Quindici anni fa avevamo visto il futuro. Quindici anni fa, esattamente oggi, usciva “Kid A” dei Radiohead. Un disco incredibile. Soprattutto, un disco incredibile ascoltato ancora adesso: dote piuttosto rara nel mondo della musica pop-rock, dove tutto invecchia pesantemente, a partire dai Beatles e dai Rolling Stones (senza voler loro nulla togliere) ma anche le pietre miliari Underground Resistance (idem). Era futuristico e visionario e con dei suoni incredibili quando era uscito, è futuristico e visionario e con dei suoni incredibili oggi. Davvero, non ci viene in mente nemmeno un disco, di quelli dalla personalità così “progressista” rispetto ai propri tempi di nascita, che nell’arco di quindici anni sia invecchiato così bene, anzi, non sia invecchiato affatto. E’ quasi inquietante.
Ma tutto è inquietante e radicale, in “Kid A”. Fu radicale la strategia promozionale: nessun singolo, e all’epoca era una bestemmia; nessun video, solo dei frammenti sparsi in giro: e all’epoca era ancora di più una bestemmia, eravamo ancora nel periodo di strapotere di MTV; poche e selezionate interviste, e non eravamo in una fase in cui internet era dominio di tutti e una cosa uscita su Fact o RA o Pitchfork o Quelchevoletevoi era in pochi secondi in circolazione per mezzo mondo. I più scettici, stronzi o malfidenti dicevano all’epoca: “E’ un suicidio, questi si vogliono suicidare, sono andati via di testa”. E lo dicevano senza ancora aver sentito il disco.
Già. Parliamone. E parliamone soprattutto nel mondo della musica elettronica, la nostra, dove in tanti, tantissimi, probabilmente troppi sono troppo attenti al “brand di se stessi” (ne parlavamo giusto qui, qualche giorno fa) e quindi difficilmente arrivano a stravolgere il proprio suono. Sì: ascoltando “Kid A” ti rendi conto, fra le altre cose, che forse il mondo dell’elettronica più o meno da dancefloor è paradossalmente diventato uno dei più conservatori, più avari di soprese (non avari di qualità, perché quella continua ad esserci e in certi momenti anche in vette eccezionali, ma le sorprese? Dove stanno le sorprese, onestamente? Dove sta il “Oddio, da lui/lei/loro non mi sarei mai aspettato una cosa così”?).
I Radiohead erano il gruppo delle canzoni rock-alternative-con-chitarra: concept che avevano allungato fino all’estremo con “Ok Computer”, album uscito tre anni prima e baciato da un enorme successo generazionale e commerciale, soprattutto album che sembrava già ai confini estremi della sperimentazione e della particolarità. Lo era, a questi confini; ma limitatamente al proprio genere d’appartenenza, limitatamente a quel microcosmo dove comunque tra “Creep” e “Paranoid Android” c’era una chiara ed indiscutibile linea di continuità e contiguità, per quanto le due fossero molto diverse per struttura, ideazione ed esecuzione. “Kid A”, invece, fu… sbam. Un trauma. Un abbattere senza nessuna pietà e senza nessuna remora ciò che era la propria identità sonora costruita negli anni. In modo radicale. Via le chitarre, quasi ovunque; via le architravi strofa-ritornello-strofa; spazio libero alle influenze più disparate, dal jazz di Charles Mingus nella sua versione più schizoide alla musica colta contemporanea di Penderecki e Messiaen, fino ad arrivare in pieno Aphex Twin (oggi che gli steccati sono belli che abbattuti non ci si trova nulla di strano, ma all’epoca il dialogo fra indie rock braindance era prossimo allo zero) coi pattern ritmici modulari di “Idiotheque”.
Non che oggi manchino le citazioni più disparate, nei dischi. Né che mancassero in passato. Ma nessuno, né oggi né ieri, vi si è tuffato così a corpo morto da un lato e con così grande competenza dall’altro: i Radiohead non citavano, no, si buttavano bensì senza rete di sicurezza in altri mondi musicali… Ma nel farlo, attenzione!, si preoccupavano di studiarli a fondo, di esserne competenti al 100% e non soltanto orecchianti&simpatizzanti, dote ahimé rimasta più unica che rara.
