Andiamo dritti al punto: è Amadeus che impone ai rapper di non fare hip hop e di fare invece solo melodiose canzoni con cassa dritta stile molto paracule, tra il pop senza vergogna e gli Eiffel 65, perché solo quelle sono le canzoni che sceglie in gara? O sono invece i rapper che si censurano ed addomesticano da soli?
Il mondo reale di suo manderebbe segnali non certo ostili verso il rap fatto a modo, vedi la vittoria di Geolier nella serata delle cover con una esibizione al 90% hip hop con Gué e Luché (e citazioni di Dr. Dre nelle parti musicali: chi le ha colte?). Segnali che tra l’altro lo stesso Amadeus non rifiuta o ignora sullo stesso palco dell’Ariston, visto che poi nei siparietti del sabato viene chiesto a Il Tre e Fred De Palma di ritirare fuori le loro radici da MC veri, non da melodici canterini. Radici che evidentemente piacciono, fanno “vero”, bucano lo schermo.
Epperò, in gara l’hip hop vero non ci va. In gara ci vanno canzoni che forse mai come quest’anno, considerando l’ultimo lustro (che già di suo non è stato granché), non si prendono rischi particolari. E il fare rap, il rappresentare la cultura hip hop in modo formalmente coerente, viene percepito come un “rischio”. Come mai? Artisti senza coraggio, senza (più) personalità? Forse il punto è un altro. E non riguarda solo la schietta rappusa.
Forse il punto sono in generale artisti che, con poche lodevoli eccezioni (tipo i Negramaro), ormai sembrano poter sbarcare a Sanremo solo se le case discografiche che li proteggono e li sostengono hanno confezionato attorno a loro una precisa gabbia di protezione fatta di testi e suoni opportunamente standardizzati e levigati e sviluppati da terzi, terzi che sono ormai i soliti noti (quante volte avete visto comparire Davide Petrella fra gli autori quest’anno?), perché ti spiegano che “…a Sanremo bisogna fare così, bisogna suonare così, affidati a quelli affidabili, ascolta a noi”. Meno male che alla fine vince il più bravo di tutti (il pezzo della Mango musicalmente parlando è in discreta parte farina del sacco di Dardust, anni luce il migliore nel creare congegni sanremesi ma buoni), anche se proprio il più bravo di tutti quest’anno a Sanremo ha fatto molto meno del solito, perché ormai non ne può più nemmeno lui: anche lui è stomacato da questo meccanismo. Sanremo è ostaggio di scelte estetiche preconfezionate suggerite/imposte dalle major più di quanto sia in realtà libero e vario. Punto.
Certo, meglio questo – che comunque è una dinamica standard del pop e del mainstream, quasi sempre molto attento ad essere safe pur nella contemporaneità – di quando Sanremo era diventato un goffo e sorpassato detrito buono solo come fenomeno di costume e balletto di grotteschi dinosauri o parìa: quel posto dove nomi inattuali ed incapaci di radunare più di 500 paganti a concerto venivano scongelati una volta all’anno, per poi tornare nell’oblio o nei mesi successivi in tristi concerti estivi gratuiti nelle piazze di paese, pagati dal locale assessorato che si guarda bene dal capire un cazzo di musica ma la televisione, signora mia, la televisione sì che la guarda, la televisione sì che conta.
Ma se l’industria musicale è tornat ad essere rilevanti negli ultimi quindici anni, riportando i bilanci in attivo dopo un lungo periodo di profondo rosso seguito al crollo dei profitti dalle vendite dei supporti discografici in favore dello streaming, è perché ha capito che non può e non deve controllare e standardizzare tutto lei. L’impetuoso successo del rap, della trap e dell’indie in Italia nell’ultimo decennio, certificato dai numeri e che ha portato soprattutto ad uno spettacolare ricambio generazionale (alleluja), è avvenuto perché le grandi case discografiche non hanno imposto all’alba dei progetti musici i loro diktat artistici e la loro voglia di standardizzare tutto secondo modelli predefiniti, ma sono intervenute solo in un secondo momento, per consolidare il successo, aumentarlo, affinarne l’eco e la monetizzazione. Il rap in Italia è esploso così. Imponendo le sue regole.
In tutto questo, il rap in questi anni che fa? La scena rappusa italiana che fa, nel momento in cui viene invitata, accolta, blandita, celebrata da Sanremo? Fa una grande truffa. Solo che pensando di farla al mondo (e a Sanremo), la fa invece a se stessa. Forse.
