In questo 2014 che sta seguendo la stessa inerzia lasciata dalla fine del 2013, con tanti buoni dischi e singole intuizioni ma nessun nuovo trend definito e riconoscibile, c’è una traiettoria rintracciabile in alcuni grandi album usciti quest’anno, forse quella che più di tutte sta identificando l’annata in corso. È questa nuova elettronica d’ascolto che sta rimettendo al centro dell’attenzione l’emotività, l’attitudine mentale, l’intelligenza, capace finalmente di portare a perfezione le iniziative più significative degli ultimi anni: il cantautorato elettronico post-Blake da un lato, i fermenti ritmici esplosi dopo il declino del dubstep dall’altro. È proprio in questo momento storico, anche per compensare gli eccessi EDM nel frattempo arrivati ai loro picchi più sfrenati, che nasce l’esigenza di costruirsi un nuovo linguaggio per la mente e per il cuore. Niente di totalmente nuovo, vero, ma uno spirito comune che intende differenziarsi in un certo modo da quel che abbiamo ascoltato fino all’anno scorso. Oggi #crumbs vi conduce lungo i quattro album più importanti identificabili in questo percorso, che guarda caso rientrano tra i dischi migliori usciti finora. Uno per uno, gli step emozionali più potenti sentiti quest’anno.
[title subtitle=”Max Cooper: anestesia per la mente”][/title]
Quando lo intervistammo l’anno scorso lo definimmo un architetto: è l’impressione che dà la sua musica, quella di un professionista capace di progettare e curare nei dettagli un piano che intende semplicemente coltivare l’emozione dell’esperienza d’ascolto. Quando parlammo a inizio anno dei dischi da tenere d’occhio per il 2014, invece, dicemmo che il gioco per lui consisteva unicamente nel non tentare azzardi, disegnando nella maniera più semplice e lineare possibile l’emozionalità che è sempre stata forma e sostanza della sua musica. Bene, oggi possiamo dire che è andato tutto alla perfezione. “Human” è un album sicuramente di fantasia, che offre anche un lato techno corposo e una serie di ambientazioni ritmiche e atmosferiche stimolanti. Ma l’emozione, ragazzi. Certi pezzi sembrano delle parentesi escapiste che allontanano il mondo in cui vivi e ti fanno precipitare dentro la morbidezza inconsistente delle suggestioni. Con una intensità e una totale focalizzazione che sembra un inedito nella produzione elettronica recente. Parte del merito è anche del contributo vocale estasiante di Kathrin DeBoer in “Adrift” e “Numb“, ma gli spazi per le sensazioni e i viaggi cerebrali sono tutti da attribuire all’architetto. Una “Empyrean” su tutte, pura e incontaminata come una grotta artica, mentre i ghiacci si sciolgono e dalla volta cadono gocce di musica anestetizzante. E ogni dolore svanisce.
[title subtitle=”SOHN: la voce, la robustezza, il carattere”][/title]
Son tre anni abbondanti ormai che andiamo puntando il dito qua e là sui “nuovi Blake”. Ma se proprio si deve dare un risultato a questa strana quanto inutile ricerca, beh, Sohn è l’unico che può prendersi in spalla il ruolo di suo erede. L’assetto è esattamente lo stesso del Blake altezza primo album, ossia fondamentalmente cantautoriale, l’interpretazione cantata al centro di tutto e la contemporaneità ellettronica a fare da cornice. Quel che va riconosciuto a SOHN, però, è aver superato gli inconvenienti che molti avevano odiato di quel Blake, vale a dire l’eccessivo minimalismo strumentale, un’essenzialità che spesso sfociava nella pura combinazione voce + piano. Con Sohn questo non succede. Con Sohn il suono è robusto, si mette in gioco coi loop e coi beat, sa riempire gli spazi con la giusta energia. Ne vengono fuori pezzi come “Lights” che in pratica è house intelligente, “Bloodflows” che sa ben offrire il lato landscape e quello breakbeat, e “Tempest” che vince entrambe le sfide circa grinta e intensità. Ecco, “Tremors” è un gran bell’album. Concreto ed emotivo. Sarebbe stato il disco più bello uscito quest’anno, se non fosse che ci siamo scontrati frontalmente coi due capolavori che trovate a seguire. Prima però “Artifice”, il gancio perfetto per il pubblico pop, che va ascoltata almeno una volta al giorno.
