E insomma, la faccenda dei mancati/finti sold out, dei concerti negli stadi dall’affluenza gonfiata, dell’avidità dell’industria musicale è diventato uno degli argomenti dell’estate, almeno come passatempo in mezzo agli orribili aggiornamenti dall’Ucraina e dal Medio Oriente. Beh: di questo sinceramente non potremmo e dovremmo che esserne contenti, no?, visto che è da un sacco di tempo che su queste pagine si insiste su questo tasto (questo articolo ad esempio è di esattamente di due anni fa, e già l’argomento ci sembrava “vecchio”, quasi ovvio, quasi banale: figuriamoci).
Ma come mai mo’ improvvisamente si parla tanto di ‘sta faccenda?
Il vero detonatore – per quanto gli articoli del sottoscritto o di un Michele Monina ma anche di altri ancora avessero sollevato appunto la questione da tempo immemore – è stata probabilmente una edizione della newsletter di Selvaggia Lucarelli. Perché si sa, in tempi di overload informativo ormai da tempo il punto non è o non è abbastanza cosa si dice, ma chi lo dice. Già. Complimenti alla Lucarelli, per essersi costruita negli anni col lavoro continuo e col talento indiscutibile un seguito così forte e così influente; e per fortuna che lo applica su cause “buone”, invece di rimestare nel torbido come fanno gli influencer sovranisto-russo-trumpiani-crucianeschi.
Epperò, in tutto questo meccanismo e nella sua efficacia, c’è un problema. Grosso. Se si titilla la fiammella dell’indignazione, l’incendio divampa infatti in un amen, parte con una fiammata altissima visibile a tutti, anche ai più distratti, ma si spegne poi in fretta, e l’attenzione del pubblico passa ad altro, alla fiammatona successiva.
Non va bene. Così non va bene.
Non va bene, perché se uno è addetto al settore e soprattutto detesta le semplificazioni e i processi troppo facili finisce quasi col farsi diventare simpatici le Live Nation, i F&P di Salzano e le Vivo Concerti di Clemente Zard, capri espiatori designati e primi “architetti” – ma non certo gli unici, occhio – dei vari meccanismi per cui il mercato della musica dal vivo in Italia è diventato una giungla (immaginatevelo detto col tono di voce disperato di Malesani) ed un luogo di cinica, cinicissima speculazione. A rendere poi il quadro ancora più completo, qualche giorno fa, ecco il post di Zampaglione dei Tiromancino, molto efficace e molto chiaro nel disvelare tutta una serie di meccanismi che il grande pubblico ignora ma che per gli addetti al settore sono chiari (e percorribili…) già da tempo, per qualcuno con soddisfazione, per qualcuno con ignavia, per qualcuno obtorto collo. Ha avuto un successo enorme, questo post, siamo già a oltre 25.000 like, numeri da Instragram, che Facebook non vedeva più da chissà quanto: segno che ha colpito nel segno e ha titillato l’immaginario e l’indignazione di tanti.
Ma appunto: l’indignazione. Questo è il problema.
Se si titilla la fiammella dell’indignazione l’incendio divampa in un amen, parte con una fiammata altissima visibile a tutti, anche ai più distratti, ma si spegne poi troppo in fretta
Come mai proprio ora l’argomento è diventato così popolare? Perché la newsletter della Lucarelli e il post di Federico Zampaglione hanno funzionato così tanto?
Non certo perché dicano cose false – anzi, lo ripetiamo, onore al merito per aver diffuso una serie di aspetti che è sacrosanto diffondere, chi perché da anni interno al sistema e quindi informato dei fatti (Zampaglione) chi invece investigando giornalisticamente (Lucarelli); però, sinceramente, c’è qualcosa che non torna. C’è qualcosa che non torna nell’improvvisa passione e nell’indomabile afflato che ha conquistato impetuosamente l’opinione pubblica su questo argomento. Un tempo tutti commissari tecnici, oggi invece tutti promoter – o manager di artisti.
