Nell’arco di meno di una settimana, pochi giorni fa, ecco all’improvviso due concerti – anzi: due momenti, due esperienze, due avventure – che ci hanno letteralmente aperto la testa. Ci hanno fatto stare bene, ci hanno fatto godere, sì; ma, ancora di più, ci hanno fatto capire che veramente qualcosa di diverso è possibile, nella musica “nostra”, oggi più che mai. E’ possibile; e, anzi, è proprio necessario. Ne abbiamo ferocemente, splendidamente bisogno.
Fuori allora i nomi, prima di tutto: Shackleton all’Auditorium San Fedele lo scorso lunedì 14 marzo, Max Cooper al Circolo Magnolia la scorsa domenica 20 marzo. Milano in entrambi i casi. Per quanto riguarda il primo live, la cosa divertente è che avevamo in realtà scritto un lungo articolo in cui si raccontava la storia di Shackleton e si facevano varie considerazioni su come ad un certo punto lui fosse diventato “di moda” ma da qualche anno “di moda” lo fosse molto di meno, coi vari ragionamenti annessi e connessi. Articolo che è stato inopinatamente “mangiato” da un maledetto momento di defaillance di WordPress: quindi non lo leggerete mai (…e ogni tentativo di riscriverlo si è arenato, perché le cose ti vengono realmente bene e realmente ispirate solo quando le fai la prima volta, difficilmente invece quando tenti di rifarle a forza – e questo vale non solo per la scrittura, ma non divaghiamo, per ora). A grandi linee: questo articolo “mai nato” era una serie di considerazioni su come anche il lato più sotterraneo, alternativo e sperimentale della musica elettronica da ballo (e non solo quella da ballo…) fosse ormai irrimediabilmente percorso da una serie di dinamiche riconducibili alle mode, alla coolness, eccetera eccetera, con la conseguenza che lo stesso artista può essere richiestissimo in un momento e invece superfluo e poco significativo in un altro – senza che la sua musica fosse cambiata più di tanto. In realtà, quelle cose le scrivevamo “al buio”; non sapevamo cioè quale live set Shackleton avrebbe portato a Milano. Lo intuivamo, sì, pensando al suo ultimo, valido “Departin Like Rivers”, però ecco andavamo abbastanza sulla fiducia. Così come andavamo abbastanza sulla fiducia anche nel secondo caso, ovvero fare un salto ad andare a vedere Max Cooper al Magnolia: una fiducia lo ammettiamo inizialmente tiepida, perché negli anni Max Cooper lo avevamo sentito più volte e sempre l’impressione finale era stata un “Bellino, carino, intelligentino, ma…”.
Beh. E’ andato tutto in maniera completamente opposta da come credevamo (…ed ehi!, i concerti servono anche a questo: a farsi sorprendere, mentre oggi troppo spesso li “eleggiamo” e scegliamo come momento in cui vogliamo veder confermate le nostre certezze).
Per quanto riguarda Shackleton, con un effetto aumentato dal fatto che lui non stesse on stage – all’Auditorium San Fedele c’è un particolarissimo impianto acustico, l’Acusmonium Sator, con 50 punti di diffusione sparsi per la sala e un corpo centrale molto scenografico che spesso si prende direttamente il ruolo unico ed esclusivo sul palco – quello che abbiamo vissuto è stata un’esperienza sensoriale che ha completamente destabilizzato gli equilibri standard tra visione/ascolto in un concerto, per spingerti a concentrarti solo sul suono. Come se fossi in casa ad ascoltare musica in cuffia nel buio della tua stanza da letto o del tuo salotto. Cosa interessante già di per sé, ecco, ma il punto è che Shackleton ha con questo suo nuovo live set estremizzato la direzione sonora intrapresa con l’ultimo disco ed ha insomma dato vita ad un’ora e mezza di musica che sì, parte in qualche modo “normale” (e la musica “normale” di Shackleton è già abbastanza ipnotica e circolare di suo), ma poi via via alza davvero il livello, lavorando sempre più sottrazione – sino alla sparizione – della parti ritmiche, e cercando invece insistentemente la vertigine onirica nei suoni e nelle armonizzazioni. Come quando vedi qualcosa di etereo, rarefatto e con accostamenti surreali, nel momento in cui il sonno – e il sogno – hanno la meglio su di te, attimo dopo attimo. L’effetto è questo. Ed è un effetto, semplicemente, incredibile: ascoltato ad occhi chiusi, il live set milanese di Shackleton è stato veramente un viaggio mentale to-ta-le. Invece di concentrarti sui ritmi fighi e sui riff accattivanti (che peraltro c’erano, sia chiaro), progressivamente l’attenzione emotiva ed anche fisica andava invece su come il flusso sonoro ti portasse in un territorio a metà fra sogno e veglia, e lo facesse intenzionalmente, non cioè per caso o per inerzia ma con precisi accorgimenti tecnici (come già accennato ad esempio le armonizzazioni atipiche ed oblique, per dire).
