Anche in anni e periodi difficili come questo Nextones non molla, anzi. Co-organizzato nell’ultimo periodo dal team che dà vita anche a Terraforma (Threes Productions), si inserisce sempre a meraviglia e con stimoli mai banali nel programma più vasto di Tones On The Stones, la rassegna che permette di ascoltare musica immersi in scenari semplicemente ma semplicemente incredibili. Scenari dove veramente la natura diventa una sfida, diventa una geometria monumentale, diventa un mondo metafisico e vertiginoso. Pochi festival in Europa vantano un tale tasso di suggestione. Se poi pure la scelta artistica è raffinatissima – come praticamente sempre avvenuto nella storia di Nextones – il quadro complessivo è perfetto e rende assolutamente giustificata, anzi, necessaria la spedizione verso la Val D’Ossola, e pazienza se sembra un posto lontano da molto, lontano da tutto (anche dall’hype). Certe cave di marmo iper-spettacolari meritano un viaggio anche di centinaia di chilometri tra andata e ritorno, fidatevi.
L’edizione 2021 inizia ufficialmente oggi, 27 luglio, con una serie di attività/performance a numero chiuso andate già sold out. Ci sono invece ancora biglietti per le due serate principali, 30 e 31 luglio (biglietti qui), che vedranno protagonisti come Lubomyr Melnyk (che presenta in anteprima mondiale un progetto che coinvolge anche la violoncellista Julia Kent e i visual artist SPIME.IM), Pantha Du Prince (che porta per la primissima volta in Italia il suo nuovo live set a nome “Conference Of Trees”), Caterina Barbieri (che per Nextones ha pensato ad uno spettacolo fatto e costruito per l’unicità del luogo, chiamando a sé anche il sassofonista Bendik Gikse, la dj/producer Nkisi, il visual artist Marcel Weber) e la sempre più brava Adiel.
Proprio Adiel è il fil rouge che ci collega al set di chiusura del festival, un set che per certi versi è quello che ci intriga di più (anche perché ci sono arrivati feedback ottimi del live a roBOt Festival a Bologna quest’anno – che poi era praticamente il primo in assoluto, per il progetto). E’ proprio per la label personale della dj romana, Danza Tribale, che è uscito l’ultimo lavoro di Tamburi Neri, un bizzarrissimo e molto affascinante oggetto-non-identificato che si aggira per il clubbing di casa nostra. Parliamo di clubbing perché appunto c’è Adiel di mezzo, ci sono in campo remixer come Marcel Dettmann (di recente) e Leo Mas (in passato), ma l’avventura artistico-espressiva creata dal producer Claudio Brioschi (aka Briosky) e da Andrea Barbieri (aka una delle persone dall’umanità più travolgente che vi possa capitare di incontrare) è qualcosa davvero difficile da definire. E allora che abbiamo fatto? Abbiamo chiesto a loro un po’ di raccontarla, un po’ di descriverla… e il risultato è sapidissimo. Nextones anche quest’anno colpisce nel segno, pure quando si tratta di esplorare nuovi territori e nuovi nomi.
Insomma, come nasce Tamburi Neri?
Brioschi: Io e Andrea ci conosciamo da una decina d’anni. Ci siamo incontri per la prima volta in Val di Mello. Lui all’epoca aveva lì questo piccolo locale che era un po’ bar un po’ un vero e proprio club (in mezzo al nulla!) chiamato Kundaluna, ed era talmente folle da organizzarci ogni tanto anche dei dj set. E’ così che sono finito nella sua orbita, in un serata in cui c’erano anche i Barking Dogs (il duo formato da Nicola Mazzetti di Serendeepity e Cristian Croce di Discosafari, NdI). Ci siamo conosciuti, abbiamo iniziato subito a frequentarci, e comunque io e Cristian avevamo scelto proprio la Val di Mello come una specie di “ritiro spirituale” per realizzare al meglio alcune nostre release a nome Boot & Tax. Progetto che ad un certo punto si è esaurito, ed è lì che mi è venuto in mente di dire ad Andrea qualcosa che in realtà avevo avuto già occasione: “Guarda che ti vedo benissimo a stare su un palco, sai?”. Lui in realtà si stava avvicinando in quel momento già al deejaying (e pure questa era una cosa atipica, ci è arrivato molto tardi: chi altri conosci che ci arriva passati i cinquanta, non per convenienza ma per passione?), e questo mio stimolo lo ha motivato ulteriormente. Cosa ha fatto? Ha iniziato a tirare fuori appunti su appunti di testi ed idee che aveva accumulato negli anni, così come vinili che potessero fare un po’ da punto di riferimento stilistico per un ipotetico nuovo progetto. Armato di tutto questo, è venuto a trovarmi in studio. Per me andava benissimo: io già di mio sono anche producer conto terzi, quindi figurati se non mi andava di aiutare Andrea in questa cosa aiutandolo a fare due o tre pezzi, per vedere un po’ l’effetto che poteva fare. In realtà non c’erano grandi pretese, all’inizio; ma è successo che lavorando insieme ci siamo letteralmente innamorati l’uno dell’altro – complici certe sonorità lente ed ipnotiche, il cantare in italiano… cose che hanno fatto scoccare la scintilla in modo quasi inatteso.