(Parlava di calcio, Malesani, o dei concerti estivi nelle arene e negli stadi? Continua sotto)
La Lucarelli questi meccanismi li conosce benissimo: c’ha costruito sopra una carriera (lo ripetiamo – col lavoro e con la costanza, in primis con questo). Però ecco, c’è un filo rosso che collega il suo gioire per aver messo le mani sui video intimi di Belen con molte delle sue battaglie: conosce perfettamente – forse anche solo a livello istintivo, non per disegno preciso – come colpire la “pancia” dell’opinione pubblica.
In questo, ha un sesto senso formidabile.
Full disclosure: chi vi scrive, questo sesto senso non ce l’ha. Zero.
Ve ne do una prova.
La storiella dei biglietti-a-10-euro era arrivata anche a me, da un paio di fonti; e questo più o meno due settimane prima che ne scrivesse la Lucarelli. Al di là del fatto che ringrazio sempre tanto il poter avere tanti contatti vogliosi di condividere questioni ed opinioni col sottoscritto, la faccenda mi era sembrata interessante sì, ma non così decisiva, o non così nuova.
Appunto: che da tempo fosse in atto una dinamica che gonfiava numeri e costi dell’industria del live e dei dj set lo dicevo e scrivevo da tempo, che questa industria stesse iniziando a scricchiolare lo denunciavo appunto più di settecento giorni fa. Quindi, che per Elodie o Luchè al Maradona di Napoli regalassero biglietti a 10 euro pur di riempire un po’ mi pareva una non-notizia, giusto l’ennesimo tassello di una cosa di cui già avevo scritto allo sfinimento (…e non ci lamentiamo, eh: alcuni di questi articoli hanno fatto numeri notevolissimi, in quanto a clic. No, non sono qua per recriminare. Zero).
Selvaggia Lucarelli ha invece un istinto migliore del mio, ed ha capito molto meglio di me il potenziale giornalistico-indignativo della cosa. Ha capito che spargendo prima di tutto la voce che c’erano in giro questi biglietti “regalati”, la lettura da dare alla cosa da parte della grande massa dei lettori non era “L’industria dei live ha sempre più problemi, ormai i mezzucci per tenere in piedi una dinamica speculativa si sprecano”, quanto invece “L’industria dei live ci truffa, ci fanno pagare a caro prezzo i biglietti interi e poi però quando le cose gli vanno male svendono tutto a due lire: e noi che abbiamo pagato o pagheremmo il prezzo del biglietto intero che siamo, scemi? Che stronzi, che schifo”.
Chiaro? Andiamo avanti.
Anche il post di Federico Zampaglione ha funzionato per la dinamica del “Che stronzi, che schifo”: in questo caso che schifo e che stronzi i proprietari delle grandi agenzie, che “ingannano” i poveri artisti, i quali si illudono di avere nei suddetti proprietari degli amici e dei risolviproblemi ma in realtà finiscono ingannati a fare da schiavi fino alla fine dei loro giorni. Quanto disgusto, quanto orrore, quanta indignazione da spendere immediatamente e da spendere forte contro questi magheggi.
Boh. L’indignazione con capro espiatorio annesso può essere utile; ma molto molto molto difficilmente può essere la vera chiave per risolvere un problema nel profondo. Per dare vita ad un cambiamento reale e strutturale. Molto, molto, molto difficilmente.
L’indignazione con capro espiatorio annesso può essere utile; ma molto molto molto difficilmente può essere la vera chiave per risolvere un problema nel profondo
Che poi, la newsletter/inchiesta della Lucarelli è in realtà giornalismo di ottima fattura, se uno si prende la briga di leggere tutto e/o apre il portafogli per farlo, sottoscrivendo l’abbonamento necessario (in quanti l’hanno fatto? Anche fra i vari commentatori sul web). Non c’è solo il richiamo populista all’indignazione, tutt’altro: c’è molta ciccia, c’è una descrizione – facendo anche i nomi, parlando ad esempio di promoter la confraternita costituita da Vivo, Friends&Partners e Magellano – molto precisa, ci sono numeri, ci sono esempi concreti. Si racconta come agli artisti spesso venga offerto, poniamo, un milione di euro in anticipo, anticipo che l’artista prende con gioia, da cui il management si prende la sua fetta (senza rischiare nulla: d’altro canto è stato il management a lavorare per far ottenere al proprio assistito questo anticipo), e che lo stesso promoter dà a cuor leggero in quanto si siede – o si sedeva – su una montagna di liquidità dopo i due anni di blocco per Covid (ricordiamo che il consorzio dei promoter più grandi riuscì ad ottenere del Governo una leggina che gli permetteva di tenersi in pancia i soldi delle prevendite durante la fase di stop, e la Lucarelli aggiunge come mediamente solo il 20% degli aventi diritti abbia chiesto poi rimborso per concerti definitivamente annullati: fate voi quanto c’hanno lucrato, senza muovere un dito, e quanta liquidità si sono ritrovati in pancia).