Se fossimo stati in piedi, occhi rivolsi verso il palco e Sam Shackleton ricurvo sui suoi laptop e sui suoi controller, l’effetto non sarebbe stato lo stesso. Zero. E non sarebbe stato lo stesso manco ci fossero stati i visuals più belli del mondo. Perché comunque sarebbero stati un “di più”: qualcosa che teneva desta la tua attenzione sensoriale e la tua veglia, quando invece la calibratura perfetta era proprio sconfinare nel dormiveglia, nell’ottundimento dei sensi incanalato attraverso esclusivamente l’udito, col silenzio degli altri sensi.
E’ stato magico.
Un tempo techno e house e breakbreat ed IDM erano ascoltate solo ed esclusivamente da ventenni, al massimo trentenni; oggi molti di questi ventenni sono diventati quarantenni, cinquantenni, sessantenni, e ci sta si sviluppino delle modalità d’ascolto e di fruizione (più) adatte a loro
Pochi giorni più tardi, come detto, al live di Max Cooper ci eravamo andati onestamente senza troppe pretese. Faceva piacere tornare al Circolo Magnolia (uno dei luoghi che in questi anni più e meglio ha combattuto per la musica non mainstream ma nemmeno forzatamente e spocchiosamente underground, in Italia, oltre che un covo di bellissime persone e bravissimi professionisti), però dal concerto in sé ci aspettavamo più o meno la solita cosa à la Max Cooper: elettronica intelligente ma con un deficit di mordente, scelte colte ma mai giocate sino in fondo, dei visual interessanti ma un po’ formulaici, cose così. Qualcosa di gradevole, ecco, ma nulla più. Del resto dopo due anni di stop già vedersi un concerto “gradevole” è cosa più che ok: è interessante, è curativo. No?
Non è andata per nulla così. E’ andata che Max Cooper ha usato questi due anni e passa di stop per portare il suo live a/v a dei livelli siderali, semplicemente siderali: forse il più bel live a/v dai tempi del leggendario “Isam” di Amon Tobin (un kolossal talmente visionario e talmente kolossal, che la traduzione live di “Isam” non la vedremo probabilmente mai più; nel frattempo sono arrivate cose ancora più kolossal, come sforzo produttivo, ma in mano ad artisti in grado di avere una popolarità globale e un profilo mainstream che Tobin non ha e, probabilmente, proprio non gli interessa avere. Quindi, ecco).
Coll’escamotage – già visto altre volte, ma mai usato così bene e così intensivamente – dei teli trasparenti su cui proiettare i visual a doppia disposizione, quindi sia davanti che dietro l’artista, siamo stati catapultati in mondo a parte di sovrastimolazione sensoriale piena, esaltante, azzeccatissima. Una sovrastimolazione che ha riempito i buchi e le manchevolezze della musica di Cooper: che appunto è sempre stata ok, in qualche passo anzi più che ok, ma ti pareva sempre che non affondasse mai realmente e definitivamente il colpo. Arricchendo invece tutto con visual curatissimi, particolarissimi, davvero spettacolari, perfetti nell’equilibrare umano e digitale e realismo matematico ed astrazione psichedelica, la qualità del tutto è diventata semplicemente esplosiva. Soprattutto, non ha comunque mai dato l’impressione di essere “spettacolare tanto per essere spettacolare”; ma davvero vedevi il profondo studio dietro ogni accostamento, dietro ogni evoluzione di suono e d’immagine, dietro ogni cambio di dinamica e d’atmosfera. Impressionante.
