A volte sembra veramente che nulla avvenga per caso. Sembra proprio che quando qualcosa viene fatta bene, fatta bene per anni, per ben 25 anni, allora tutto il contesto, tutto il contorno migliori, sia come conseguenza sia quasi per celebrazione. Dopo anni di pioggia, fanghiglia, diluvi, oceani di melma, venti freddi, schiarite, improvvise comparse di sole e nuovamente pioggia e scarpe strappate dal fango a Dour torna a splendere, anzi, a bruciare il sole. Neanche a farlo apposta proprio quest’anno eravamo armati fino ai denti fra kway, stivali, pantaloni lunghi, felpe e scarponi da guerra, ma poche ore prima della partenza ci siamo decisi ad alleggerire il carico per tornare ad un equipaggiamento più estivo. Mai decisione fu più oculata: quest’anno al Dour facevano 38 gradi… all’ombra! Ci siamo mossi esattamente come vi abbiamo raccontato nella review dell’anno scorso, stessi voli, stessi orari, stesse stazioni ferroviarie, stesse scarpinate per fare la spesa, equivalenti travasi di alcolici in bottiglie di plastica, stessa organizzazione impeccabile da parte dello staff del festival. Abbiamo deciso però di tornare alle origini, di rivivere il Dour esattamente come chiunque altro, di abbandonare le zone pro e vip e perderci fra i 4 campeggi aperti al pubblico. Dopo un’interminabile (e decisamente stressante) camminata sotto il sole fra un oceano di persone in transito per arraffarsi le ultime piazzole disponibili, riusciamo finalmente, fra imprecazioni di ogni genere, a conquistare la nostra postazione. Perfetta: a due passi da bagni, docce, lavandini e soprattutto dal bar! Non eravamo ancora entrati nel vero e proprio spazio del festival, ma già muovendoci fra i 4 campeggi realizzavamo sempre più che mai ci eravamo trovati davanti ad una tale orda di tende. Scopriamo solo al rientro che ancor prima dell’inizio effettivo del festival erano presenti ben 40.000 campeggiatori pronti ad invadere i marquee. I venti minuti di camminata che ci dividevano dalla festa ci hanno costretto a seguire una routine ben più razionale degli scorsi anni: si dorme fino alle 13 (afa permettendo, e non permetteva quasi mai), si mangia, si cazzeggia, si dorme nuovamente fino alla cosiddetta “sveglia bobby” (il bar di fronte a noi, impeccabile, ogni giorni alle 17 diffondeva il Best Of di Bob Marley per tutto il campeggio), preparazione panini e sostentamenti alcolici, scarpinata fino al festival site e tutta una tirata fino alle 6 di mattina fra i sette palchi del Dour. Ovviamente molti i contrattempi, ma pressapoco è stato così per 4 giorni.
L’altr’anno vi avevamo parlato metaforicamente del Dour come un “balcone con splendida vista sul panorama musicale europeo”, balcone che ci aveva lasciati in generale molto critici nei confronti del momento musicale (ma non del festival in sé) e allo stesso tempo speranzosi nei confronti della vista che ci sarebbe stata offerta dall’edizione di quest’anno. Ebbene, sarà per il tempo splendido, sarà per la gioia diffusa fra i festivaler nel celebrare questi 25 anni di festival, sarà (e lo è stato senza dubbio) per l’alto livello della selezione musicale coniugata con spostamenti più agevoli fra un palco e l’altro, ma questo benedetto balcone quest’anno ci ha lasciato estasiati. Spazzato via in buona parte l’indie insulso dello scorso anno e le performance fatte di apparenza e poca sostanza, torna alla ribalta la buona musica, di ogni genere. Quest’anno è tornato il Dour che ci ha fatto innamorare, che ci ha rapiti tempo fa: quello che è in grado di colpirti tanto con il rock quanto con la techno, la reggae, la d’n’b, l’hip-hop, la blacore, l’acid jazz, il trip hop o la sperimentazione. Molto buono il live dei The Skints con i quali abbiamo dato il via alle danze; decisamente interessante il collettivo Fauve, di cui ci siamo incuriositi grazie alle parole di Alex Stevens (Music Programmer e Communications Manager del Dour) nella nostra intervista pre-festival; non male Cashmere Cat, per una ventina di minuti; senza dubbio divertente, e a tratti anche interessante, il live schizzofrenico di Otto Von Schirach; Shed dopo una prima mezz’ora di riscaldamento ci ha dato quello che ci aspettavamo, il meglio di sé. E ancora, ottimi i live di Gramatik, Wax Tailor, Wu-Tan Clan, Superpoze, Karenn, Dan Deacon (capacissimi sia tecnicamente che dal punto di vista della presa sul pubblico), Hellfish, Flume, Oddisee, Mark Lenegan Band e di molti, molti altri. Certo, qualche delusione sparsa c’è stata, primo fra tutti Nathan Fake che non si sa bene per quale motivo abbia deciso di scadere nelle più scontate tra le casse dritte. Anche Len Faki ci ha lasciato un po’ a bocca asciutta in quanto decisamente poco vigoroso. Per i Booka Shade non si può parlare di delusione perché il loro lavoro live lo fanno e lo conosciamo, sono bravini, ma non hanno presa, quindi rimango della mia: decisamente meglio goderseli a casa. Infine, nell’ottimo livello generale del festival, ci sono state alcune, e neanche poche, punte di diamante. Primi fra tutti 4 live, ciascuno caratterizzato da grandi capacità tecniche miste in ogni caso particolare a differenti elementi quali ottime trovate scenografiche, grande presenza scenica, capacità di coinvolgere il pubblico, genialità, follia e irruenza di basse, bassissime frequenze (che mandano in estasi chi sta scrivendo). Stiamo parlando di Flying Lotus, Venetian Snares, Jackson & His Computer Band e The Herbaliser, che ci hanno regalato lacrime di gioia e brividi di piacevolezza in svariati momenti della loro performance.
