Da quando Valentina Magaletti ha iniziato, nella sua carriera si contano una sfilza infinita di progetti curati, collaborazioni artistiche e produzioni di ogni tipo, e questo pur cominciando con una formazione prettamente da batterista, un ruolo che molto spesso è più facile resti nelle retrovie e di cui è diventata faro e ispirazione negli ultimi anni (specie per certe realtà e ambienti sperimentali). La voglia di conoscere mondi sempre nuovi è elemento che muove la sua idea di musica in maniera irrequieta, costante e senza preconcetti: si fa fatica ad associarla ad un genere preciso, e questa è stata molto probabilmente una cifra, la sua.
In occasione del ritorno in Italia con una residency in combutta con la cantante e producer portoghese Nídia al Teatro Comunale di Siracusa, durante la quattro giorni di Ortigia Sound System a Luglio, abbiamo ripercorso con lei alcune delle tappe più significative fino a oggi, in un pomeriggio di fine primavera in cui la conversazione oscilla tra passato, presente ed un serratissimo e imminente futuro: «Mi hanno appena mandato la schedule delle date per i prossimi mesi: ho un po’ paura!», la nostra chiacchierata inizia così…
Tomaga, Vanishing Twin, Bat for Lashes, Thurston Moore, Nicolas Jaar, e stiamo citando solo una piccola parte, del mondo di Valentina Magaletti ad oggi. La tua carriera è costellata di progetti, collaborazioni ed incastri sempre molto diversi: arrivati a questo punto credo sia evidente si parli dell’elemento che muove perpetuamente il tuo racconto. Quanto è stato importante per te lavorare sull’incontro e lo scambio con le persone?
Fondamentale, direi. Ho sempre considerato la musica come un linguaggio che ha bisogno di interazione, quindi la voglia di conoscere è sempre stata al centro delle mie esperienze. Senza il confronto ci si tende a sedersi, a rimanere nel proprio safe space. Io sono abbastanza avventuriera, ascolto cose nuove in continuazione, mi piace essere sorpresa. Creare commistioni tra culture, caratteri e identità con la musica credo sia ciò che cambia le cose, specie trovando affinità artistiche e personali con chi collabori.
A questo proposito trovavo interessante un aspetto che approfondivi in una recente intervista, in cui dicevi che quando fai questo lavoro da molto tempo sviluppi una sorta di attenzione sociale: «Nella musica e in altri ambiti creativi bisogna essere in grado di percepire l’energia che emanano le persone». Quanto è stimolante per il tuo linguaggio questo fattore?
Molto, anche perché il rischio può diventare quello di non scegliere bene a cosa lavorare e con chi, quindi l’esperienza pian piano ti guida, in questo senso. E sai, facendo musica da vent’anni la mente è anche sovrastimolata, devi capire cosa ti interessa realmente fare. Però io parto sempre da un assunto molto semplice e quasi banale: questo non è un lavoro d’ufficio, non stai seduto dalle 9 alle 5 su una sedia. Se non abbracci la creatività e gli stimoli facendo l’artista come vorresti emergere? È fondamentale evitare di fare sempre le stesse cose, scoprire sempre altro. La musica te lo permette.
Te lo chiedo anche perché del tuo background si conosce già molto, ma nel ricostruirlo si reiterano appunto i nomi che ti hanno scelto o i progetti con cui hai collaborato: della tua vera storia e del carattere che ti ha permesso di avere un nome che conta (e conta davvero) si parla poco.
Sì, questo inoltre giustifica il fatto che ho ormai imparato ad evitare di fare name dropping, mettere sempre in mezzo nomi di artisti e persone con cui ho lavorato durante gli anni, quando capita per interviste o relativi incontri. Ho fatto tante cose e con persone diverse, ma il rischio insito nel processo di ricordarlo forzatamente è quello di non essere mai riconosciuta per il mio lavoro da produttrice.
Eppure forse ormai questa cosa è stata finalmente sdoganata, per te, non credi? Almeno, a giudicare dal successo che il tuo progetto adesso sta (con merito) riscuotendo.
Lo spero, per tutta questa serie di motivi. Ti faccio un esempio: ho lavorato recentemente con Marta Salogni per alcuni brani di Philip Selway dei Radiohead. Questa cosa, decontestualizzata e presa così per com’è, è sì, importante, bella, incredibile. Ma non voglio e non ho bisogno che rimanga l’unica cosa che faccia parlare di me, ecco. E così, analogamente, vale per quanto riguarda diversi altri casi.
Tornando nel concreto al tuo percorso, tra i primi, di incontri, ci sono quelli baresi con Agostino Marangolo dei Goblin e con Nicola Conte, in una scena sicuramente complicata per emergere a livello internazionale. Che periodo era, quello dei tuoi esordi?
È stato importante aver avuto un riconoscimento e una spinta a fare ancora di più, da parte loro ed in quella fase iniziale: a Bari sapevo già che sarei durata poco, non c’erano i presupposti per crescere e pensare di poterne fare un vero lavoro. Però allo stesso tempo, sai, ho iniziato a suonare a nove anni, sono sempre stata testarda e sono certa questa convinzione mi avrebbe comunque portato a riuscire, a prescindere dalla spinta di determinati incontri.
L’avresti fatto succedere comunque, insomma.
Sì, per me è stata una “maledizione” ma anche una grande fortuna: non conosco altri modi per esprimermi, se non con la musica. Quando mi chiedono «Wow, come sei prolifica! Ma come fai?» rispondo che è il mio lavoro, è quello che faccio ogni giorno. Perché dovrei farlo sembrare così difficile?
Ed in questo senso la scelta di trasferirti a Londra poco dopo gli studi ha aiutato questa traiettoria a rimanere costante, immagino.