(Qui un esempio, anche se non rende l’idea dell’immersività che si “respira” dal vivo coi visual disposti a due strati diversi; continua sotto)
Una carta vincente poi è stata proprio il vedere questo concerto al Magnolia, e di domenica sera: non un posto dove di solito vai a sentire l’elettronica da dancefloor “standard”, la venue milanese, e non un giorno in cui di solito esci. L’affluenza è stata buona (anzi: sorprendentemente buona), ma lontana comunque dal carnaio stile Circoloco – chi è stato al DC10 sa di cosa parliamo – e comunque di contesto medio da clubbing spinto, dove sembra che la serata la fai davvero solo se sei accalcato l’uno sull’altro e se c’è l’impatto proprio “fisico” della folla, della massa: una sindrome che ha preso un po’ tanto il clubbing, nell’ultimo decennio e passa, diciamo dal 2000 in poi. Nulla di male in tutto questo, lo sottolineiamo dieci volte; diventa però un male nel momento in cui, magari anche inconsapevolmente, diventa l’unico modo per fruire la musica elettronica danzabile. Lo è davvero? Al Magnolia, la sera di Max Cooper, si era in trecento sotto il tendone e non c’era bisogno di accalcarsi e di mettersi uno addosso all’altro per sentire il “calore” emotivo, per sentire l’entusiasmo dentro di sé: era talmente esaltante quello che stava succedendo sul palco che eri anzi contento di avere quel minimo di spazio vitale per godertelo tutto, godertelo sino in fondo, godertelo con agio.
Sia Shackleton che Cooper sono state insomma due esperienze profondamente “mentali”. Da seduti ed al buio nel primo caso; in piedi e bombardati da immagini cangianti nell’altro. Ma il filo comune è stato proprio il mirare alla testa, non al corpo. Non al sudore cioè, non all’esaltazione, non alle mani in aria per una ripartenza, non al pedalare, non alle “bombe”; alla testa invece, all’emozione, a quella parte delle nostre sensazioni che rimbalza tra realtà e sogno, tra vero e surreale.
Oggi una fruizione diversa del clubbing diversa è possibile. E per motivi ben precisi
Il punto qual è? Il punto è che si potrebbe trasformare questa articolo nella solita giaculatoria stantìa per cui i quarantenni/cinquantenni dicono ai ventenni ed ai pedalatori “Non capite un cazzo, la vera musica e la vera cultura sono nostre, voi siete solo pecore all’ammasso, vergogna”. E’ un approccio che portano avanti moltissimi veterani del primo clubbing, quelli che negli anni ’90 c’erano e che oggi non si rivedono nelle adunate alla Social Music City (tanto per stare a Milano), al massimo provano a guadagnarci sopra, su di esse, tentando di infilarsi nel giochetto come promoter d’appoggio. Dimenticano però che loro, del clubbing, si sono innamorati proprio per il senso di adunata, di sfogo fisico estremo, di voglia di fattanza per sfuggire alla normalità, di sudore, di casino, di sensazioni fisiche “immediate” portate al limite; ed è giusto che tutte queste connotazioni nel clubbing rimangano, oggi. Non vanno demonizzate. Non vanno disconosciute. Il fatto che ad un certo punto ci possa essere una fruizione diversa molto più raffinata ed “onirica” del clubbing, come dimostrato dai live di Shackleton e Cooper, deve diventare solo la consapevolezza che oggi, rispetto agli anni ’90, il clubbing stesso può essere qualcosa di molto più interessante. Perché mentre negli anni ’90 ed anche nei primi 2000 era la novità con la “n” maiuscola ed era essenzialmente un qui&ora, adesso si sono stratificati attorno a questa musica e cultura esperienziale decenni su decenni di suoni, evoluzioni, consapevolezze, ed è possibile quindi avere più approcci. Approcci coesistenti fra loro. Sì, accidenti. Un tempo techno e house e breakbreat ed IDM erano ascoltate solo ed esclusivamente da ventenni, al massimo trentenni; oggi molti di questi ventenni sono diventati quarantenni, cinquantenni, sessantenni, e ci sta si sviluppino delle modalità d’ascolto e di fruizione (più) adatte a loro. E la risposta non è (solo) il