Ci sono quelle notizie surreali, che lasciano sgomento e senso di perdizione anche a distanza di giorni. Non che la morte non sia fattore naturale, non che sia la prima volta che ci troviamo a fronteggiare la morte di un artista di rilevanza mondiale. Ma questa volta è diverso. E’ diverso perchè Tim Bergling non ha potuto gustarsi l’età adulta, non ha potuto gustarsi una carriera futura che, per tutti, si figurava splendente così come quella che finora si era messo alle spalle; è diverso, perché il senso di disperazione trapelato da questa morte è qualcosa che tocca tutti, da vicino e nel profondo. Tutti del resto conoscevano Avicii, chi più da vicino, chi meno. Tutti, almeno una volta nella vita, hanno canticchiato o urlato a squarciagola una delle sue hit.
Però non tutti conoscevano Tim.
Non è un segreto che lo svedese si sentisse inadeguato a questo mondo che noi tanto amiamo. Lo ha fatto chiaramente capire, dal particolare al generale, il documentario Avicii: True Stories che, rivedendolo ora, sembra essere quasi stato un presagio accompagnato da un monito. Il ragazzo qui si metteva a nudo in tutta la sua fragilità e parlava dei problemi legati allo stato d’ansia e, conseguentemente, all’alcool, quasi volendo mostrare al grande pubblico di appassionati quali risvolti velati vi siano dietro alla tanto invidiata vita delle grandi star, quasi volendo aiutare chi si sente come lui.
Ed è proprio qui che arriva il punto chiave di questa assurda morte, che va a braccetto con la difficoltà di sottostare ai ritmi e alla visibilità che essere uno dei migliori djs al mondo inevitabilmente comporta. Una vita fatta di viaggi, hit da produrre, aspettative, shows e pubblico che richiede prestazioni sempre più impeccabili. E se tutto ciò è già di per sé gravoso fisicamente sia come peso delle responsabilità, figuriamoci quanto possa essere gravoso tutto questo amplificato per chi ha un carattere “da studio”, per chi alla consolle e agli stage alti più di 20 metri preferisce in realtà una sedia e degli strumenti. Quella di Tim era una personalità fragile ed introversa, che si è trovata a fare “a botte” con ciò che per gli altri doveva essere ed apparire.
Non è tutto oro ciò che luccica: Tim lo sapeva bene sin da subito, ma ne avrebbe preso coscienza, col tempo, anche Avicii. Perché bisogna sempre e costantemente tenere presente che dietro a un performer esiste, molto spesso quasi celatamente, un essere umano, con paure e sentimenti, come noi. Constatazione banale, ma questo non le impedisce di essere spesso presa sotto gamba. Non tutti riescono, purtroppo, ad “alienarsi” ed a essere sia l’uno che l’altro. I lustrini del successo attirano, ma spesso non confortano e sono più veleno che cura. Non sarebbe quindi insensato dire che Avicii è stato ucciso dal suo proprio successo.
Riguardo al ritiro dalle scene avvenuto nel marzo 2016, Tim diceva:
“Per me (il ritiro) è qualcosa che dovevo fare per la mia salute. La scena non faceva per me. Non erano gli spettacoli e non la musica. Sono sempre state le altre cose che li circondano che non mi sono mai venute naturali. Tutti gli altri risvolti di essere un artista. Sono più di una persona introversa, in generale. È stato sempre molto difficile per me. Ho assimilato troppa energia negativa, penso.”
Non approfondirò ulteriormente la morte e i problemi. Ciò che conta è ricordare, con una certa riverenza e in punta di piedi, ciò che il produttore svedese ci ha lasciato per sempre.
L’ultimo live di Avicii, 28 agosto 2016, Ushuaia (Ibiza)
Avicii è piaciuto sin da subito e ha continuato a piacere perché si è sempre mostrato un po’ come il giovane produttore alle prime armi e “da cameretta”, come tanti. Basti pensare che i primi successi sono stati cercati pubblicando le proprie produzioni dapprima in un blog svedese e poi sul proprio account Myspace, passando per il forum di Laidback Luke. Non certo un esordio con una major.
Una di queste tracks è stata “ManMan”, con la quale Avicii ha attirato l’attenzione del manager, che ne avrebbe fatto poi la fortuna, Ash Pournouri, firmando, nel 2008, un contratto con At Night Management.
Arrivano, quindi, i veri primi successi di risonanza mondiale a partire da “Levels“, traccia che è diventato simbolo di un genere (pur modificandolo sostanzialmente dall’interno), nonché hit che ha catapultato in brevissimo tempo il producer sui palchi più importanti del mondo.
Poi è arrivato “True”, l’album di esordio, nel quale l’aspetto innovativo si è mostrato sin da subito e ben presente: la dance si è unita al country e al bluegrass. Annunciato con “rompere gli schemi è una cosa buona, quando una scena è bloccata a metà“, il lavoro da cui è stata estratta la suonatissima “Wake Me Up” ha fatto ciò che un rivoluzionario deve fare: creare per distruggere. Ed è significativo oltretutto che il meccanismo di cambiamento sia stato innescato direttamente dal palco più dance di tutti: quello dell’Ultra Music Festival. Sonorità che sono state accolte e recepite con un certo sgomento e una buona dose di critica negativa all’inizio ma che, alla lunga, hanno dimostrato di avere carattere e sensatezza.
A confermare il buon esito dell’esperimento, non appena un anno dopo, arriva l’album “Stories“, forte della presenza di collaborazioni internazionali e supportato con una certa ammirazione da musicisti e produttori di caratura mondiale.
Una carriera quindi fatta, almeno apparentemente, ad molte gioie e pochi dolori. Sino alla decisione di ritirarsi dal mondo dei grandi live, esplicata il 29 marzo 2016, attraverso un post su Facebook, nel quale l’artista annunciava il ritiro: preso con una certa amarezza dai fans ma, edulcorato, qualche giorno dopo, con la dichiarazione di un terzo album in arrivo.
In un passo della lettera, scritta evidentemente con un certo sentimento di rammarico, un senso di responsabilità nei confronti dei fans e una sincerità difficile da riscontrare in altri artisti, Tim scriveva:
“So di essere fortunato per poter viaggiare in tutto il mondo ed esibirmi, ma ho lasciato troppo poco spazio per la vita di una persona reale dietro l’artista” […] Per me è la creazione di musica ciò per cui vivo, ciò per cui sento di essere nato. La fine dei live non implica la fine di Avicii o della mia musica. Solo, sono tornato dove tutto ha un senso: in studio. Il prossimo passo sarà continuare a fare musica per voi. Tutto questo è l’inizio di qualcosa di nuovo.”
Di Avicii quindi ci rimangono sì i successi, ma anche il ricordo di una persona coi propri angeli e i propri demoni, esposti anche pubblicamente molto più di quanto accada di solito. Rimane la consapevolezza di una fragilità del tutto umana e coscienziosa. Rimane il ricordo di un musicista che sapeva accarezzare, plasmare e dare forma reale alla musica. Rimangono i suoni mai troppo taglienti e sempre delicati, che hanno reso fan di tutto il mondo meno soli.
Tim, sotto molti punti di vista, sapeva e voleva raccontare come ci si sente quando ciò che si prova è inadeguatezza e debolezza nell’affrontare le circostanze: è questo il motivo per cui fan e colleghi erano, e saranno, così legati ad Avicii.
E quindi, se è vero che la vita è come uno sketch e l’importante è il finale, allora voglio ricordare Avicii così come si mostrava nel finale del proprio documentario, sorridente e finalmente sereno.