Risultato? Stando sempre all’esempio concreto e chiaro l’artista, che si è visto bonificare un milione di euro, e che erroneamente ha sottovalutato quanto quella cifra fosse un anticipo e non un contributo a fondo perduto, con quei soldi ha iniziato sì a costruirsi il suo tour e ad incidersi i suoi dischi ma anche a comprare cose per sé, così come ha pensato di avere risolto i suoi problemi finanziari per i prossimi dieci anni, sottovalutando il fatto che tra una cosa e l’altra per andare in pari – non per guadagnare, ma per andare in pari – doveva generare proventi pari a spanne al 150% della cifra anticipata. Non ci riesce? Qui, volendo, entra in campo il racconto del post di Federico Zampaglione, e la stessa Selvaggia Lucarelli è molto precisa nel descrivere quello che succede. Ve lo sintetizziamo qui: l’artista diventa schiavo di chi gli ha versato l’anticipo fino a quando non rientra dell’anticipo stesso, e peraltro il management dell’artista non può che certificare ed “incoraggiare” questa schiavitù (d’altro canto la sua stecca, dall’anticipo, se l’è già presa); il promoter si lecca le ferite dell’investimento inizialmente andato male ma sa che può estrarre valore dall’artista all’infinito, almeno fino ad aver coperto ciò che gli è dovuto per arrivare a pari all’anticipo: quindi, alla fine della fiera e sul lungo periodo, non può perdere, almeno sulla carta, almeno fatti salvi tracolli irrimediabili.
(Blanco il tracollo vero lo stava per avere sul serio, e non per un complotto dell’associazione sanremese dei fiorai; siamo contenti stia tornando piano piano a fare quello che sa fare meglio; continua sotto)
In tutto questo riassunto, il mondo più facile e più “di pancia” di guardare alle cose è sottolineare il cinismo dei promoter e delle case discografiche, la pusillanimità pelosa dei management. L’artista è una vittima ingenua, di suo; il pubblico è una vittima doppia, perché diventa un tacchino da spennare per recuperare sugli investimenti effettuati (biglietti sempre più cari, costi accessori sempre più brutali e stronzi, trucchetti sempre più sfacciati per marginare). I biglietti a 10 euro sono allora solo una laida cosmesi necessaria per tenere in piedi tutto questo teatrino, e questo giochetto dove alla lunga a guadagnare sono sempre i soliti, e pazienza per gli artisti che si fanno male e si “bruciano”, temporaneamente o per sempre, e per il pubblico che è l’anello debole ed ultimo di tutta questa catena quindi è proprio al vittima al cubo.
Potremmo chiudere la narrazione così.
Ma faremmo un errore.
In tutto questo giochetto le grandi case discografiche sono spettatrici interessate che conoscono benissimo il giro del fumo ma non fanno nulla per contrastarlo, perché in fondo tra grandi affaristi ci si intende: e pazienza se degli artisti in tutto questo finiscono stritolati
Potremmo chiudere la narrazione così, sì, e lo stanno effettivamente facendo in tanti; ma per quanto io onestamente faccia molta fatica a sopportare la politica industriale dei grandi promoter sul mercato italiano, a partire dalla sopracitate triade (che come racconta la Lucarelli pagano e strapagano gli artisti, con la sponda acquiescente dei loro management, pur di prendersi quasi tutto il mercato: dettando così le regole per tutti, soprtattutto per i più deboli, e diventando in ultima istanza – o almeno nei loro desideri – too big too fail), e per quanto in tutto questo giochetto le grandi case discografiche siano spettatrici interessate che conoscono benissimo il giro del fumo ma non fanno nulla per contrastarlo, perché in fondo tra grandi affaristi ci si intende, e pazienza se degli artisti in tutto questo finiscono stritolati, tanto dietro di loro c’è la coda, ecco, nonostante tutto questo, c’è un tassello che continua ad essere omesso in tutto questo quadro.
