Poco più di una settimana fa quella comoda, infernale, proustiana funzione di Facebook che ti ricorda le cose fatte lo stesso giorni di uno, due, tre, dieci anni fa faceva riemergere ai nostri occhi quanto avevamo scritto nel 2015, come commento a margine sull’edizione di quell’anno dell’Amsterdam Dance Event. Un commento che accompagnava il report vero e proprio (fatto, come sempre magistralmente, dal nostro globe-trotter Federico Raconi). Un commento che voleva mettere in luce alcuni striature strane nelle mille luci dell’ADE. Strane perché troppo abbaglianti. Strane perché iniziavamo a vedere una fiducia eccessiva nelle sorti “magnifiche e progressive” della musica dance come industria, come commercio. Eravamo nel pieno del boom dell’EDM, probabilmente al suo apice, nella fase in cui arrivava da anni ed anni di impetuosa crescita e sembrava non volersi fermare mai nel continuare ad espandersi, ingrandirsi, moltiplicare i numeri. Una specie di “seconda nascita” per la musica da ballo elettronica: quella in cui capiva che poteva tranquillamente giocare alle regole del pop più aggressivo e più mainstream, entrare in quel tavolo lì e giocare da pari a pari coi grandissimi del rock e dell’hip hop, magari battendoli pure – vedi la colonizzazione della line up di Coachella.
L’ADE non è e non è mai stato solo EDM; ma l’ADE è prima di tutto un raduno di operatori del settori, ed è secondo di tutto un posto dove – in pieno spirito olandese – si parla di affari e lo si fa in modo molto pragmatico (gli olandesi sono pragmatici e concreti su tutte quelle cose che noi mediterranei adoriamo ma in pubblico e negli atti ufficiali facciamo finta che non esistano: oltre ai soldi, anche sesso e droga). Ecco: anche se ti occupavi di tutt’altro, il ciclone-EDM col suo moltiplicare i fatturati ogni anno non poteva non impressionarti, non poteva non essere un’ombra che aleggiava su tutto (anche, una case history da tentare di imitare, almeno parzialmente). Avvertivamo la fregola se non di tutti almeno di molti nell’intercettare la ricetta magica di questo moltiplicatore di numeri e successi o, altra faccia della stessa medaglia, nel tentare di difendersene.
(continua sotto)
Bene. Due anni sono passati, sono tutti molto più tranquilli. La bolla EDM non si è sgonfiata. Ma ha smesso di crescere. E anzi, ha qualche piccola battuta a vuoto. Resta sempre un fenomeno gigantesco, sia chiaro; ma succede che State Of Trance con Armin Van Buuren headliner non faccia sold out in un’arena da 3000 posti, succede che l’Amsterdam Music Festival (l’eventone allo stadio, all’ArenA, dove si proclamano i vincitori della Top 100 Dj’s di Dj Mag e dove suonano quasi tutti i più famosi del momento) si svolga in un giorno solo, non due come in passato, e in quel giorno solo arrivi al sold out solo a ventiquattro ore dall’inizio della manifestazione (sold out sui generis tra l’altro, visti gli ampi spazi vuoti e ancora riempibili). Non è la morte dell’EDM. Ma se non altro, l’industria che la circonda ha smesso di avere quei contorni davvero “mostruosi” per cui sembrava in grado di crescere all’infinito spazzando via tutto, una ricetta magica difficile da contrastare in grado di suscitare ammirazione, incondizionata adesione o (altra faccia della stessa medaglia) repulsione aprioristica.
Il nostro timore di due anni per una mutazione genetica del mondo legato alla musica da club verso un convinto paradigma fatto solo di affari, scintille e successi (visto cioè solo come tale, disperdendone quindi la ricchezza culturale e la storia emotiva delle sue radici) in parte è rientrato. Stiamo tornando alla routine: in cui ognuno fa il suo, ognuno perseguo il suo, qualcuno se è furbo arriva ad osservare i mondi “altri” per impararne i lati più interessanti, tutti pensano a fare prima di tutto quello che li fa stare bene emotivamente, e pazienza se non è la cosa al top in quanto a successi e fatturati.
(il De La Mar Theater, una delle nuove sedi diurne dell’ADE; continua sotto)
Poi ecco, “tornare alla routine” se si tratta di Amsterdam Dance Event significa la solita quantità pantagruelica di incontri, panel, serate, nottate. Il caso più incredibile è quello di Dave Clarke, che da cittadino di Amsterdam da tempi non sospetti (sono anni che si è stufato dell’Inghilterra e si è trasferito in Olanda) è legato all’ADE a doppio filo. Bene, nello stesso giorno, diciamo nell’arco di diciotto ore, è riuscito a (in ordine cronologico): fare un set techno al Melkweg; guidare un incontro con la mefistofelica leggenda electro Gary Numan, un suo idolo da sempre; tornare al Melkweg per fare stavolta un set electro; ri-tornare nella zona dei panel dell’ADE per condurre il suo ormai leggendario Demolition Panel, lì dove lui e altri dj di vario background giudicano in diretta dei demo sottoposti da producer emergenti presenti lì in loco, di fronte a tutti, in carne ed ossa. Diciamo che lui da solo e in meno di ventiquattro ore è riuscito a raccontare le diverse anime e le diverse pratiche dell’ADE.
