Con la Sampdoria che arranca (ma almeno si è liberata dall’incubo-Ferrero) e il Genoa che è venuto fuori dal purgatorio della B, il paragone col Napoli dei record e degli scudetti vinti stando eoni davanti alla concorrenza non inizia nemmeno, almeno per ora. Ma il chiacchiericcio sul “brand Napoli”, se ha trovato il suo trionfo nazionalpopolare col trionfo della squadra di Spalletti (perché il calcio, si sa, è l’unica cosa che veramente muove l’Italia tutta), in realtà è patrimonio dei più attenti già da molto prima. È patrimonio di chi ha visto esplodere l’operazione-Liberato (musicalmente internazionale e “global”, ma maniacalmente attenta a riprodurre in vitro una spintissima iconicità napoletana), o di chi si è accorto che i Nu Genea sono i veri trionfatori “underdog” della musica italiana degli ultimi anni (un fenomeno nato dal basso, da un vero approccio da club culture e da digger, gestendosi e diventando nazionalpopolare passo dopo passo), in un humus creativo, etico ed estetico che si nutre anche del lavoro affilatissimo di Zodyaco & Pellegrino, di Napoli Segreta, di una “intelligenza collettiva” da djing colto e sopraffino.
Vale lo stesso per l’hip hop: il trionfo numerico&commerciale di Luché prima e Geolier poi ha radici profonde, radici da cui anche il progetto-Liberato si nutre, in una scena da sempre fortissima tecnicamente anche (e soprattutto…?) quando era profondamente underground.
La musica traccia le coordinate e genera immaginari, c’è poco da fare. E l’esplosione “partenopea” degli ultimi anni è andata a fare giustizia e ad arricchire un quadro che per un sacco di tempo era (erroneamente) legato solo alla techno di Carola e Capriati da un lato e alla galassia neo-melodica dall’altro, almeno se parliamo di musica, mentre se parliamo di città l’immaginario era solo di problemi, lamenti e disfunzioni, non di ricchezza ed anima.
Non lo si capisce ancora abbastanza, in Italia: radunare delle energie attorno a visioni nuove, internazionali e intrise di club culture e/o cultura urban (l’autentico esperanto del ventunesimo secolo) in senso lato, è un gamechanger. Lo hanno capito Amsterdam, Barcellona, Berlino, Ibiza, lo aveva capito benissimo Londra già dalla fine degli anni ’80. In Italia, no. In Italia, siamo ancora strangolati da una visione che si limita alle “discoteche”, a Jovanotti e ad un edonismo pacchiano, oltre ai problemi di ordine pubblico (l’articolo 100 del TULPS, legge varata durante il regime fascista, è una vergogna ancora in atto ed ancora usata come una clava dalle istituzioni nazionali e locali, ma è altrettanto pessima anche la narrazione solo scandalistico-delinquenziale attorno alla trap). Una coazione a ripetere (errori), nelle analisi culturali e nelle interpretazioni sociali, che è tipica di un paese sclerotizzato.
Eppure la rinascita di Milano, gli osservatori più attenti lo sanno, è coincisa da un lato con la rinascita della sua scena clubbing e dall’altro quando le major discografiche hanno deciso di puntare tutto su un afflato urban. Roma dal canto suo ha vissuto il suo momento migliore quando più ricca ed avanguardista è stata la sua offerta musicale notturna, a cavallo del nuovo millennio, e forte la scena hip hop. Torino è fiorita nella considerazione collettiva non solo italiana quando hanno iniziato ad essere scoperti in tutta Italia i Murazzi e le sue energie&visioni techno/alternative/stradaiole: quelle di cui poi si sono nutriti, per crescere a dismisura fino a essere leader globali, Kappa FuturFestival e Club To Club).
