La tentazione sarebbe forte. La tentazione di dire che “Un altro festival è possibile!”, che si può costruire una line up senza essere schiavi delle mode e delle agenzie, che il boutique festival è un format perfetto per il territorio italiano (vista la sua bellezza e la sua conformazione), che la vera esperienza ce l’hai nei festival piccoli e non nei mega-contenitori… Queste cose, tutte queste cose qui… Sì, la retorica è lì che ti chiama, ti invoca: e tu potresti abbandonarti. Lucrandoci anche qualche like e qualche condivisione in più, massì. Retorica e populismo ed entusiasmi inconsulti e fuori scala infatti pagano: anche nei micro-contesti come il nostro, quello del clubbing, della musica di un certo tipo, di eventi di un certo tipo.
Pagano, sì. Sul breve periodo. Sulla superficie.
Allora. Se è vero che questa del 2024 per Jazz:Re:Found è stata una edizione incredibile, in cui tutto è andato perfettamente al suo posto e la magia si è profusa a piene mani regalando a tutti una esperienza di livello semplicemente eccezionale, bisogna tuttavia stare molto, molto attenti nell’analizzare i motivi di tutto ciò: da dove nascono, questi motivi, e quanto sono replicabili, dove sono replicabili. Sarebbe facile infatti collegare tutto al coraggio (indubbio: lo sottolineavamo pure noi) delle scelte effettuate quest’anno, in cui il festival diretto da Denis Longhi ha scelto come non mai in passato di essere se stesso e di fidarsi dei suoi gusti e delle sue sensibilità senza compromessi, sfidando il pubblico mettendo il sabato sera sul Main Stage, quindi nel posto clou il giorno clou!, degli act virtualmente sconosciuti per il pubblico italiano come la jam band generata dalle serate londinese dell’Orii Collective (semplicemente strepitosa, un impatto jazz-funk-soul devastante per potenza e capacità di coinvolgimento) o l’intrigante Grove.
(La sacerdotessa che celebrava la Orii Jam; continua sotto)
Poi, parlando sempre di headliner: ci vuole fegato per scommettere tanto ma proprio tanto (in primis economicamente…) sugli australiani Glass Beams – il cui potenziale in Italia era ancora inesplorato – ma anche per mettere sul trono il grande Mulatu Astatke (leggendario, ma pur sempre un nome per amatori&conoscitori) e l’ondivaga Greentea Peng, così come per riciclare Fink (ingiustamente dimenticato, dopo il grande innamoramento collettivo di una quindicina d’anni fa).
(Greentea Peng; continua sotto)
Detta come va detta, facendo esercizio di sincerità analitica: una simile batteria di headliner in qualsiasi altro festival d’Italia avrebbe radunato magari tante lodi da chi ne sa, ok, ma tante tante cifre in rosso, con un meno davanti nei bilanci finali; e soprattutto, avrebbe radunato una cornice di pubblico bella, poetica ed eroica, quello che volete, ma di per sé non esaltante come quantità. Jazz:Re:Found è un luogo molto particolare dove queste regole e queste dinamiche vengono sovvertite: certe cose funzionano, attraggono, seducono, creano nuovi proseliti. Capire come mai questa accada è un esercizio utile; ed è, in realtà, anche un buon modo per approcciarsi bene ad una recensione del festival che sia un minimo ragionata, e non solo entusiasta e compilativa.
E sì che appunto di entusiasmo e basta lo potremmo riempire questo articolo, fermandoci lì: perché è stato davvero tutto ad un livello altissimo. Non c’è un singolo act che abbia deluso, semmai ce ne sono stati molti che hanno dato molto più di quello che si pensava ed hanno perciò offerto delle proposte artistiche di livello semplicemente eccelso. Orii Jam già citati; Glass Beams approfondiamo dicendo che dal vivo sono ancora più intensi e stilosi che su disco (e si colgono ancora meglio le nervature della loro scrittura, che li portano ad essere dei Chemical Brothers riarrangiati dai Can, rallentati e trasportati in una fumeria d’oppio anni ’70); Greentea Peng ha un grande potenziale ed un’ottima band, deve giusto imparare a focalizzarsi e concentrarsi di più sull’intensità vocale. Mulatu Astatke con la sua orchestra ha fatto un concerto bellissimo, Fink con l’aiuto invece solo di un batterista idem. Teniamo per ultimi gli Ezra Collective, che hanno semplicemente ribaltato tutto a chiusura festival: si conferma che dal vivo sono un’altra cosa, salgono di spessore in modo esponenziale rispetto all’esperienza su disco o su streaming, sono davvero capaci di donare una esperienza live da ricordare.