festival coi nomi storici – anche bello, eh – dove ci sono solo gran revival, dove rispolveri i nomi grossi anni ’90 e li riproponi tali e quali, solo più imbolsiti, nelle stesse identiche situazioni di allora, di quando erano giovani e fiammanti (…ma sono imbolsiti gli artisti ed è un po’ imbolsito anche il pubblico). Di Bangface ce n’è uno, e quel festival è l’eccezione più che la regola: lì il il trucco del revival acid hardcore funziona, è talmente estremo e giocoso (e poco snob e pretenzioso…) da essere “vivo”, pulsante; ma davvero per il resto il tentativo di legarsi sempre e solo a certi nomi storici ti porta ad assistere ad eventi spompati, a simulacri di ciò che un tempo era davvero energia ed iconoclastia ed oggi è solo, né più né meno, quello che ti porta ancora a voler vedere i Rolling Stone dal vivo spendendo cifre assurde: lo fai cioè per il “ricordo”, o per l’”evento”, lo fai per l’”omaggio ai maestri”, non certo per la musica. Perché stiamo parlando un pugno di vecchietti – arzillissimi, per carità – che suonano roba di decenni e decenni fa. Non venirci a dire che lo fai per la musica. Solo che i Rolling Stone fanno uno spettacolo della madonna, almeno quello, mentre certi dj/producer eroi degli anni ’80 e ’90 fanno solo tenerezza e, onestamente, si vede che da tempo hanno perso il passo coi tempi.
Sam Shackleton all’Auditorum San Fedele e Max Cooper al Circolo Magnolia, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, ci hanno mostrato allora in modo nitido come non mai che può esserci una fruizione della musica elettronica figliata dal clubbing che sia “adulta” ma al tempo stesso viva, coraggiosa e sperimentale. Qualcosa che artisticamente osi, si prenda dei rischi, e non pensi solo a celebrare se stesso e/o la nobiltà del suo passato. Non per forza “adulto” deve diventare qualcosa di stantio, o snob; e non per forza una fruizione “seduta” (letteralmente nel caso di Shackleton, figurativamente nel caso di Cooper) deve significare perdere l’impatto, la voglia di rischiare, di superare i limiti.
La guerra a “io sono più vero e più bravo di te” è una guerra, oggi, particolarmente stupida, ora che l’ecosistema dei club – che sta alla base della “club culture”, lo dice la parola stessa – è in pericolo per mille ragioni, a partire dall’ingordigia delle dinamiche che circondano l’industria dei festival
Un insegnamento bellissimo, questo. Un insegnamento prezioso più che mai, ora che l’elettronica e il clubbing è diventata una musica che, piaccia o meno, può abbracciare ed effettivamente abbraccia più generazioni, abbraccia padri e figli, zii e nipoti. E’ qualcosa a cui dobbiamo ancora abituarci: sarebbe bello trasformarlo in una risorsa ed in una ulteriore ricchezza artistica, e non in una sterile guerra a “io sono più vero e più bravo di te”. Una guerra tra l’altro particolarmente stupida, ora che l’ecosistema dei club – che sta alla base della “club culture”, lo dice la parola stessa – è in pericolo per mille ragioni, a partire dall’ingordigia delle dinamiche che circondano l’industria dei festival.
E questa nuova ricchezza artistica, per quanto riguarda l’inedita situazione di essere diventati anche la musica delle persone di mezza età non più solo dei giovani, passa attraverso cosa? Passa attraverso l’agire di più nel “parlare” e rapportarsi creativamente con la testa, con la psichedelia, con la componente onirica. Una “nuova psichedelia” che può insomma dare nuova linfa e nuovo spessore al clubbing. Che resta una cosa bellissima. E qualcosa che non deve diventare ostaggio degli snobismi di parte, dei giovani che reputano superati e sfigati i vecchi, dei vecchi che trovano scimuniti ed ignoranti i giovani: perché proprio il clubbing e la club culture nascono come un’esperienza liberatoria ed inclusiva, non come un’esperienza cupa e settaria. Principio che è intergenerazionale, principio sempre valido, principio che dobbiamo sempre tenere come stella polare.