Certo, non piacque a tutti, “Kid A”. Freddo. Presuntuoso. Incomprensibile. Troppo cerebrale. Aggettivi del genere se ne videro volare molti in giro, fra le recensioni ufficiali e fra le discussioni fra fan e semplici appassionati. Saremo di parte, ma ci piace pensare che queste constatazioni/critiche nascevano più dalla sorpresa (o delusione) di essersi trovati di fronte a qualcosa di completamente inaspettato. Riascoltatelo, il disco: ha un calore, una drammatica sincerità, un’accorata disperazione che fanno quasi male, sotto la patina elegante dei suoni e delle sperimentazioni. Ce l’aveva anche allora. Solo che erano in tanti ad essere sconcertati da un disco così destrutturato, apparentemente destrutturato.
Non piacque a tutti, “Kid A”. Freddo. Presuntuoso. Incomprensibile. Troppo cerebrale. Aggettivi del genere se ne videro volare molti in giro
Già: apparentemente. Perché un’altra cosa che “Kid A” metteva in campo – eredità anche di certi anni ’70, ma non solo – era una coerenza narrativa come album che era molto forte, per quanto mossa e frastagliata. E’ un disco che va ascoltato dal primo all’ultimo secondo, racconta una storia, i brani presi singolarmente restano sì belli ma perdono qualcosa della loro forza e del loro fascino. Non è una raccolta di figurine slegate fra loro, per quanto belle e fatte benissimo; è uno sforzo molto maggiore, è un “concept” senza avere la prosopopea del prog rock (quella che ad un certo punto aveva talmente rotto i coglioni da pavimentare la strada alla rivoluzione punk). Oggi, chi ha il coraggio di fare lavori del genere? Pochi, molto pochi.
E nell’elettronica, maledizione, ancora meno. Viene allora da dire: non era proprio l’elettronica la terra delle nuove frontiere sonore e, quindi, del maggiore coraggio? Non era l’elettronica il luogo dove andare al di là delle liturgie da singolo-in-classifica, star system, singolo di successo per vendere e vendersi di più? Qualora foste troppo giovani per saperlo e ricordarvelo: beh, lo era. Anche quando finivano a Top Of The Pops, gli eroi di house e techno fine anni ’80 e fine ani ’90 erano alieni, facevano qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quello che succedeva in giro. Oggi, potremmo dire altrettanto? E non solo per il carrozzone EDM, sia chiaro. Potremmo fare la stessa critica anche ai più grandi santoni della techno e house “intelligente” per cui, e ne siamo fieri, comunque parteggiamo e continueremo a parteggiare.
Quindici anni fa, con “Kid A”, vedevamo il futuro. Vedevamo il piglio iconoclasta dell’elettronica mescolarsi con l’intensità emotiva del rock e con la cultura sconfinata e sfaccetata del jazz e della classica, intese come macrogalassie e non (solo) come generi musicali specifici. Vedevamo il futuro, e pensavamo che anni meravigliosi stessero per arrivare in musica. Meravigliosi, sconvolgenti.
Bene: niente di tutto questo. Sono arrivati anni belli. Ma altri “Kid A” non ce ne sono stati. Manco per i Radiohead: buoni dischi dopo di esso, alcuni veramente molto buoni, ma nulla di così radicale e visionario rispetto a se stessi. E nell’elettronica, non ne parliamo: il rock si è rinnovato e contaminato, negli ultimi quindici anni, mediamente molto di più di quanto lo abbia fatto la generazione di artisti che creano musica partendo da un software. Per anni è stato odioso l’apartheid del rock nei confronti dell’elettronica (con la bizzarra eccezione di quei tossici di Madchester e di qualche emulo londinese, almeno finché è durato l’effetto benefico della prima mdma), poi però rotto il ghiaccio c’è stato un vivo interesse e una voglia di confrontarsi, sia che si tratti dei più evidenti sviluppi sotto il marchio “indietronico” (se ne parlava molto, nei primi anni 2000) sia che fosse uno sviluppo dei confini dell’indie rock più canonico. Ma l’elettronica? Quanto ha guardato a “Kid A”? Quanto ha imparato? Quanto si è giovato di un disco che nasceva proprio dalla voglia iconoclasta che, due decenni prima, animava i creatori originari della techno?
Quindici anni fa vedevamo il futuro. Quello che speravamo fosse il futuro, anche e soprattutto per noi fan dell’elettronica, dei dancefloor; speravamo fosse l’inizio di una nuova era di apertura mentale, di commistioni, ma anche di grande consapevolezza (anche nel mettersi in gioco), di grande cultura, di abbandono dei monoteismi musicali. Quindici anni fa. Oggi?