I Moderat, certo. Avremo modo di presentarvi una lunga chiacchierata con loro nei giorni precedenti alle due date italiane (Milano e Roma, già sold out da tempo), ma ora che esce il loro “III” abbiamo voluto prima di tutto fare una lunga, bellissima chiacchierata con KRSN e Codec, overo due dei leader e fondatori del collettivo Pfadfinderei – un collettivo da sempre con loro, che esiste da prima di loro e che è soprattutto oggi una delle realtà audio/video più prestigiose d’Europa. Una storia molto intensa, questa, e soprattutto con una visione molto chiara. Davvero, qui di fronte a voi un’intervista che dovreste leggere: c’è tanta, tantissima sostanza. Ed è una storia sì berlinese, certo, ma molto lontana da luoghi comuni e dalle convinzioni più sterili sulla città e sulla sua vita artistica, luoghi comuni e convinzioni che stanno diventando sempre più difficili da sostenere, da sopportare.
Beh, inizialmente inizierei dalla vostra storia, dalla storia di Pfafinderei – una storia che in realtà, almeno in Italia, non è stata raccontata tante volte.
KRSN: Direi che nasce tutto verso la fine degli anni ’90, mi pare precisamente nel 1998: è in quell’anno che abbiamo ufficialmente deciso di lavorare come collettivo, se non sbaglio. Ci conoscevamo già da prima, ovviamente; continuavamo ad incrociarci in giro, e a furia di incontrarci e di parlare dei nostri interessi e delle nostre visioni in comune ci siamo ad un certo punto detti: ok, e se fosse una cosa furba mettersi tutti quanti assieme? Racchiuderci in una cornice comune? Anche perché ogni volta che ci capitava di collaborare, beh, ci divertivamo parecchio, andavamo davvero d’accordo. Anche e soprattutto sulle cose operative, cosa molto importante.
E’ stata prima di tutto la musica a mettervi assieme, no?
K: Sì. Anche se alcuni di noi avevano un background nella scena techno, sì, ma altri invece in tipi di musica che non c’entravano nulla con l’elettronica e il clubbing; altri ancora poi non avevano nemmeno bazzicato particolarmente i contesti musicali ed erano più legati ai circuiti dell’arte e del graphic design. C’era di tutto, insomma. Ma è stata la musica, sì, la prima a dare una spinta al nostro lavoro come collettivo. Codec ad esempio era molto dentro alla faccenda del graphic design, e nella scena techno se vogliamo guardare a quella era molto attivo prima di tutto come creatore di flyer; ricordati che negli anni ’90 non c’era Facebook, non c’era Instagram, l’identità di una serata o di un posto correva prima di tutto sulla carta, appunto sui flyer, contavano veramente tantissimo, all’epoca. Così come all’epoca le copertine dei supporti discografici erano molto più importanti di ora, quando molta musica viene veicolata semplicemente senza cover alcuna.
Codec: E poi insomma è arrivata la scena techno, la scena delle serate nei club, che in un determinato periodo storico è stata davvero qualcosa di molto stimolante, affascinante, nuovo. Sai, inizialmente Pfadfinderei era giusto il nome dello studio in cui lavoravamo tutti assieme, uno studio fatto di professionalità composite: vj, graphic designer, illustratori, ma anche direttamente tipografi. Visto però che la Bpitch era una delle realtà con cui lavoravamo di più, era inevitabile che la musica assumesse un ruolo preminente. Tanto più che dopo un po’ abbiamo alzato il livello e iniziato a fare delle serate in prima persona, chiamate Labland. Oddio, non erano vere e proprie serate nei club: era qualcosa di più sperimentale, quasi dei “salotti aperti”, dove la ricerca del nuovo e della combinazione/contaminazione continua la facevano decisamente da padroni. C’era di tutto. Da noi che mixavamo immagini fra loro usando dei VHS (…ti rendi conto?!), a cantanti che arrivavano lì e iniziavano ad esibirsi… Insomma, era un posto dove si radunavano molti talenti, e molto diversi fra loro. Del resto il nome della serata era già una dichiarazione d’intenti, no? Lab, come laboratorio.