Anzi: per la precisione, i tasselli sono due.
Gli artisti stessi. E il pubblico.
Possibile che, ora che da qualche anno il meccanismo è ben noto agli addetti ai lavori, gli artisti facciano ancora troppo poco per non nutrire questo meccanismo malsano? Possibile che in troppo pochi dicano “No, non ci sto, in questa compagnia di giro non ci entro, voglio restare sostenibile, libero e indipendente”?
Ve lo siete mai chiesti?
Ci fanno schifo gli influencer. Ma non è che trattando i musicisti come tali, ovvero adottandoli e seguendoli solo quando ci comunicano successo, avremo un mondo migliore
Noi sì. E la risposta: è possibile. Ma la colpa di questo è (anche) del secondo tassello – il pubblico.
Mai come oggi abbiamo, come pubblico, potere di scelta, in tutti i sensi. Mai come oggi possiamo ascoltare tutto quello che ci pare a costo (quasi) zero; mai come oggi possiamo essere informati sui retroscena senza dover per forza essere degli addetti al settore; mai come oggi possiamo orientare con le nostre scelte consapevoli il mercato, visto che il mercato attuale è tutto basato su proiezioni ed investimenti, è tutto cioè finanziarizzato, è tutto una questione di “Investo oggi x per guadagnare entro tre o cinque anni y volte tanto”, quindi il grande conglomerato industriale della musica ha bisogno eccome degli spettatori, e sono gli spettatori che possono sancire in modo repentino e brutale la non riuscita di un investimento, proprio perché a furia di finanziarizzazione il fattore di rischio è cresciuto enormemente per chi vuole entrare nel “gioco dei grandi”, giochi in cui entri solo se metti un chip di capitale di rischio altissimo.
In tutto questo, cosa facciamo?
Invece di agire, ci lamentiamo.
Ci lamentiamo dei prezzi troppo alti dei biglietti: ma ad oggi quasi sempre i concerti coi biglietti più alti e costosi sono stati i primi ad andare sold out (e idem i biglietti divisi per settori: vanno via inizialmente quelli più prestigiosi, siamo sempre pronti a pagare di più per vedere, in teoria, meglio).
Ci lamentiamo di essere trattati troppo male negli stadi, negli ippodromi, nelle Fiere, perfino nei Carroponti: ma continuiamo ad andarci, non premiando invece manifestazioni minori organizzate in luoghi in tutto e per tutto molto più ospitali ed ameni.
Ci lamentiamo che il bar è un furto, che il parcheggio è un salasso, che i braccialetti o i token sono una truffa: ma quando un festival decide di abbandonare queste pratiche – Nameless, nella fattispecie, festival a cui tra l’altro uno dei “cattivi” di questa storia prima citati ha giurato morte, vedi tu le coincidenze – quanti articoli di giornale o anche solo quanto passaparola sul web avete visto su questa scelta? Quanto, eh? Ve lo diciamo noi: quasi zero.
Ci lamentiamo dei prezzi troppo alti dei biglietti: ma ad oggi quasi sempre i concerti coi biglietti più alti e costosi sono stati i primi ad andare sold out
Tutto questo, cari amici, care amiche, per un motivo ben preciso: in Italia continuiamo ad essere campioni su una cosa, preferiamo lamentarci, lo preferiamo sopra a qualsiasi altra cosa. In Italia lamentarsi è for men, mentre risolvere attivamente i problemi è for boys. Quando dovrebbe essere esattamente il contrario…
Gli artisti potrebbero costringere i loro management a trattare solo su cifre normali, e a scegliere solo realtà che conclamatamente, in questi anni, hanno dimostrato di non voler entrare nel gioco al massacro finanziarizzato. Oh se potrebbero. Ma non lo fanno. Non lo fa quasi nessuno. E la cosa più grave sapete qual è? Quei pochi che lo fanno – pensiamo ad esempio a Lo Stato Sociale – vengono fatti passare per perdenti, per falliti, per gente che è stata espulsa dal mercato perché non all’altezza e ora gioca solo a fare la volpa e l’uva, patetici. Una narrazione questa chiaramente incoraggiata dall’establishment industriale, ma pienamente accettata ed incoraggiata dagli appassionati e dal pubblico in generale, visto che entrambi ai propri artisti chiedono oggi di essere vincenti molto più che di essere onesti.