Cosa è causa, cosa è effetto? Se ne può parlare. Ma di sicuro una correlazione c’è e non può non esserci, se si guarda bene. Gli agenti immobiliari dicono “Follow the gay”: lì dove si trasferiscono le comunità omosessuali, i prezzi dell’immobiliare sono destinati a salire vertiginosamente. Ok. Ma noi aggiungiamo: “Follow the club scene”, perché se lei pulsa, è molto più facile che una certa area o una certa città cresca a breve in modo dirompente nell’immaginario collettivo. Nazionale o addirittura internazionale. Rivalutandosi – in senso lato – a dismisura.
Questo film è stato girato quando una casa a Berlino più che decente costava 40.000 euro, e l’ingresso al Berghain era 8 euro. Continua sotto.
Ma dicevamo: Napoli. Tutti parlano di Napoli. E a buona ragione. Ormai è sotto gli occhi di tutti. “Napoli” è diventato un brand, un valore aggiunto. Perfino i peggio fighetti hipsterini della moda fanno a gara a dimostrare di essere “napoletani inside” da sempre. I Nu Genea quando sperimentavano ottima elettronica o flirtavano con l’afrobeat più o meno futurista erano un fenomeno di nicchia; quando hanno deciso di puntare forte su un immaginario mediterraneo a forte trazione partenopea, hanno iniziato invece a sbancare. Liberato se al San Paolo avesse sostituito il Dall’Ara (o il Santiago Bernabeu…) e se all’iconografia da Forcella avesse sostituito quella da Pratello, non avrebbe fatto nulla o quasi, sarebbe rimasto il personaggino electro-indie trascurabile e misconosciuto che era nella sua precedente incarnazione artistica. Questo perché ora tutti scoprono quanto è bella Napoli, quanto è viva e vitale, quanto è ”autentica” (rispetto all’inumano “precisismo” di chi vuole solo ordine e compostezza), quanto riesce ad essere profondamente umana, fisica, carnale, passionale. In definitiva: più interessante, più coinvolgente, più appassionante.
Bene, perfetto. Peccato che Napoli, e chi ci vive lo sa, in realtà non è cambiata così tanto: non è tanto diversa dalla città schifata da molti, guardata con sospetto da tutti, una città disordinata, inefficiente, caotica, divoratrice di se stessa in una eterna condanna al vivere e sopravvivere con difficoltà. Ma il polish messo dalle musiche e dalle culture giovanili più contemporanee di tutte (appunto la sfera urban e quella del clubbing) ha sovvertito la percezione e, in parte, pure un po’ di realtà (…e di fatturati). Alla buon’ora: la bellezza e la ricchezza non materiale di Napoli adesso risplende all’improvviso anche fra i distratti (…tanto questi ultimi saranno i primi a ributtarla a mare, quando smetterà di essere “di moda”, quando il suo “brand” non sarà più così hypato).
Risplende pure troppo, tutto ciò. Questa “bellezza della napoletanità” strombazzata ovunque sta diventando infatti un luogo comune, una rifrazione di plastica (…e Napoli, accidenti, è tutto tranne che una città di plastica). Vogliamo ora almeno che tutto questo si traduca in ricadute concrete, in un orgoglio di cittadinanza che porti ad affrontare i problemi senza vendere comunque l’anima al diavolo ed all’omologazione: a lavorare ad esempio sulle strutture (bene ad esempio la nascita di Arena del Sound, speriamo sia l’inizio di una serie di nuove venue di cui Napoli ha tanto bisogno per aggregare persone di qualità attorno alla musica), e su un orgoglio di sé che non sia solo ostentazione e folklore ma sia anche organizzazione, distinzione, professionalità diffusa, un posto dove il talento – e ce n’è tantissimo – non debba lottare per sempre contro i mulini a vento, ma sia riconosciuto ed aiutato da tutta la città.
Vedremo.
Ma quando Napoli non sarà più “di moda”, e ciò potrebbe avvenire a breve, quale potrebbe essere la nuova città su cui puntare le attenzioni, le fascinazioni, le scommesse? Ecco: i nostri due soldi li investiremmo su Genova.
Oh sì.