K: La chiave musicale dominante era quella dell’IDM, l’intelligent dance music, come la chiamavano allora, quindi dagli Autechre in giù: eravamo appunto di background differenti, ma questa era una sonorità che metteva tutti d’accordo. Sai perché, anche? Perché volevamo tutti dimostrare che l’elettronica e il clubbing non erano solo i generi musicali all’epoca imperanti – techno, jungle, house, hip hop – potevano invece essere anche altro. E l’IDM all’epoca non aveva un posto “deputato” nel panorama berlinese, non c’erano club o serate a lei dedicati.
C: All’inizio c’era ben poco di “dance” in Labland… Quando la serata aveva sede nel vecchio WMF, ecco, lì è stato fantastico: perché avevamo tante sale a disposizione, e in ogni sala cercavamo un mood diverso. Inizialmente cercavamo più le atmosfere, la suggestione; poi sì, va detto che anche noi abbiamo preso un orientamento sempre più dance, diciamolo. Ma era inevitabile: prendevamo sempre più commesse per Pfadfinderei legate a roba performativa, a faccende relative allo stage o room design; inevitabile quindi che diventassimo sempre più “mossi” e sempre più interessanti a costruire/gestire un contesto dinamico, era questo che le circostanze ci stava chiedendo. Però ecco, le radici sono differenti, se vogliamo essere precisi. Di sicuro eravamo fin da allora veramente un bell’insieme di creativi, se mi guardo indietro vedo davvero molta ispirazione e molte idee. Del resto i primi anni 2000 a Berlino sono stati davvero vibranti. Sai qual è una cosa bella, di quella storia lì? Era comunque tutto piccolo, in Labland: eventi da poche centinaia di persone, talvolta addirittura da decine di persone, non di più, ma questo ti permetteva di essere creativo fino al midollo, di prenderti tutti i rischi possibili – sempre però tentando di mantenere una personalità riconoscibile. Qualcosa di legato all’estetica minimalista, sicuro.
Minimalista, ma molto colorata. Quello che mi ha sempre colpito di Pfadfinderei è che aveva sì dei tratti molto essenziali ma, diversamente dagli altri “minimalisti”, dava vita a qualcosa di comunque parecchio colorato. Eravate fin da subito un’anomalia.
C: E’ assolutamente così.
K: Verissimo, soprattutto in un determinato periodo storico. Era una delle cose che ci caratterizzava.
C’è stato un momento di svolta, nella crescita di Pfadfinderei?
K: No. E’ stata una crescita graduale. Questa che ti abbiamo raccontato è la prima parte della nostra storia; poi progressivamente sono arrivate committenze diverse, anche da parte di brand, e ci siamo trasformati anche in agenzia creativa oltre a continuare ad essere tutto quello che eravamo in origine e ad implementare la nostra attività nel campo delle mixed motion arts.
C: I primi anni di Pfadfinderei sono stati qualcosa che, ecco, poteva succedere solo a Berlino. Qualcosa che a Londra, Parigi, Milano o altre metropoli simili non avresti mai potuto veder nascere. Mai. Il motivo? Gli affitti bassissimi: che ti permettevano di lavorare con calma, di darti il tempo di crescere professionalmente, di maturare creativamente, di darti una propria identità. Un aspetto molto delicato, che spesso devi bypassare per fare fonte a necessità materiali impellenti. Comunque sì, confermo: la nostra è stata una crescita graduale. E sì che fin dall’inizio per noi questa è stata un’avventura seria, attenzione, tutti eravamo molto coinvolti da questa idea di voler “visualizzare la musica”, ci credevamo parecchio. Poi ovviamente, quando sono arrivate le prime committenze esterne, da parte cioè di realtà non legate al mondo dell’arte e della musica, le cose si sono fatte ancora più professionali. Ma penso di poter dire che questo non ha minimamente cambiato il nostro approccio.
La competizione, è mai stata un problema? Perché competizione nel vostro campo ce n’era, a Berlino direi ancora di più. E Berlino è una città dove, da molta gente, almeno a parole, la competizione è vista come qualcosa di molto fastidioso se non addirittura malefico e negativo.
