L’algoritmo, oggi, suggerirebbe di parlare di Caroline Polachek e del suo “Desire, I Want To Turn Into You”. Anzi, in ottica SEO fateci ripetere: Caroline Polachek, Caroline Polachek, Caroline Polachek. Peccato che alle nostre orecchie quello della amica di Danny L Harle sia un album non brutto, no, ma semplicemente inutile: inutile negli arrangiamenti (che sono plasticosi forti), relativamente inutile nella scrittura musicale (che mima momenti interessanti, ma più che raggiungerli li evoca in modo diluito). Potete dire quello che volete, ma niente e nessuno riuscirà a non farci sostenere che un brano come “Bunny Is A Rider” è musicalmente parlando pop mainstream di scarsa personalità, così come il flamenco pezzotto di “Sunset” potevano farlo sia Minghi che Baby K, indifferentemente, e se l’avessero fatto loro li avreste perculati e/o snobbati all’infinito. Quindi davvero: accannate, con ‘sta Polachek. Se l’hyperpop è veramente questo (e per fortuna, non lo è; o almeno non è solo questo), allora davvero c’è da chiedere scusa a Giusy Ferreri per un decennio di disprezzi e prese in giro. Anzi: la Ferreri ha pure una voce più interessante, via! E la Michielin, giusto per spostarci sull’esempio di un pop più da Gen Z così non aleggia l’epiteto “boomer”, non è che faccia cose meno elaborate o particolari di quelle che si sentono in “Desire” eccetera eccetera. Cioè, dai:
Ecco. Sbrigata la pratica-Polachek sì per amor di algoritmo ma anche per mettere i puntini sulle “i”, in modo assolutamente controproducente per le pageviews vorremmo invece spostarci su un disco non pop, non uscito oggi, non accompagnato dall’hype, e creato da un artista che è eternamente fuori dai giri giusti ma che non per questo si è abbattuto o ha tentato di entrarvi a spintoni o a traversate verso il pop. Il disco è questo:
Turbojazz è una delle tante dimostrazioni di come l’Italia sia un paese bloccato, in cui i “giovani di talento” sono destinati ad essere eternamente tali senza poter fare il salto di qualità quando lo meriterebbero. Dj sopraffino (sì, suona bene coi vinili, ma non è questo il punto), con un tocco molto legato al lato più morbido e soulful del dancefloor ma sempre ritmicamente andante, è ancora adesso percepito come una “promessa”, nome emergente. Per capacità, dovrebbe essere invece uno super-consolidato; ma se non suoni la musica che piace al Circoloco e ad Afterlife, l’ascensore sociale è abbastanza bloccato (e Sónar e Dekmantel come indirizzo stilistico sono molto meno king maker di qualche anno fa). Sfiga.
Ma invece di stare lì a brontolare e maledire il mondo ed il decadimento dei costumi, come troppi dj/producer non più giovani fanno, Tommaso Garofalo alias Turbojazz si è rimboccato le maniche e non solo ha dato vita ad una etichetta mica male, Last Forever, ma ha pure deciso di investire tempo, risorse e un mare di lavoro nella creazione di un album. Un album suonato. Roba seria, la musica suonata: non te la cavi maneggiando bene un software. Perché anche se non suoni tu in prima persona, devi assemblare bene il lavoro dei musicisti che sono alle tue dipendenze, la cantante, il batterista, il tastierista, metterli nella condizione di rendere al massimo, incastonare il loro contributo nell’insieme senza che sembri tutto raccogliticcio ed appiccicato con lo sputo.
“Whateverism” in tal senso è un disco meravigliosamente maturo ed appropriato. Non ti stupisce con effetti speciali, non è super-polished nei suoni come le robe alla Polachek (un tempo l’intellighenzia odiava questo polish, ora vai a capire che è successo), non azzarda passi più lunghi della gamba, si accuccia nella bella tradizione West London ondeggiando tra broken beat, latinismi e drittezze e lavora, lavora molto molto bene di equilibri, di sviluppi armonici, di azzeccate melodie da inserire ogni tanto.
E se vi state chiedendo “Sì, ma come diavolo fai ad accostare la Polachek e Turbojazz, santiddio?”, da un lato è vero che i due non c’entrano nulla fra loro sotto miliardi di aspetti, dall’altro parliamo di due album che nascono entrambi da una conoscenza e consapevolezza in filigrana delle musiche da dancefloor (quando Harle nel disco della Polachek infila la drum’n’bass…) ma che questa musica hanno deciso di trattarla “espandendola”: Polachek e il suo team verso il pop che più pop non si può, Turbojazz restando fedele alla sua nicchia di buon gusto e buoni ascolti ma comunque esplorando in lungo e in largo le cose che gli piacciono, che non si riducono certo alla solita trita e ritrita formuletta minimal-balerica-chetaminica-dritta per vincere facile nel Grande Fratello del clubbing.
Ascoltateli entrambi i dischi. E diteci quale dei due trovate più interessante, onestamente. Fate finta che la Polachek sia una anonima cantante lanciata dalla De Filippi, e Turbojazz invece un chiacchieratissimo protetto di Kanye o del compianto Abloh: reggerebbe uguale. Mais oui, reggerebbe uguale. Perché oggi puoi giustapporre di tutto e di più grazie all’ascolto liquido, no? E allora, accidenti, sarebbe una ragione in più per non farsi guidare dall’hype e dall’hyper, ma per prendersi dei rischi e scegliere strade meno battute.