Capovolgiamo per un attimo il reale corso delle cose partendo da una conclusione. “Last Night A Dj Saved My Life” è una bibbia che andrebbe letta da chiunque almeno per una volta abbia messo piede in un club, per capire la reale evoluzione di tutto il movimento dove musica, impianti e stili si sono intrecciati creando le vere fondamenta del club. Le oltre 400 pagine che compongono quel libro sfumano in un finale realista con uno sguardo speranzoso e piuttosto attuale su quello che a volte succede in determinati ambienti: “Lamentatevi finchè volete della club culture supercommerciale: è tutto vero fino ad ogni pessimistica parola, ma non importa tanto c’è sempre un underground, c’è sempre qualcosa di nuovo all’orizzonte.” Una volta azzerati i contatori e preso piena coscienza che per un sano rilancio di tutto l’indotto musicale qualcosa di diverso dovrà giocoforza accadere, si può tranquillamente ripartire da qualche vecchia struttura abbandonata. Sì. Una sana riqualificazione dei beni in disuso potrebbe essere una strada da percorrere: lì dove risiedono vecchi baracconi abbandonati un tempo c’era vita, una vera e propria rivoluzione stilistica/musicale si è consumata negli anni. E può essere davvero un esercizio utile ricordarsene. A spiegare queste “rovine” ci hanno pensato Lisa Bosi e Francesca Zerbetto con il documentario “Disco Ruin”. In collaborazione con Sky Arte ed m2o, produzione SonneFillm e K+, il documentario ripercorre quarant’anni di club culture narrata dai tanti protagonisti dell’epoca, da Baldelli a Coccoluto passando per Ralf, Alex Neri, Leo Mas e tanti altri. Lo scorso 14 ottobre la pellicola è stata presentata alla pre-apertura del Festival del Cinema di Roma e poter intervistare Lisa Bosi, autrice e co-regista del documentario, è stato un gancio perfetto per approfondire dettagli, sviluppi e punti chiave in un momento difficile dove il presente ci limita e ci rinchiude con una miriade di punti interrogativi – che al momento non trovano risposta.
Il termine “ruin” (rovina) quasi indebolisce quel senso di festa che c’è dietro la parola disco, sembra quasi un inizio piuttosto oscuro. Vedendo di persona tutte quelle cattedrali del divertimento ormai in disuso da anni qual è stata la tua sensazione al primo impatto?
Sì, il documentario inizia proprio con i ruderi di molte discoteche, quasi un doloroso flashforward rispetto ad una storia che parte dal big bang di tutto, il Piper. Quelle strutture, che ogni sabato si riempivano di migliaia di persone, ora rimangono lì a testimonianza di una passata civiltà, di una Italia che non c’è più. Non sto dicendo che il movimento sia morto, ma credo che si siano trovati nuovi modi e spazi di fruizione. A mio parere è praticamente impossibile ricollocare nel presente queste “astronavi”, troppo grandi, troppo pesanti, troppo isolate e vandalizzate.
Strutture fatiscenti che hanno portato molta innovazione, negli anni. Da architetto come valuti l’aspetto strettamente stilistico che nel tempo si è dato ai club ?
Il mio sguardo da architetto, oltre che da regista, vede in queste rovine la testimonianza di una straordinaria avanguardia costruttiva e stilistica, che però spesso cadeva in un kitsch esagerato. Un aspetto importante è la luce. Questi luoghi sono stati costruiti per un utilizzo esclusivamente notturno. Unica regola perché la magia avvenisse era non vederli mai con la luce del giorno. Vivere nell’artificiale, ribaltando quindi tutti i paradigmi delle altre tipologie architettoniche. Solo luce e suoni, impalpabili come le emozioni provate all’interno. Gli esperimenti stilisticamente più interessanti risalgono senza dubbio agli anni ‘60. Nel documentario abbiamo intervistato due importanti architetti italiani Ugo La Pietra e Pietro Derossi. La discoteca per loro era il luogo della creatività, della libertà, della flessibilità. Quest’ultima caratteristica accompagnerà le discoteche di ogni epoca, dall’Altromondo al Cocoricò, sempre pronte a trasformarsi di stagione in stagione o addirittura di sabato in sabato a seconda della performance artistica che dovevano ospitare. Una sperimentazione molto interessante è stata anche quella dell’architetto Bini, che si inventò un nuovo sistema costruttivo per le cupole in calcestruzzo, sollevato con la sola pressione dell’aria, come se stessimo gonfiando un palloncino ma di cemento. Molti dancing lungo la via Emilia saranno costruiti con il suo sistema “Binishell”, diventato poi famoso in tutto il mondo.
Volendo individuare un momento in cui i club hanno veramente influenzato gli stili e le nuove tendenze, qual è secondo te il periodo storico che più ha sostenuto questo cambiamento?
Gli anni ‘80 e primi ‘90 sono stati senz’altro un momento chiave per il mondo della notte. Club come Kinki e Plastic dettavano le regole di chi era dentro e chi era fuori. E questa selezione è stata importantissima, un continuo esercizio di creatività collettiva da cui molti stilisti attingevano idee. Andare in scena, mostrare la propria personalità attraverso gli abiti e i comportamenti in una continua ricerca di apparire ed essere. Qui anche l’estetica queer trova il proprio palcoscenico privilegiato, accettando finalmente la fluidità sessuale dell’animo umano. Entusiasmo per la vita e la solitudine, accettazione ed emarginazione sono sentimenti che si scontrano nella vita di tutti i giorni. Dalla loro collisione si sprigionerà il caldo avvolgente e seducente che troviamo all’interno dei clubs.