(I Glass Beams live sono una esperienza carnale, mistica, psichedelica; continua sotto)
E se spostiamo il focus sull’altro palco dedicato ai live, l’Ecomuseo, l’entusiasmo non cala, anzi. Obbligatorio partire da Rosa Brunello, che ha dimostrato una affilatissima visione musicale e un grande maturità da band leader, circondandosi di fuoriclasse come Yazz Ahmed al filicorno ed altro (che brava!), Maurice Louca ad elettronica e ricami (che prezioso!), Marco Frattini alla batteria e percussioni (che inventivo e dinamico!): lei non si è mai messa troppo in primo piano col suo basso o col contrabbasso, ma ha guidato con una consapevolezza ed efficacia ammirevole il suo live set portandolo verso un perfetto equilibrio tra poesia, jazz e funk. Subito dopo, nella nostra graduatoria ideale di entusiasmi sponda Ecomuseo, ecco tutto quello che gira attorno a Malasartoria: la “backing band” italiana per eccellenza ha raggiunto dei livelli notevolissimi, l’interazione tra Luca Javier Bologna al basso e Veezo alle tastiere ha raggiunto vette quasi inquietanti per perfezione, e sia che fossero chiamati a set in solitaria (Veezo) sia che venissero prestati a progetti non loro (Barton Think) sia che si divertissero a coverizzare (gli Azymuth rifatti da loro sono meglio degli Azymuth originali, in più di un passaggio) non hanno mancato un colpo. Gli resta solo fare finalmente loro un disco, con le loro idee, azzeccando i brani giusti, senza essere più al-servizio-di ma facendosi finalmente buoni Sarti di se stessi. Speriamo lo facciano presto, perché sono un concentrato di talento e di sapienza musicale come pochi – anzi, come quasi nessuno – qui in Italia.
(Il leggendario Mulatu Astatke; continua sotto)
Parlando poi sempre di Ecomuseo bene Bassolino (strumentista super, davvero ottimo compositore, ci piacerebbe magari vederlo tornare su traiettorie più moderniste ma anche questa fase “vintage” non ne oscura il valore), benissimo Bassi Maestro / North Of Loreto (durante il suo dj set addirittura si è dovuto bloccare l’ingresso all’area per troppa affluenza), sempre affascinante il progetto Ant Mill, infine last but not least voilà Corto.Alto, il polustrumentista scozzese che ora in realtà gira in trio – e che trio, mamma mia che bravi – ed è fresco fresco di una nomination al Mercury Prize che, come abbiamo potuto constatare, è meritatissima; deve solo imparare a essere meno indulgente col suo talento e la sua intelligenza da musicista, andando più “di cuore” e meno “di cervello”. Se lo fa, abbiamo di fronte un vero e proprio campione per gli anni a venire.
La collinetta di San Quirico, spostandoci di posizione nella mappa del festival, era il posto delle maratone. E che maratone. Se è “prevedibile” per lunghezza quella di Mr. Scruff, che ama notoriamente i set di cinque, sei ore e nemmeno a ‘sto giro ha deluso, sorprendente vedere all’opera per sei ore e passa Gilles Peterson, solitamente più parco, ed invece a JZ:RF 2024 divertito ed ispirato come non mai. Il suo set entrerà nella storia del festival, chi c’era lo sa. Non ce n’è comunque uno che abbia suonato male, che non abbia lasciato il segno, in collinetta: Handsome Family e Vanessa Freeman ormai sono parte dello staff del festival, per meriti e buona vibra, Pedro Ricardo è stato assurdo e scoppiettante (con intricata e sfrontata naturalezza), Raffaele Costantino sempre una garanzia di qualità; ma anche chi apriva le giornate sotto il sole di mezzogiorno (Passenger, Angie Back To Mono, Cristian Bevilacqua…) settava sempre l’atmosfera giusta, con gli altri poi ad affondare alla grande il colpo (bello il set dell’ax Attica Blues Charlie Dark, ad esempio).