Qualche settimana fa pubblicammo un articolo che fece abbastanza discutere, presentando il festival Transatlantica. Un articolo che diceva, fra le altre cose, che in un certo tipo di scena musicale tanto “di strada” quanto di ricerca Genova aveva una storia importante, che andava recuperata e (ri)valorizzata – e che invece era stata lasciata andare in semi-malora in primis dai genovesi stessi, propensi come sono al mugugno ed al pessimismo. Perché pochi cazzi: propensi al mugugno ed al pessimismo disfattista i genovesi lo sono, punto.
…ma sono anche eroi e protagonisti di una città che ha uno spirito fortissimo (come facilmente hanno le città di mare), che è da sempre un crocevia di culture, che mette insieme antiche nobiltà&ricchezze con una classe operaia cazzuta. E che ha un rapporto viscerale con la musica: non in modo museale, no, in modo invece vivo, attuale, viscerale.
Proprio in questi giorni è entrato nel catalogo delle visioni di Amazon Prime il bellissimo documentario scritto da Claudio Cabona e diretto da Yuri Dellacasa e Paolo Fossati “La nuova scuola genovese”, uscito fugacemente nei cinema un anno fa e ora più facilmente visibile (consigliato, assai consigliato). Un racconto accuratissimo del “filo rosso” che lega il cantautorato storico genovese (De André, ovviamente, ma anche Gino Paoli, Ivano Fossati…) coi nuovi protagonisti del rap degli ultimi anni (Izi, Tedua, Bresh…). In entrambi i casi, Genova ha messo in atto una rivoluzione musical-sociale silenziosa, senza le fanfare del marketing ma capace di incidere dannatamente in profondità (e di raccontarla con autenticità, senza filtri). Tant’è che i cantautori della scuola genovese originaria sono ancora dei caposcuola a distanza di ormai non si sa quanti decenni; e chi ha fatto l’ossatura della scena genovese hip hop degli ultimi anni ha messo in campo una forza ed una integrità stilistica non banale davvero parecchio personale, così tanto da conquistare il mercato prima di tutto col semplice passaparola.
Un documentario che non dovreste perdervi. Continua sotto.
Il modo in cui “La nuova scuola genovese” mette queste due storie a confronto è bellissimo, e le similitudini – così come il profondo rispetto reciproco – vengono fuori in modo naturale (…e, per questo, ancora più intenso). La sceneggiatura e i dialoghi sono perfetti (incisivi, mai ridondanti), le immagini sono bellissime perché mostrano da un lato la bellezza di Genova, ma dall’altro ne sottolineano l’austerità, la patina grigia, la sinistra immobilità: è una Genova “vera”, non una Genova da cartolina.
Però ecco: proprio questa Genova “vera”, grigia e semi-immobile, ha prodotto la scena hip hop – perché è veramente una scena – più interessante dell’ultimo decennio. Sì, a Milano si nasce cazzuti e stilosi, e/o si viene a fare i soldi e a diventare testimonial per i brand venendo ricoperti di euri, ma le idee, lo stile e la personalità sono stati tratteggiati in questi anni in primis a Napoli e Genova più che altrove. Questo è il primo tassello da tenere bene a mente, nel discorso che stiamo cercando di fare.