Potremmo col tempo dovuto e col dovuto sdegno
Rovinarci dandoci a un progetto indegno in segno di sostegno
Verso chi sfrutta al momento l’evento
Eventualmente mettendoci zero impegno
Ignorando i processi dei testi stessi
Azzerando i riflessi
Vestendo classic
Vendendo noi stessi
Cazzo quanto era stato profetico un allora giovanissimo Fabri Fibra – parliamo dell’anno 2000 – aprendo con le sue strofe l’album “La grande truffa del rap” di Gente Guasta (aka gli Otierre dopo la trasformazione blunt-cattivista di Esa). Con due decenni d’anticipo, ha previsto esattamente come si sarebbe declinata una conquista in quel periodo storico allora inimmaginabile, cioè dei rapper che finiscono con tutti gli onori in gara a Sanremo.
E se l’abito fa il monaco, i vestiti da sera di BigMama o il completo da diciottesimo di Geolier – un tentativo di agganciarsi al “vestire classic” come presagiva Fibra e un chiaro segno di sottomissione ai propri stylist, disciplina in cui Ghali è diventato campione olimpico – raccontano molto, se non tutto. Il resto che c’è da raccontare la fa il ricorso alla cassa dritta da calcinculo al luna park, alla disco paracula, al cantato melodioso. Si può veramente dire che l’hip hop in Italia ha vinto, perché è passato da pochi nerd fissati e dagli scantinati all’essere invitato d’onore nella massima kermesse nazionalpopolare italiana, se alla suddetta kermesse ci arriva snaturando se stesso?
Chi sia il colpevole di tutto questo, è forse ancora da capire. Certo, gli artisti hip hop e i loro team dimostrano di essere poco coraggiosi, perché si appecorano ai voleri delle major che li adottano, accettandone i diktat, i suggerimenti, gli autori di fiducia (Geolier, ma davvero ti serve tutta quella gente per fare una canzone, col talento che hai?), le quali a loro volta seguono da anni ormai gli stessi standard, per paura di spezzare quel “momento magico” che dura da un decennio e che ha permesso loro di tornare a macinare utili e, tra l’altro, di inglobare pure Sanremo fra i boost possibili di progetti anche contemporanei e usabili ovunque, non più solo cioè per le vecchia cariatidi sanremiche in catalogo. Gli artisti danno alle major quello che vogliono le major (la fiducia incondizionata), le major danno a Sanremo quello che vuole a Sanremo (qualcosa che faccia notizia ma non sia realmente di rottura e rivoluzionario).
I rapper e i loro team credono di essere furbi: il ragionamento è “Accetto di giocare alle regole del gioco, così divento ancora più ricco e famoso: sono io a sfruttare Sanremo, e non viceversa”. Boh, sarà anche così. Però il sospetto è che invece sia un lento e silenzioso dilapidare un capitale di credibilità, che oggi sembra un buon affare ma tra qualche anno potrebbe rivalersi una fregatura notevole per chi ha accettato questo patto faustiano. Solo il tempo saprà giudicare. Magari invece questo “furto con destrezza” è un buon affare davvero, chi lo sa, e tutti i rapper e i rispettivi team che vi si sono cimentati lucreranno di più in diritti d’autore mantenendo comunque inalterato il loro carisma tremendista, quel carisma che solo la contiguità con l’hip hop riesce a dare (…o il rovinarsi come Grignani: ma quello non lo auguriamo a nessuno).
Qualche dubbio però ce l’abbiamo.
Però è anche vero che Fred De Palma ha abbandonato il rap ed è felice, Rkomi ha abbandonato il rap per fare Vasco 2.0 ed è felice, Il Tre ha abbandonato il rap (peccato, era bravo) e pare contento, Lazza ha fatto “Cenere” ed ha trionfato, Geolier si è inventato di fare una versione vesuviana di “Cenere” e se l’è giocata inappuntabilmente bene, Dargen non pare a disagio nella sua cassa-dritta-zumpappà-con-testo-intelligente (ma Dargen è troppo curioso ed ironico per essere a disagio da qualsiasi parte), Ghali è andato a braccetto coi Big Mac e gestori telefonici quindi figurati se gli poteva mancare e se lo poteva irretire Sanremo, giusto per fare i primi esempi che ci vengono in mente. Alla fine quel che conta è essere sereni con se stessi, e se questi artisti lo sono – molto bene. Forse perfino Achille Lauro continua ad esserlo, nonostante le batoste post “Rolls Royce”. Basta però che non si venga (e non ci vengano) a raccontare che “…ha vinto l’hip hop”. Quello, per favore, no. L’hip hop lo vincono i sold out epocali del Marrageddon o i 64 Bars, lo vincono le carriere alla Noyz e forse perfino quelle alla Dogo (il loro swag in fondo è profondamente hip hop), ma non lo vincono di certo le furbizie facili per farsi accogliere nel miglior modo possibile nel salotto buono del nazionalpopolare.
Su questo, davvero, niente scherzi.