Dei tanti artisti coinvolti c’è stato un momento di pura emozione ascoltando qualche loro aneddoto durante le riprese?
Un momento per me emozionante è stato quando Nico Note, con le sue parole ci ha riportato in una Riviera Romagnola dove tutto doveva accadere, “in un nomadismo notturno ancora agli inizi”. Si sono creati un mondo, dove gli aerei finivano ribaltati nelle piscine, i rubinetti (di Plessi!) erano appesi a centinai alle pareti senz’acqua e le entrate erano a cavallo avvolti in vestiti Thierry Mugler. Un altro momento emozionante è avvenuto intervistando Claudio Coccoluto che, ripensando a quegli anni, si è commosso durante l’intervista. La musica era (ed è) tutto e, in un mondo dove ancora non esistevano i fogli excel e le agenzie di booking, Claudio mandava fax in America prendendo i numeri dalle copertine dei dischi, sperando di portare in Italia i padri dell’house. Ecco penso sia questa la passione che diviene motore di quella che oggi chiamiamo “club culture”. Cultura appunto! Tondelli, scrittore le cui citazioni trovano spazio nel film, attento osservatore dei movimenti giovanili, scrisse: “Allora mi dissi che sarebbe bastato procedere in linea retta, senza oscillare né da un parte né dall’altra, percorrere la costa come un viale lungo decine e decine di kilometri e concentrarmi su chi avrei incontrato: creature della notte che danzano come falene attorno alla loro sorgente di luce.” La discoteca appunto. E questo è il viaggio che abbiamo fatto nel documentario.
La parte musicale che ripercorre le varie epoche del club ha ruolo primario nel documentario. Ti sei affidata a gusti e ricordi personali, o ogni singolo elemento è stato studiato nei minimi dettagli in modo da avere dei brani per ogni periodo storico analizzato?
Nel docufilm abbiamo preferito affidarci ad un professionista, Emanuele Matte, che ci creasse della musica originale per la colonna sonora. La musica è praticamente sempre presente. Oltre a lui, devo ringraziare infinitamente Nico Note, Alexander Robotnick, Daniele Baldelli, Leo Mas, Alex Neri, Francesco Farfa e Paolo Martini che mi hanno concesso dei loro brani arricchendo molto il film. Inoltre la collaborazione con Gianluca Pandullo e la sua I-Robots ci ha permesso di avere dei brani con il sapore delle varie decadi.
I benefici che si porta dietro un documentario del genere sono tanti, visto soprattutto il periodo attuale non semplicissimo con la conseguente chiusura dei club. Avete trovato particolari ostacoli nella produzione del film?
Il percorso inizialmente è stato lungo e tortuoso. Poi, grazie a Francesca (Zerbetto, NdI), abbiamo trovato un produttore che ha creduto nel progetto. Grazie a lui abbiamo raccolto i fondi e vinto i bandi delle Film Commission di tre regioni: Emilia Romagna, Veneto e Piemonte. Avere il sostegno di ben tre regioni ci ha dato psicologicamente molta forza, convincendoci che fosse una storia importante da raccontare, partendo da un punto di vista differente e più intimo, grazie anche alla mia esperienza personale all’interno dei club. In corsa si è aggiunto come co-produttore K+, dandoci grande sostegno nella finalizzazione del film. Inoltre al nostro fianco fin dall’inizio abbiamo avuto Sky Arte e in seguito radio m2o. Importante per noi è stato il marchio MSGM, che, oltre a sostenerci, ci ha dato tutti gli abiti di attrice e comparse del film.
È di pochi giorni fa la notizia che in Germania i Dj sono stati riconosciuti come musicisti e tutto ciò che ruota intorno alla club culture è considerato a tutti gli effetti evento culturale a pari merito di live e concerti. Non trovi che forse si è arrivati un pò tardi a questa scelta con la sola Germania ad occuparsi nello specifico di questo tema ?
Sicuramente è tardi, ma meglio tardi che mai. Oggi purtroppo è il “tempo del divertimento” a pagare il prezzo più caro della crisi sanitaria che stiamo vivendo. Ma questi momenti di ricerca della felicità avevano la loro utilità: creavano l’utopia della speranza di una vita migliore. Oggi cosa accadrà senza tutto questo? Pochi giorni fa, parlando con un tuo collega giornalista, notavo il fatto di come questi lavori legati alla “leggerezza” non fossero visti come culturalmente importanti. Noi però dobbiamo pensare alla leggerezza di cui parlava Calvino nella prima delle sue lezioni americane. Essa non è sinonimo di superficialità, bensì è l’unica maniera di superare con scaltre intuizione le difficoltà del presente staccandosi da terra. E i dj sono musicisti che sanno staccarsi da terra!
A quanto letto dai vostri canali social il film era pronto per debuttare nei cinema ma la successiva chiusura ha bloccato tutto questo. Ci sarà comunque la possibilità di vederlo presto in tv e in altre piattoforme?
Sì purtroppo stiamo con ansia aspettando la riapertura dei cinema. Grazie al nostro distributore arriveremo nelle sale il prima possibile. Ad aprile invece saremo in onda su Sky Arte, al nostro fianco fin dall’inizio.