Barbieri: Pensa che le prime cose, come testi, risalgono addirittura all’inizio degli anni ’90, come “Pechino”. Altre sono state poi pensate, immaginate, scritte negli anni successivi, fino ad arrivare ai giorni nostri. Quello che è bello è che, nel momento in cui è nato Tamburi Neri, c’è stata l’interazione per cui Claudio – che è un producer a tutto tondo – mi ha dato dei suggerimenti bellissimi per affinare la metrica dei miei testi e renderli perfetti diventare anche musica. In ogni caso sia col materiale vecchio che con quello nuovo la regola è e resta una sola: sono sempre e comunque storie che in qualche modo appartengono a me, al mio vissuto, e al tempo stesso riescono anche ad esprimere in modo molto naturale qualcosa in cui crediamo entrambi.
Fino a che punto Tamburi Neri è un progetto legato al mondo del dancefloor?
Brioschi: Eh, questa è una buona domanda. Mettiamola così: abbiamo sempre cercato di fare qualcosa che stesse nel mezzo. In realtà, in origine pensavamo addirittura che Tamburi Neri avesse un’identità più da performance teatrale. Soprattutto alcune tracce erano state scritte e pensate per avere uno sbocco di questo tipo. Però poi sai cosa? Entrambi siamo dj, entrambi andiamo spesso nei club (o almeno – lo facevamo quando si poteva), entrambi balliamo, quindi, come dire… un po’ la mano ti scappa! E su questa cosa ci piace giocare, sì. Alcune tracce hanno in effetti un’impronta da dj, altre però per nulla. O ce ne sono alcune, come nel caso di “Dolce veleno”, in cui ciò che viene fuori è uno strano ibrido, con una prima parte parlata e poi il beat che entra. Sì, siamo contenti di “stare nel mezzo”.
Barbieri: L’importante è che ciò che facciamo ci commuova. Prendi “Urlo”, la traccia uscita ora su Danza Tribale. Un inno alla vita. Claudio l’ha stravolta: originariamente era una traccia con un beat ed era quasi canonica, poi una sera Claudio un po’ dal nulla mi chiama e mi fa “Ascolta, eccola, ‘Urlo’ deve essere così” e mi fa sentire questa versione completamente svuotata, del tutto non da dancefloor, senza beat. Sono davvero fortunato ad aver incontrato Claudio: è una persona in grado di interpretare qualche volta ancora meglio di quanto possa fare io i sentimenti che mi attraversano. Sai, oggi come oggi vedo tanta gente preoccupata di “arrivare”, di ottenere il successo, di farsi notare. Non è che non vogliamo “arrivare” alle persone: se fai musica fa parte del tuo lavoro, e noi vogliamo che la musica sia il nostro lavoro. Ma il “come arrivare” è ancora più importante dell’”arrivare” in sé e per sé. Una traccia deve emozionare noi. Solo nel momento in cui emoziona noi, possiamo sperare possa emozionare anche gli altri.
Brioschi: Sottoscrivo praticamente tutto di quello che ha detto Andrea. Aggiungo giusto che io al massimo in qualche passaggio faccio vare la mia maggiore esperienza da producer ed anche da dj, suggerendo qualche modifica che permetta di rendere più fruibile il tutto – in qualche caso anche nei testi. Prendi “Pechino”: originariamente era un testo di tipo diciotto pagine, abbiamo scremato molto per arrivare a dargli una forma definitiva e soprattutto d’impatto. La mediazione ci sta, insomma; basta che non diventi compromesso. Anche perché a noi, lo dico chiaramente, va meglio piacere a pochi ma buoni.
Barbieri: Infatti di sicuro piacciamo a noi stessi, che siamo pochi – due – ma buoni! (risate, NdI)