Noi che altro abbiamo visto, in ordine sparso? Una lecture brillante di Nina Kraviz intervistata da Joe Muggs (il quale Joe Muggs il giorno dopo doveva intervistare pure i Kiasmos, arrivando clamorosamente in ritardo, con i due islandesi che si sono autogestiti l’intervista dando prova di notevole humour scandinavo); un deludente incontro sullo stato di salute della techno, dove Heiko Hoffmann – ottimo giornalista ma non scoppiettante come host – ha cercato di far dire a un bizzarro insieme di ospiti (Kevin Saunderson, Rebekah, Lady Starlight, che è come dire Adriano Panatta, Mario Monti, Maria Giovanna Elmi: associazioni a caso che manco il Costanzo Show) qualcosa di originale su come sta la techno oggi, non riuscendoci. Abbiamo visto una emozionante, emozionantissima lecture degli Underworld che raccontavano se stessi, con Karl Hyde che ogni tanto si alzava e recitava davanti a un leggio passi stile slam poetry (che poi, è quello che fa anche on stage) e maledizione sono brividi ogni volta; abbiamo visto Irvine Welsh parlare di sé, della propria visione della cose, di come ad un certo punto avesse rischiato di diventare un dj, col lodevole tentativo di parlare un inglese inappuntabile all’inizio digradato via via in un sorridente e smargiasso accento scozzese sempre più marcato. Abbiamo visto un panel molto interessante di dj e agenti donne del mondo dell’hard techno che parlavano, appunto, della condizione femminile in quel contesto lì e con spirito molto pratico il senso (e il tono!) dell’intervento di tutte era “Vabbé, se mi rompono i coglioni perché sono femmina e non mi prendono sul serio mica mi metto a piangere, li sistemo in due minuti e poi rigano dritto, che cazzo”. Così che abbiamo visto anche qualche panel sulla carta molto promettente, ad esempio quello che parlava del “Come interagire coi medai on line dedicati alla musica elettronica”, risolversi in una serie di consigli abbastanza basic e di buon senso (presi però per oro colato nel pubblico da bizzarri figuri asiatici che asserivano di produrre tech-house e, insomma, dove stanno loro chi fa tech-house non se lo fila nessuno). E poi la RA Cup, che ha mostrato (forse come mai prima d’oggi) quanto il lavoro fatto dai ragazzi del De School sia sfociato in un locale che è sempre più agglomeratore sociale e meno semplicemente club a se stante. Esattamente il percorso che aveva portato il suo predecessore, il Trouw, nell’elite del clubbing mondiale. Ci siamo persi miriadi di cose, a malincuore: ci siamo persi ad esempio tutta la parte legata alla Cina (entrata quest’anno pesantemente nel programma dell’ADE, con un focus apposito: un primo passo verso un piano d’attacco cinese anche nel mondo del clubbing? Se succede davvero, quali diavolo potranno essere le conseguenze e i riposizionamenti?), ma in realtà l’elenco dei panel almeno potenzialmente interessanti era di tipo venti cose al giorno. Come fai. Tant’è che capita di vederne di pieni, ma capita anche di vederne semi-deserti. Quest’anno forse anche più di altri anni (anche perché non c’era più al concentrazione al Felix Meritis, non più sede della parte diurna del festival, ma ci si dislocava fra De Brakke Grond e Hotel De La Mar, e sono almeno venti minuti di cammino dall’uno all’altro). Però ecco: come fai.