Leggendo la review della passata edizione mi sono reso conto che in realtà, per ciò che concerne il festival, la sua organizzazione e la sua anima, non c’è molto da aggiungere… il fatto è semplice: se una cosa funziona alla grande, perché cambiarla? Il Dour sa esattamente cosa fare e sa molto bene anche come farlo! Logisticamente parlando sono impeccabili: sanno che non si risparmia in bagni chimici, tant’è che mai si crea una fila di più di 3/5 minuti per andare in bagno; code moderate per convertire il cash in festival tokens (che tanto odiavo e che invece ho imparato ad apprezzare); posizioni dei bar ottimamente pensate, così come quelle dell’info point e delle zone ristoro. Direte “vabbè grazie, ci mancherebbe!”, e invece neanche per niente, ce ne sono svariati di festival, ben più noti del Dour, che fanno errori madornali a tal riguardo. E la spiegazione di una minore affluenza non regge, per il semplice fatto che quest’anno l’organizzazione ha conquistato un nuovo impressionante record: 183.000 persone hanno varcato l’entrata con la scritta al neon “Dour”. Centottantatre mila persone sono circa quindicimila in più rispetto all’anno scorso e non sono uno scherzo da gestire! Tanto per dirne una, quest’anno lo stage “Red Bull Elektropedia Balzaal”, cioè il marquee noto per il caldo micidiale e l’alto numero di “morti e feriti” che si abbandonano al suolo circostante, è stato ampliato con una vasta zona open air arricchita da ben quattro maxi schermi. Inoltre è stato dato maggior spazio al “Bar Du Petit Bois”, il Bar che in “pochi” conoscono poiché sempre e volutamente nascosto fra gli alberi, in modo tale da conservare la nomea di zona di pace, cosa che è realmente in alcuni momenti della giornata; particolarità del Bar Du Petit sono anche le nuove ed ottime birre belghe che hanno veramente pochi rivali e che vengono proposte a sostituzione della Jupiler, uno dei main sponsor del festival. Per non parlare poi della qualità del servizio navette… ma che ve lo dico a fare, penso ormai abbiate capito che stiamo parlando di un festival con i controcazzi in tutto e per tutto.
Infine, l’aria che si respira al Dour è, così come la qualità dell’organizzazione, sempre la stessa: alla fin fine non importa più di tanto che ci sia il sole, la pioggia o il fango (tant’è che in parte ci è mancato quel lato woodstockiano che ha segnato l’edizione dello scorso anno), la gente ha sempre gli stessi sorrisi, l’eterogeneità della folla rimane invariata di edizione in edizione; e vi dirò di più, quest’anno il numero di anziane signore e quello dei piccolissimi per mano o sulle spalle di raver, birrofili e apparenti impiegati di banca è aumentato vertiginosamente. Nessuno, almeno ai nostri occhi, ha dato vita a liti esagerate per delle idiozie come uno sguardo di troppo o uno spintone inevitabile, anzi, c’è chi per una piccola spallata faceva faticosi metri indietro in mezzo alla folla per dirti con il sorriso un semplice “I’m Sorry”. Minchiate, piccole cose, certo, però fanno piacere e sarebbe bello addirittura non notarle in quanto dovrebbero far parte del normale codice civile, anzi, d’onore di tutti i veri festaioli.
Tutto ciò nei primi tre giorni ci ha dato talmente tanto, ci ha riempito, ci ha distrutto a tal punto che l’ultima giornata abbiamo deciso di prendercela comoda e ritornarcene nelle adorate tende allo scoccare della mezzanotte (saltando due live che ancora ci stiamo mangiando le mani: Sexy Sushy e Panterose666). Seduti nelle nostre regali verande da tenda, con una bella Jupiler semi-tiepida in mano e gambe e piedi imploranti pietà, ci godevamo le ultime immagini di questo 25esimo anniversario di Dour: aitanti giovani che ancora a quell’ora si incamminavano verso gli stage, coppie che tornavano sotto braccio, gente letteralmente finita che cercava, a volte anche riuscendoci, di prender a calci un pallone, risate di cui non si capiva bene la provenienza e gli abbondanti 15 minuti di fuochi d’artificio a coronare quest’ennesima fantastica edizione del Dour festival. Dopodiché, chiuse le zip delle verande, ci si sdraia su quelli che ormai erano a tutti gli effetti i nostri letti, si sparano le ultime cazzate da tenda a tenda, le ultime risate immotivate e ci si addormenta fra i cori ad intermittenza che prendevano vita da ogni dove, senza nessun motivo reale, intonando a gran voce il grido di battaglia “Doouureeh”, ormai una dolce ninna nanna per le nostre orecchie.