C: Guarda, ripenso al periodo post 11 settembre 2001 e alla crisi feroce che investì le major, il loro modello di entertainment, e di conseguenza anche la loro possibilità di affidare delle committenze; ecco, in quel momento il fatto di poter anche dare vita a serate vere e proprie fu la nostra salvezza, fossimo stati un solo studio grafico/creativo avremmo rischiato di morire sul nascere. Perché puoi decidere di non pagare per delle idee e di risparmiare, ma avrai sempre voglia di uscire fuori a divertirti – quindi ci sarà sempre spazio per chi offre qualcosa di vivo, e dal vivo. Ma la competizione, sia chiaro, per me è un’ottima cosa. Amo la competizione. La amo. Perché la competizione permette la varietà. Adoro che all’interno di una scena ci siano molti artisti, molte crew, molte agenzie: questo significa quasi sempre un maggior quantitativo di creatività. Sì: la competizione fa bene alla creatività. Questo dovrebbero tenerlo a mente in tanti. Ricordo quando abbiamo iniziato: a Berlino c’erano qualcosa come quindici se non addirittura venti crew di vj, un numero enorme, e proprio questa situazione ci ha spinto a lavorare al meglio, a darci da fare, a curare nel modo migliore possibile ogni singolo aspetto di quello che facevamo. Questo è stato fondamentale. Davvero: fondamentale.
Come mai alla fine avete vinto voi?
C: No, non direi che abbiamo “vinto”. Non la butterei giù così.
Ma siete innegabilmente una realtà molto forte, mentre di molti altri si sono perse le tracce, di quel periodo “magico” berlinese.
K: L’unica cosa che posso dire è che siamo sempre stati onesti verso la nostra arte e la nostra creatività.
C: E che abbiamo sempre lavorato bene.
K: Eh, forse è questa la “tedeschitudine” che c’è in noi, sgobbare tanto ed essere abbastanza perfezionisti. Ma questo da solo non sarebbe bastato: il punto è che siamo sempre stati maniacalmente attenti ad avere sotto controllo quella che era la nostra strada, e a non allontanarcene. Chiaro: ogni tanto succede che arriva un committente a cui non è il caso di dire di no, che ti dà dei paletti molto forti, ma anche lì siamo sempre stati attenti a mettere sempre in primo piano la nostra direzione, la nostra identità artistica. Credo sia questo il segreto che ci ha permesso di sopravvivere in tutti questi anni, con una salute sempre migliore. Sì. Abbiamo insomma lavorato tantissimo sulla nostra “voce”, sul nostro stile. Vedi: noi non siamo degli esecutori, per quanto bravi. Non siamo quelli che ti preparano tutto, ti noleggiano le strutture, rendono tutto esecutivo, spingono i bottoni giusti al momento giusto – rispettiamo molto chi lo fa ma no, noi non siamo così, non siamo questo.
C: Anche negli show più grandi, di cui curiamo tutti gli aspetti, noi siamo prima di tutto come ruolo un design studio, non altro. Ci sono crew che hanno un approccio differente: quelle che prima di tutto ti risolvono ogni problema pratico, ti affittano tutte le attrezzature necessarie, ti coprono ogni esigenza esecutiva. Non significa siano meno bravi di noi: c’è gente eccezionale in quel campo lì. Semplicemente però questo non è il nostro approccio e non lo sarà mai. Noi, prima di tutto, abbiamo una storia. Una identità. Qualsiasi cosa noi abbiamo fatto è stata, creativamente, pensata e curata nei dettagli per essere rispondente al nostro gusto e alle nostre intenzioni. Di modo da poterci rendere riconoscibili, inconfondibili. Noi siamo noi, e non possiamo essere nessun altro. Non possiamo, né vogliamo.
E’ importante essere perfezionisti, sul lavoro?
C: Sì, ma fammi dare l’esatta definizione di “perfezionismo”. Una cosa è “perfetta”, per quanto ci riguarda, se lascia anche sempre il giusto spazio all’improvvisazione, alla libertà creativa. Se le condizioni di base sono queste, allora sì: allora il perfezionismo è voluto e necessario. Perché è quello che ti permette di mantenere in piedi e rendere efficace la tua visione – una visione dove appunto anche la libertà gioca un suo ruolo, e deve sempre giocarlo.
