuo fare giornalismo non sia un hobby o poco più). L’unico, sì, a parte quello in cui arriva un mecenate che ti finanzia a fondo perduto: ma diciamo che non ci sembra un’alternativa particolarmente brillante, affidabile, sistemica e solida. Anche il Post, che è un esempio virtuoso di entità editoriale che si auto-sostiene, ci riesce ricorrendo anche e soprattutto all’organizzazione di corsi esterni e di collaborazioni varie, “esce” insomma dal mero contenuto editoriale che ne costituisce il core business.
Quindi sì, il problema è molto più vasto degli accordi sottobanco tra Esse Magazine e le major di turno, dell’inserimento di hashtag che dovrebbero lavare la coscienza di tutti una volta messi. È molto ma molto più vasto. Purtroppo.
In questi anni di nuovo millennio, a chi legge evidentemente bastano un’informazione e un giornalismo fatti un po’ così: un po’ prevedibili, un po’ semplificati, un po’ addomesticati. E agli artisti invece, meravigliosi fanciulli e fanciulle malati di ego, in fondo si scioglie il cuore quando si parla di loro su un media che macina contatti sul web, e sono disposti a passare sopra a tutte i dubbi e problematicità del caso. E nel frattempo, a coronamento di tutto ciò (leggi agenzie, label e management), chi ha più interesse e focus sul fatturare – fattura.
Una cosa è certa: è bene che tutti questi temi vengano sollevati. Brava la Lucarelli a farlo. Bravo però chi capirà – e magari lei sarà fra questi? – che se si riduce tutto ad una gogna verso una persona o una serie di realtà, non cambierà poi granché.
Postilla acida finale. Finale, ma importante. Chi critica i giornali e i siti che pur di alzare qualche euro per dare riconoscimento e dignità al proprio lavoro ricorrono a mezzi un po’ così e si vendono all’#ADV più o meno dichiarato, si chieda: ma io, quanto ho pagato nell’ultimo anno per avere informazione di qualità, informazione dipendente? E se ho pagato poco o nulla, perché dovrei averla, un’informazione così? Perché sono bello o bella? Perché sono simpatico o simpatica? Perché il mondo me lo deve?
…a furia di sentirci tutti dei talent, coi nostri account social certosinamente coltivati, dei talent abbiamo preso il narcisismo. Raramente il talento, invece; e raramente quello che è, almeno, il prezzo della fatica e del metodico impegno.
Gli spazi redazionali à la carte di Esse e gli #ADV sono solo una parte del problema. E, a dirla tutta, nemmeno la più grossa. Assolutamente non la più grossa.
* * *
Post scriptum: Al di là di quello che sembra, credo ancora che arriveranno di nuovo i tempi di una informazione migliore, che ci sarà un ritorno a una fama sana di contenuti, contenuti approfonditi; ma fidatevi, è più facile che questi contenuti arrivino da chi oggi si fa il mazzo, anche sbagliando, per tentare di capire come tenere in piedi un prodotto editoriale – vedi Esse, ma non solo: vale per sia per la vecchia che la nuova generazione – che da chi non fa nulla e si lamenta e sparge merda, commentando acido su Instagram o Facebook a grugniti, sberleffi ed insulti, e lamentandosi che qui, un tempo, “…era tutta campagna” (ma dimenticandosi che la campagna puzzava anche di merda)