Assolutamente: è un teatro incredibilmente stimolante, ti offre la possibilità di conoscere sempre nuova gente, nuove culture. Da casa mia a Cafe OTO ci metto due minuti a piedi, e quando entro lì so già che incontrerò qualcuno che mi solleciterà un’idea che forse era lì da qualche parte, in attesa di uscire.
Storia londinese che per te comincia con l’approccio a Kevin Davy, trombettista che collaborava con i Lamb (duo trip-hop che si faceva strada negli anni di Portishead e Massive Attack). Poco dopo arrivano anche gli Econoline, con cui nel 2002 registri una session radiofonica da John Peel. Robetta, insomma. Ma soprattutto: in quanto tempo succede tutto questo?
Praticamente appena trasferita. Diciamo che fu un’epifania abbastanza interessante (ride, ndr). Però parliamo anche di vent’anni fa, quindi in realtà per me il processo è stato molto lungo: Londra è una città ricca di stimoli, sì, ma anche molto difficile. Non è Berlino, dove tutti hanno un loro progetto e alla fine non ci fanno un cazzo. E lo dico con grande rispetto e amore per la città, ma in fondo sembra davvero il posto perfetto per fallire. La motivazione cambia tutto: New York o Londra sono realtà che non ti permettono di andare a ballare fino alle sette di mattina, svegliarti alle quattro e tutto il resto. Io penso di potermi rilassare solo adesso, dopo tanto tempo credo di non dover dimostrare niente a nessuno. Ma c’è davvero voluto lavoro e soprattutto dedizione.
Per continuare il racconto del tuo rapporto con la città, la storia recente in questo senso è legata molto all’incontro con Tom Relleen, conosciuto collaborando con un’altra band, The Oscillation, e con cui una decina di anni fa formi il duo Tomaga. Che incontro è stato quello? E che ricordo hai di lui? (Tom è scomparso nel 2020 a causa di un cancro allo stomaco, a 42 anni, ndr).
Tomaga nasce sostanzialmente come The Oscillation senza Demian Castellanos, che in qualche modo ne era il frontman. La band non faceva musica che amavo così tanto, a dire la verità. Con Tom ho invece da subito condiviso un certo tedio per la chitarra, specie per un approccio psych: avevamo esattamente gli stessi gusti, non ci dovevamo praticamente mai spiegare. Per dieci anni è stata la persona con cui ho lavorato di più e su tantissima musica, è stato tra i progetti più liberi e insieme prolifici che ho avuto la fortuna di portare avanti.
A fine Luglio tornerai ad esibirti in Italia, con una residency al Teatro Comunale di Siracusa all’interno di Ortigia Sound System. Con te ci sarà la portoghese Nídia, di cui si sa ancora abbastanza poco: come la conosci e come hai deciso di portarla con te per questa occasione?
È successo durante un festival che aveva curato Lafawndah al Southbank Centre a Londra, ed in cui suonavano anche Tirzah, Mica Levi e Coby Sey. Lei è pazzesca. Mi ricordo che l’approccio fu un po’ complicato, perché parlava un mix tra francese e portoghese, non riuscivamo a capirci benissimo, sul momento fu anche divertente. Dato che c’era voglia di provare a collaborare su qualcosa, dopo qualche tentativo le dissi: «Guarda, non è un problema: we can talk [with] beats». Da quel momento ho sempre voluto lavorarci, e quando mi è stato chiesto chi avrei scelto per la residency a Ortigia era tra i primissimi nomi che avevo in mente. Non ho ancora un’idea chiarissima di quello che faremo al festival, niente di troppo preparato, ma sono fiduciosa ne uscirà fuori qualcosa di interessante.
Nei prossimi mesi ci sarà spazio anche per un nuovo capitolo, “Suono Assente”, che stavolta mette insieme Italia, Giappone ed East London sotto l’alias V/Z, prodotto con Zongamin e in uscita a fine Giugno su AD 93. Di che si tratta?
È una delle cose a cui tengo di più ultimamente, perché sono riuscita a completare un disco da multi-strumentista, a lavorare in produzione, suonando basso, chitarre, tastiere e aggiungendo anche field recordings, quindi è un po’ un cerchio che si chiude. Si tratta di una collezione di pezzi abbastanza pop, nel senso di brani più “accessibili”, “fruibili”. Tra i primi feedback ci sono stati quelli di Gilles Peterson e Adrian Sherwood, quindi sono molto orgogliosa che il progetto si stia incanalando per il verso giusto.
Credi sia possibile creare una cultura in grado di dare a una giovane Valentina Magaletti che sta crescendo oggi, da qualche parte in Italia o altrove, la capacità di ispirarsi ad artiste come te? Con la possibilità che magari, in futuro, potrebbero perseguire la stessa strada.
Lo vorrei tantissimo, ci stiamo provando in tutti i modi. In quello che suono quando curo dei progetti che non siano miei l’80% della musica è prodotto da artiste donne, non-binary e queer. So anche che Marta (Salogni, ndr) realizza spesso dei workshop a Londra, dedicati e aperti solo a donne. Non c’è niente di strano, sono quelle che hanno meno possibilità di entrare in questo mondo, è giusto che si sappia. È importante dare un messaggio, perché collaboro con tantissimi uomini, certo, ma tutta quella frangia e quel movimento lì ha bisogno di più esposizione e fiducia di poter arrivare alle persone. Quando sei giovane è difficile essere autodeterminista, per quanto la tua personalità sia forte: se da qualche parte nel mondo esiste un’aspirante produttrice con lo stesso sogno e gli stessi dubbi che avevo io alla sua età, che mi scriva subito, senza problemi.