Ve ne siete accorti?
Un artista o un suo management che sceglie esplicitamente di scendere dalla giostra non è attorniato da ammirazione, in questo frangente storico, ma da compatimento.
Un artista che pretende che il suo concerto non costi più di dieci o quindici euro non viene visto come una persona nobile che non vuole che la musica live diventi un loisir da ricchi o wannabe ricchi, ma come uno sfigato rimasto – pure male – negli anni ’90, nel centro sociale.
Un artista che si rifiuta che un suo concerto, per quanto magari negli stadi, costi più di cinquanta euro, non viene visto come una persona consapevole, ma come un rompicazzo che non ha capito come va il mondo: se la gente è pronta a pagare sessanta, ottanta, cento, centoventi, duecento euro per un biglietto, perché non farlo, perché non metterli a questi prezzi? Perché ehi essere così scemi?
Un artista che pretende che il suo concerto non costi più di dieci o quindici euro non viene visto come una persona nobile che non vuole che la musica live diventi un loisir da ricchi o wannabe ricchi, ma come uno sfigato rimasto – pure male – negli anni ’90, nel centro sociale
Qui però va detto: se questa “gente” aka pubblico pagante aka clientela smettesse di pagare qualsiasi cifra per andare a concerti in cui a) si sente male b) l’artista sul palco è un puntino all’orizzonte indistinguibile c) il concerto lo vedi sui megaschermi a lato che è un po’ come guardare tutto in tv d) le imitazioni di decibel sono spesso ridicole, ecco, se la “gente” smettesse di pagare cifra altissime per una esperienza-concerto che è oggettivamente deficitaria rispetto a quella offerta in un live club almeno a livello di intensità sensoriale, se tutto questo accadesse, vedi un po’ come potrebbero iniziare a migliorare le cose.
Invece no.
Stiamo qua a lamentarci.
Stiamo qua ad indignarci.
Ma quello che potremmo fare per raddrizzare le storture e spuntare le unghie alle avidità, tolte rarissime eccezioni non lo stiamo facendo e tolti rarissimi giornalisti o artisti non lo stiamo scrivendo o discutendo sui social (se volete un’eccezione, ecco qua).
Curioso.
Ce la meritiamo, allora, Selvaggia Lucarelli. Che almeno fa bene il suo lavoro. Altri – nemmeno quello. Forse però siamo ancora in tempo. E diciamo questo pensando prima di tutto ai poveri cristi che lavorano, professionali ed incolpevoli, alla produzione dei concerti sovraprezzati, sovradimensionati, o alla realizzazione di eventi per brand: se la bolla esploderà, i primi ad andarci di mezzo saranno loro, non i veri colpevoli della situazione. Questi ultimi, troveranno sempre il modo per sfangarla. E gli artisti, beh, gli artisti potranno sempre dire che non si erano accorti di niente, che loro pensavano solo a suonare, che per questo cose ci sono i loro manager, lautamente remunerati, e loro hanno avuto solamente il torto e l’ingenuità di fidarsene.
Al tempo stesso chi oggi si lamenta di costi, strutture, ammassi stile carro bestiame, token, quant’altro, farebbe meglio a chiedersi: ma quanti concerti piccoli ed interessanti avrei potuto andare a vedere, pagando la stessa cifra e venendo trattato molto meglio, (ri)scoprendo magari il gusto di assistere all’inaspettato ed al talento forse emergente e non alla messa cantata son et lumière, dove invece si celebra solo quello che è già successo, nel doppio senso del termine?
Ci fanno schifo gli influencer. Ma non è che trattando i musicisti come tali, ovvero adottandoli e seguendoli solo quando ci comunicano successo, avremo un mondo migliore. Ma la china che da anni abbiamo preso, è questa. Nel mainstream come nell’indie.