K: Che poi, quando si tratta di un palco, la perfezione è qualcosa che non puoi avere quasi mai. Devi essere in grado di fare compromessi, di essere elastico; e tu che ci hai seguito in molte date italiane dei Moderat come tour manager credo sappia bene cosa intendo, no? Ogni tanto ti ritrovi in situazioni in cui, ecco, devi saperti adeguare. Non tutti sono precisissimi nel rispettare la scheda tecnica (…anche se lo dovrebbero essere, anzi, se state leggendo queste righe e state per organizzare un nostro show beh sappiatelo: ora dovete esserlo!). Non siamo mai stati in una produzione di un tour di una megastella del pop, tipo Madonna, dove ogni singolo momento è calcolato al millimetro e nessuno può sgarrare. Siamo sempre stati e abbiamo sempre preferito essere più rock’n’roll: più pronti ad improvvisare, più pronti ad interagire con la venue (le sue dimensioni, la sua distribuzione spaziale) e col pubblico (il suo calore, il modo in cui reagisce – qualcosa che varia da concerto a concerto). Vedi, in teoria lo show dei Moderat ad ogni tour è sempre lo stesso, ad ogni singola data; ma in realtà cambia ogni volta, cambiano i palchi, cambiano i pubblici… Ecco, per dire, noi dal nostro banco luci e visuals siamo sempre molto attenti a vedere come si sviluppa l’interazione tra band e pubblico.
Sentite, com’è invece lavorare coi brand? Difficile? Noioso? Fastidioso ma remunerativo? Remunerativo ma fastidioso?
C: Ah, ma che due palle ‘sta questione, davvero, che cosa patetica… La verità sarebbe molto semplice: lavorare coi brand è ottimo e non dà il minimo problema. A patto di lavorare coi brand giusti.
Vabbé, grazie. Troppo facile così.
C: No no, dico sul serio! Non sono così ingenuo da dire che lavorare coi brand non sia diverso rispetto al lavorare con musicisti o con progetti artistici: chiaro che le cose cambiano, mica lo si può negare. Non è solo il fatto di lavorare per un committente, questo può accadere anche in campo artistico, ma quando c’è un brand di mezzo lavori per un committente che ha proprio obiettivi ben precisi (e non necessariamente artistici). Se il brand arriva da te, non è solo per un caso o perché gli stai semplicemente simpatico; è anche perché vuole ottenere qualcosa – e tu devi aiutarlo a poterlo ottenere. Che è una sfida lavorativa mica male, credimi. Può dare molta soddisfazione. Ovvio, ci sono diversi livelli d’ingaggio: c’è chi ti chiede semplicemente un artwork, e allora lì la tua libertà è notevole; ma altri invece ti chiedono qualcosa che arriva ad investire la dimensione dell’evento, qualcosa che renda una presentazione, una conferenza stampa o qualcosa del genere unico, immersivo, particolare, in grado di colpire parecchio i presenti – e i presenti sono gente che non è arrivata lì pagando il biglietto per te, intendo per te brand. Devi saperli “rapire” e sedurre lo stesso. Questa è davvero una bella sfida. Ovvio, non tutto è rosa e fiori, ogni tanto ti capita di dover fare dei compromessi…
…ogni tanto arrivano ad interferire proprio nelle decisioni artistiche, o almeno ci provano, no? Dai, lo so che è così.
C: Sì che lo fanno. Ma alla fine dei giochi se sono arrivati da noi è perché, evidentemente e chiaramente, volevano noi, la nostre voce, il nostro stile – ripensa a quanto ti dicevamo prima. E’ lì la chiave. Il tempo che abbiamo speso a lavorare su noi stessi, sulla nostra identità.
Siete nella posizione in cui sono gli altri ad aver bisogno di voi, e non viceversa. Per certi versi, siete il marchio di voi stessi.