(il Gashouder come sempre è per l’Awakenings una location pazzesca; continua sotto)
Perché poi c’è anche la sera, la notte. Al solito ottima ed abbondante. Tra le cose che abbiamo visto (e che magari avevano anche propaggini diurne, sotto forma di after, o ore d’inizio pomeridiane): Awakenings, ottimo ed imponente come sempre, nella giornata capitanata da Len Faki (peccato solo per KiNK che si è cimentato a far techno, e sinceramente non è la sua chiave, non è il suo tocco, anche se è apprezzabile il tentativo e il coraggio, visto che ha seguito sempre il suo solito modus operandi live); un po’ di cose in un Radion sempre affollato: una festa Life & Death molto convincente dal punto di vista musicale in primis negli italiani (Dj Tennis, Marvin & Guy, che hanno fatto meglio di Jackmaster e Red Axes pure molto in palla); una paratissima detroitiana con Carl Craig a tenere la fila (in un Sugarfactory che è uno dei club storici della città, con la sinistra caratteristica di avere un’aria un po’ insalubre dopo qualche ora di sovraffollamento); la “giungla urbana” creata dal festival Into The Woods sulle coste cittadine settentionali, con bei set di Wareika e Nightamares On Wax. Dell’AMF e di State Of Trance già detto, abbiamo rinunciato a al take over di DVS1 e amici (compreso Lory D) sulla Warehouse di Elementenstraat per eccessi di fila all’ingresso. Abbiamo anche apprezzato le grandi feste di Rush Hour allo Shelter e Resident Advisor al Radion, due dei locali che in questo 2017 hanno al meglio rappresentato le tante sfaccettature musicali della scena batava. Notizie un filo meno confortanti dal Muziekgebouw dove il party di Audio Obscura ha alternato una location davvero mozzafiato ad un’organizzazione logistica non esattamente al massimo, considerati anche gli standard di questa fetta di mondo. Non solo: non c’eravamo, ma ci è stato detto da fonti affidabili che anche la Giegling ha sovraccaricato di presenze il locale che si era presa per sé per la propria festa, confermando l’impressione che quest’anno meno di altri anni si sia fatta attenzione al flusso di persone e alla necessità di non creare sovraffollamenti.
(uno scorcio della giungla urbana di Into The Woods; continua sotto)
Del resto, ognuno fa per sé. L’ADE si limita a mettere il bollino (anche con una certa facilità, vedi appunto l’intulmente chiacchieratissimo caso di Gianluca Vacchi), non esiste una vera e propria direzione artistica, ci si affida all’iniziativa privata. Iniziativa che qualche volta fa anche buchi nell’acqua: Modeselektor, fra gli ospiti di punta di una serata DGTL trionfante e sold out, hanno scelto un’altra Warehouse, non quella di Elementenstraat, per la loro serata label, ovvero Monkeytown, creata assieme alla crew Intercell. Risultato? Capannone bruttino, freddo e semivuoto, duecento persone nemmeno troppo convinte. Insomma: è vero che l’Amsterdam Dance Event calamita nella capitale olandese un numero mostruoso di persone (si parla di 400.000 presenze, quest’anno), tuttavia questo non basta per pensare di poter fare le cose in modo facile con garanzia di successo. Bisogna avere organizzazione, accuratezza, anche un po’ di fortuna (perché sempre per dire Intercell, gli altri anni aveva fatto molto meglio). Cosa che tra l’altro hanno avuto i nostri portacolori: Nameless Festival è infatti sbarcato all’ADE prima offrendo un giro in barca tra i canali a giornalisti e fiancheggiatori vari, poi con un parti al De Balie – la primissima location serale usata dall’ADE nella sua primissima edizione, simbolicamente mica male – che è andato sold out e non è stato certo popolato solo di italiani. Al De Balie non se l’aspettavano.
In generale, l’impressione è stata quella di una edizione 2017 non rivoluzionaria: non interlocutoria, ecco, diciamo stabile. Non è emerso il sentore di alcuna novità grossa in arrivo, non c’è lo sfondamento definitivo senza fare prigionieri della galassia EDM, più o meno tutti si sono difesi, ci si è spartiti i territori, i discorsi nei panel non hanno fatto emergere nulla di radicalmente nuovo seguendo invece un solido buon senso (fatto salvo appunto che ci siamo persi tutti gli incontri “cinesi” che magari hanno riservato primize e sorprese, ahinoi). Non c’è più l’ansia di capire come diavolo monetizzare sulla musica ora che i dischi non si vendono più come prima (metti insieme streaming, aumento della presenza live, vendita delle edizioni e il fatturato più o meno resta decente), non c’è la tanto paventata e discussa “crisi del clubbing”, almeno stando dall’osservatorio privilegiato dei canali amsterdamiani durante questi brulicanti giorni di metà ottobre. I tempi sarebbero maturi per iniziare ad avere, nel programma, anche una significativa presenza italiana (con qualche festival, sulle orme di Nameless: magari Movement o Club To Club potrebbero provarci; nei panel; anche fra gli artisti), questa continua a mancare abbastanza, eppure siamo fra i paesi che più fanno marciare l’economia dell’intrattenimento legato alla club culture, visto che siamo fra quelli che allungano ai dj, almeno in campo techno e house, alcuni fra i cachet più alti. Per riuscirci bisognerebbe “fare sistema”: una cosa che in Italia siamo sempre stati bravissimi a non fare. Cambierà qualcosa, prima o poi? Perché sì, potrebbe valerne la pena. Non per appuntarsi la medaglietta al petto “Sono stato all’ADE nel programma ufficiale” per vantarsene al bar con gli amici una volta tornati a casa, ma per confrontarsi coi piani alti del business su un livello europeo e mondiale, e vedere l’effetto che fa.
Con la come sempre preziosissima collaborazione di Federico Raconi. Immagine in testa articolo di Tom Doms.