(Il set di Gilles Peterson a JZ:RF 2024 è già leggenda; continua sotto)
Le vibrazioni irradiate da San Quirico sono in qualche modo arrivate fino al Dancing, in fondo in fondo rispetto all’area del Main State: Ralf ha suonato benissimo davanti ad un dancefloor in delirio e, considerato che era mercoledì sera, pure incredibilmente pieno di gente, mentre Azula Bandit ha chiuso il sabato sera con un delirio twerkoso ed adrenalinico per nulla fuori posto (anzi: efficacissimo), mentre dall’altra parte in collinetta Sadar Bahar dispensava classe. Restano da nominare due act fra le cose che più ci porteremo dietro di quest’anno, entrambi sul Main Stage per quanto fossero dj set: l’assolutamente fenomenale Dj Koco, che ha reso le routine da turntablism un’avventura gioiosa e strepitosa per tutti e non una masturbazione da iniziati, e Goldie sempre carismatico, anche se certe volte la direzione armonica che intraprendeva era un misto fra “Che bello” e “Oddio, ma che sta facendo?”.
(Frammenti dal delirio Azula Bandit; continua sotto)
Ma torniamo al punto.
Perché Jazz:Re:Found funziona così bene? E perché bisogna stare molto attenti ad imitarlo, pensando che se la formula che adotta è vincente allora può anche essere esportabile altrove? Il punto è che JZ:RF ha alle spalle ormai una esperienza più che decennale, in cui ha fatto una serie di cose. Uno: ha tenuto la barra dritta, e se negli anni si è concesso qualche divagazione (ad esempio, ancora controversa l’edizione di Dardust) in realtà lo ha fatto per “parlare” a persone che non avrebbe altresì raggiunto e che, una volta lì, hanno capito quanto forte e marcata sia l’identità e la storia del festival. Due: c’è una grandissima professionalità dietro. Ripetiamo il punto numero due: c’è una grandissima professionalità dietro. Sì, il senso di famiglia (che c’è), l’approccio artigianale e non corporate (che c’è), la comunità di appassionati che è felicemente nicchia (che c’è); sì tutte queste cose, evviva evviva, ma fra gli intangibles che rendono grande, rispettato e soprattutto solido un festival c’è una compagine tecnica sui palchi inappuntabile e di grande esperienza, c’è uno staff micro-manageriale preparatissimo e sempre presente col sorriso, ci sono volontari motivati, ci sono infine direzioni artistiche che hanno imparato a fidarsi sì della propria passione ma unendola sempre alla competenza su leggi di mercato, su bandi di finanziamento, su rapporti con le istituzioni e le comunità locali.
(Ezra Collective, presa bene epocale in chiusura di festival; continua sotto)
Se gli artisti si esibiscono al loro meglio e quindi loro per primi propagano la buona vibrazione tra i presenti, è perché ci sono (e sono molto curati) tutti questi aspetti legati, appunto, alla “poco poetica” professionalità, quella che spesso si pensa non serva negli eventi boutique, negli eventi di “qualità” dal punto di vista musicale. In una fase in cui, come abbiamo ripetuto più volte, i festival “belli” in Italia sono incredibilmente tanti ed è quasi preoccupante che questa fioritura sia prosperata proprio quando ci sono invece in giro le condizioni di mercato più difficili e bastarde per chi fa impresa nel campo della musica live, mettere l’accento non solo sul “bello” (leggi: la qualità della musica, la bellezza dei luoghi) ma anche sulla “professionalità” è più importante che mai. Il rischio infatti è che uno pensi che basta avere la passione e la “direzione” dal punto di vista artistico, e magari anche una location suggestiva in pugno, come le ha Jazz:Re:Found, e voilà, le cose non possono andare che bene. Beh: balle. Purtroppo, balle.
Jazz:Re:Found 2024 è stato bellissimo, e ha retto anche bene l’allungarsi a ben cinque giorni della settimana come durata complessiva. Cella Monte è sempre magica, come abbiamo raccontato più volte presentando le ultime edizioni del festival. Ok. Ma non pensiate sia facile farlo e/o rifarlo; e non pensiate sia facile farlo e/o rifarlo altrove, cambiando qualche nome, buttandosi sulla blackness o, al contrario, sostituendola col “dancefloor intelligente” o la sperimentazione unsoundesca o con quello di bello che volete voi. Non è facile per nulla. Ci vuole spessore, esperienza, capacità, senso della precisione e del dovere. Non è un diletto, fare festival. Non è roba per dilettanti.
Don’t try this at (your) home insomma, se non prendete la cosa molto sul serio, e se non siete pronti a mangiare sudore, lacrime, dubbi ansia e fatica: perché la felicità contagiosa dell’evento “atipico” pienamente e meravigliosamente riuscito, come appunto JZ:RF anno 2024, passa (anche) da loro. E dalla fortuna: se invece di giornate meteorologicamente splendide i cinque giorni del festival fossero stati di pioggia e temporali, come ad esempio è stato quest’estate a giugno, forse questa recensione sarebbe stata diversa.