C: Esatto. E sono vent’anni che lavoriamo su questo. Da quando abbiamo iniziato. Nemmeno intenzionalmente, guarda: è che fin dal primo giorno questa strategia ci è venuta naturale, inevitabile, spontanea. Inoltre, abbiamo sempre ritagliato abbastanza spazio per avere i nostri “playground” creativi privati, spazi cioè dove esercitarci con libertà assoluta e senza rendere conto a nessuno, dove avere carta completamente bianca e fare tutti gli esperimenti del caso. Quando è così, quando hai questa “realtà parallela”, ti va anche bene che ogni tanto arrivi un cliente bello forte dove la possibilità di sperimentare troppo e prendersi qualsiasi libertà sia bandita. Guarda che è un’arte bella e difficile saper interpretare e realizzare i desideri di un committente… Inoltre, ci è capitato di lavorare per committenti così diversi fra loro – moda, automobili, scarpe, scienza, musica classica – che già questa sola varietà è una fortuna in sé: perché dona molta, moltissima creatività. Siamo felici, anzi, felicissimi di avere non solo progetti “artistici”, o non solo progetti musicali, ma anche progetti diciamo così commerciali. Ne siamo davvero felici, guarda.
Beh, vi hanno mai detto invece che questo vostro alternare il tipo di committenza è, insomma, uno “svendersi”?
K: Certo che sì.
Ecco, immaginavo.
K: Beh, lì fuori il mondo è complesso. La più grande ricchezza per un artista è la libertà; e quella ecco devi guadagnartela, non è che di solito piove dal cielo. Tutti quelli che giudicano, che parlano, che dicono che non sei più un artista “vero” perché ti capita di lavorare anche per dei marchi commerciali… mah… Che poi: cosa c’è di male in quello che facciamo? Capisco se i nostri committenti fossero produttori di armi, ma…
C: Un po’ di tempo fa facemmo una installazione interattiva, una cosa comunque molto piccola, per un gruppo editoriale tedesco molto famoso e famigerato, quello di Springer (una specie di Berlusconi tedesco, ma senza la “discesa in campo”, NdI); insomma, abbiamo lavorato per i “cattivi”, secondo un certo modo di vedere le cose. E ok. Ma sai che c’è? Che piaccia o meno, anche quel gruppo editoriale fa parte della realtà che ci circonda… Una realtà evidentemente significativa, tra l’altro, visti i numeri che fa. E al di là di questo, il lavoro che abbiamo fatto è stato buono, è piaciuto alla gente, chi ci ha interagito si è divertito molto: quindi siamo soddisfatti. A dirtela tutta, guarda: abbiamo utilizzato e utilizziamo così tanto tempo per dare qualcosa gratis alla cultura che sentiamo come “nostra” che mi sento autorizzato, anzi, autorizzatissimo a prendere delle committenze di qualsiasi tipo, se questo mi permette di portare avanti lo studio e permette a noi tutti di continuare a lavorare e creare. ‘Sta cosa del “sei troppo major, sei troppo compromesso, non sei più underground”… uff… devi prenderla con un sorriso. Devi, dovresti. Anche perché: haters gonna hate, no? Ecco. Ma per dire, citavo poi prima l’editoria, giusto? Bene: se in un giornale c’è della pubblicità non è che per forza devi buttare a mare tutto: puoi anche semplicemente non leggerla, quella pubblicità, e concentrarti sul resto. Ricordandoti però che se in questo testo trovi qualcosa di interessante e significativo, beh, è anche merito di quella pubblicità lì, guarda un po’. E tornando a noi, noi Pfadfinderei: se la nostra filosofia dieci o quindici anni fa fosse stata più smaccatamente commerciale ci saremmo dedicati all’aspetto più tecnico e logistico del nostro lavoro, diventando dei grandi noleggiatori di attrezzature e dei perfetti esecutori, invece di puntare tanto sull’identità artistica. Saremmo diventati molto ma molto più ricchi, se l’avessimo fatto. Oh sì.
Non siete magari diventati vergognosamente ricchi, ma siete un bell’esempio di longevità. Quanto è difficile tenere unito un collettivo?
K: Difficile? Mamma mia, è un tormento! E’ difficilissimo. Ma se prima ti parlavamo della “fiducia” che deve avere chi arriva e ci fa da committente, la stessa parola è la chiave perfetta anche delle nostre dinamiche interne: abbiamo grande fiducia l’uno nelle capacità dell’altro, ecco. Questo alla fine scioglie e armonizza ogni conflitto, ogni discussione. Poi vabbé, non siamo mica i Metallica, che ormai si sopportano così poco l’uno con l’altro che chiedono anche tourbus separati l’uno dall’altro, quando vanno in tour… Non siamo ancora arrivati a detestarci così tanto (risate, NdI), e credo che non ci arriveremo mai. Di sicuro c’è molto orgoglio nel vedere che dopo diciotto anni sì, siamo ancora qui, e siamo ancora tutti assieme. Non è facile, ma è tutto questo è bello. Bellissimo.