Il secondo tassello, dice che a Genova c’è una attività e una propositività nel campo della club culture che non si vedeva da anni. Di Transatlantica abbiamo già parlato, e rappresenta un filone specifico (quello che recupera la tradizione e la immerge nella coolness del clubbing più sofisticato e “da intenditori” con un occhio al vintage ed al rare groove); ma in questo weekend ci saranno da un lato Electropark (14-16 luglio), che in tempi non sospetti ha iniziato a portare avanti in città – a parte una breve fuga a Milano – la bandiera dell’elettronica di ricerca, quella più sintonizzata con la “musica avanzata” da Sónar diurno o da Unsound, un percorso avaro magari di grandi numeri ma ricco di contenuti e stimoli intellettuali di dimensioni globali (quest’anno tra i protagonisti James Holden, Nziria, Ninos Du Brasil, Valentina Magaletti: che bell’elenco); dall’altro un’altra puntata della serie di appuntamenti targata First Festival / RST Events, crew che con parecchio coraggio, con moltissima organizzazione ed altrettanta cazzimma ha portato a Genova da un decennio almeno il clubbing dei grandi nomi e dei grandi numeri, qualcosa che in alcune realtà può essere stucchevole, a Genova invece è stata una salutarissima scossa all’insegna del “si-può-fare” (cioè: puoi fare eventi da migliaia di persone che non siano solo le messe rock sotto la cupola Goa Boa; puoi usare strutture come il palasport anche per la musica; puoi portare nomi che stanno nel “salotto buono” del clubbing a grandi cifre e grandi poteri – questa domenica 16 luglio, negli spazi della Fiera, i protagonisti saranno Ben Klock, Marcel Dettmann, i bravi Mathame e Camelphat). Date un occhio a ‘ste due cose sotto, e poi proseguite nella lettura:
Ora: non vogliamo limitare tutto a Transatlantica, Electropark e First Festival. Per carità. Anche perché altrimenti sentiremmo già i mugugni di tutti gli altri. Non esistono solo loro tre, certo; ma loro tre stanno indiscutibilmente facendo un lavoro importante, anzi, fondamentale per insufflare Genova di vita, di cultura, di socialità, di contemporaneità, di non-nostalgismo, di non-pessimismo; esattamente come la scena hip hop è diventata importante nel momento in cui ha scommesso su se stessa senza rinnegare l’orgoglio di “essere Genova (e dintorni)”.
Tutto questo in una città che, esattamente come Napoli, ha un gravissimo problema con le strutture (vuoi per mancanza di spazio fisico, vuoi per mancanza di programmazione e progetti delle istituzioni), ha un fortissimo spirito d’appartenenza, rifiuta di vendersi all’omologazione “da marketing” (cosa che è sia un pregio che una croce ed un limite), possiede una personalità rara e spigolosa: estroversa quella napoletana, più introversa invece – come i panorami immobili e grigi de “La nuova scuola genovese” – sotto la Lanterna.
Tutte queste caratteristiche ci fanno pensare che se “salta il tappo”, a Genova, se si dà cioè forza ed appoggio alle forze creative cittadine, si potrebbe arrivare ad un nuovo “brand”. Sì, un “brand Genova”. Perché è una città che merita di essere vista, vissuta, visitata, e dove le energie della club culture e della realtà urban – come spiegavamo, le culture più dinamiche e dominanti del ventunesimo secolo – grazie al lavoro tenace ed al talento di un bel gruppetto di cazzuti protagonisti dietro e davanti le quinte stanno venendo fuori molto più che in passato.
Se poi Genova diventerà “brand” davvero, ci sarà da celebrare chi ha tenuto in vita la fiammella anche nei tempi più bui (dal mitologico Zerodieci, una “micro Berlino” quando Berlino era veramente Berlino, ai locali più banalmente commerciali): per carità, ci mancherebbe. Ora però sarebbe da lavorare tutti insieme, senza divisioni (e mugugni…) per cogliere il momento, raccogliendo – e moltiplicando – i frutti della fatica spesa durante gli anni più bui.
Tutto questo per rendere orgogliosa ma anche più dinamica, più viva, più aperta e più affascinante tutta la città. E nel momento in cui il resto d’Italia si accorgerà di Genova, della sua bellezza, del suo spirito, del suo orgoglio, della sua specificità, beh, non potremo che giovarne tutti. A partire dagli agenti immobiliari e dei proprietari di case, certo. Ma dei loro guadagni spropositati, ce ne occuperemo (forse) quando sarà il caso: ora diamoci da fare, Genova ha tanto forza, bellezza, curiosità, personalità da comunicare. Incastoniamola nel presente.
Sennò tanto vale che ci teniamo il milanocentrismo malefico, con la sua prosopopea e una città sempre più a misura di ricco e/o ossessionato dalla carriera e dal guadagno.
…ma anche no: e pure i milanesi più intelligenti, attenti e curiosi lo sanno.