[title subtitle=”Christian Löffler: meravigliosa, incosciente, cocciuta gioventù”][/title]
Perché poi arriva la generazione dei ragazzini testardi, capite. Quelli nel pieno della loro incoscienza giovanile, che non ascoltano nessun consiglio, che credono di sapere meglio di tutti ciò che è giusto, che vanno dritto per la loro strada e non seguono nessun altro. E alla fine scopri pure che hanno ragione loro. Christian Löffler è già al secondo album, ha consolidato il suo stile e guai a chi gli chiede a chi si ispira: “non saprei, a nessuno in particolare, è il mio carattere“, dice. Un carattere la cui purezza sta restando immutata, dai suoi pezzi migliori degli esordi (a noi ancora non ci si toglie dalla testa “A Hundred Lights“) al suo ultimo album “Young Alaska”. La vera forza in realtà sta nell’aver raggiunto la sintesi perfetta tra una serie di spinte classiche dell’elettronica emozionale che vanno dalla techno intelligente alla soft house fino al nobile minimalismo moderno (quello del primo Trentemøller, per capirci). E così il disco scorre come un flusso suggestivo di panorami immaginari, dalla soave malinconia di “Young Alaska” alle delicate quadrature di “Beirut“, sempre seguendo una stabile connessione con le suggestioni di chi ascolta. Questi sono gli ascolti che non ti stancano mai, che vorrai sempre riprendere di tanto in tanto, per riprovare ancora una volta quella strana sensazione di essere circondato da una distesa di cristallo. Quando verso la fine arriva “Veiled Grey”, la tua testa sta già volando tra gli strati leggeri dell’atmosfera.
[title subtitle=”Alex Banks: la perfezione esiste”][/title]
Alla fine di tutto questo, alla fine di un percorso lungo anni che ha ridato spazio e centralità all’emozione, dopo i Woon, i Koreless, le Emika e i Phon.o, arriva Alex Banks. Il ragazzino dalla faccia pulita che abbiamo visto qualche #slices fa, concentrato sul suo lavoro e rivolto esclusivamente ad esso, intenzionato a scavare, raffinare, inventare partendo semplicemente dalla sua sensibilità musicale. Il suo “Illuminate” somiglia tanto al punto di arrivo definitivo di un filone di emozioni iniziato tanto tempo fa, ben prima dei Blake e dei Trentemøller, più prossimo a Portishead e Björk, e che nel frattempo racchiude tutta l’essenza delle sperimentazioni beat dei tempi moderni. Un album che va a fondo, trapana la superficie con una potenza impressionante, ti porta a restare a bocca aperta per come cose apparentemente semplici come la posa ambient di “Solar” possa trasformarsi in una spirale di voci, fiati, battiti e corde dalla quale non c’è scampo, ti costringe a chiederti come sia possibile che un innesto così perfetto di ritmi e suggestioni come “Initiate” venga prodotto da qualcuno che certo non ha dalla sua l’esperienza. E poi senti i pezzi con Gazelle Twin: una sorta di visione mistica in cui inizia a passarti per gli occhi di tutto, dalle possessioni trip hop agli slanci uplifting, ti metti la mano sul cuore e ti chiedi quante altre volte hai sentito pezzi così emotivamente potenti e così tecnicamente solidi. Qui ogni cosa raggiunge la dimensione definitiva. La perfezione forse fa parte di questo mondo, o almeno è questo che dovremo verificare quando confronteremo questo nuovo punto di partenza con tutto quello che seguirà da oggi in poi.