C: Una cosa in cui siamo stati bravi è: essere professionali. Essere professionali, pur facendo cose che hanno una matrice prima di tutto artistica. In questo modo, anche quando sorgono i conflitti più aspri – perché sì, accadono – c’è sempre la consapevolezza di un compito comune da portare a termine, qualcosa per cui l’apporto di tutti è necessario. Professionalizzare il nostro modo di lavorare è stato molto utile: ha dato più ordine, ha dato più efficacia, ci ha spinto a dividere le responsabilità operative nel modo più efficace possibile. Con effetti benefici un po’ su tutto.
…effetti benefici che si vedranno direi anche sul nuovo tour dei Moderat. Allora, come sarà ‘sto nuovo show?
K: Sin dal primissimo tour concepito per loro abbiamo sempre pensate a delle idee “forti”, caratterizzanti. Se ti ricordi il tour legato al primo disco, quello era un concerto dove filmati e video avevano un ruolo molto forte, la componente narrativa era presente in modo pesante – l’idea era che la musica suonata live fosse la colonna sonora di un film, ecco. Col tour del secondo disco: l’ingrediente in più da portare era quello della tridimensionalità, qualcosa che desse molta profondità sia al palco in sé che alla venue tutta, e c’erano sì i video e i filmati, ma erano usati quasi più come delle luci, la componente narrativa stavolta non era il fulcro. Stavolta vogliamo essere “espressivi” come non mai: vogliamo che anche se per assurdo ti metti le mani sulle orecchie e smetti di sentire la musica, il concerto possa essere appassionante e soprattutto guardare quello che accade sul palco ti faccia capire quello che sta succedendo musicalmente. Al contrario delle altre volte, siamo stati molto attenti a mettere i tre musicisti “sul palco”, valorizzando al massimo la loro presenza lì.
C: Guardiamo il palco: una costante è che c’è sempre un oggetto “importante”. Nel primo tour, c’era una struttura per i visual a triptico, citazione classica; poi, quando questo triptico è diventato croce, col secondo tour, è stato aggiunto l’elemento della tridimensionalità (io l’ho chiamato “lo schermo democratico”, perché permetteva di avere una bella visuale sui visuals sia che tu fossi messo centralmente fronte palco sia che tu fossi invece sui lati). Adesso, la struttura “importante” non è presente fisicamente ma è disegnata dai laser.
K: Ed è una struttura che quindi può anche scomparire o ricomparire secondo necessità.
C: Stavolta poi l’attenzione da visuals e filmati si sposta decisamente sulle luci, con un approccio molto più da live “tradizionale”, per quanto alla nostra maniera. Inizialmente non era questa la direzione prevista ma poi, parlando con la band, siamo stati tutti d’accordo nell’andare su questa prospettiva – qualcosa che permettesse ai tre di emergere come band, sul palco.
Ecco, fino a che punto i tre Moderat collaborano con voi quando si tratta di costruire un tour per quanto riguarda luci, visual, stage design…?
C: Ma figurati, quelli pensano solo ai cazzi loro (grandi risate, NdI) …no, parlando seriamente anche con loro per fortuna gioca un ruolo fondamentale il termine-chiave: “fiducia”. Ovvio, i loro input sono fondamentali, questa cosa dell’essere più “band” sul palco è una loro precisa indicazione, ma nello specifico dei contenuti… Ecco, non è che io dico a Sascha, Szary o Gernot come devono equalizzare un suono, no? Allo stesso modo non voglio loro si mettano a discutere su alcune soluzioni tecniche che posso scegliere di adottare io. Questo è un atteggiamento reciproco apparentemente ostico che possiamo però tenere, con grande serenità, per un motivo molto semplice: abbiamo tutti lo stesso obiettivo – un grandioso live show dei Moderat. E anche stavolta, credo che lo avremo…