E’ tutto, come dire?, filologicamente corretto: incontriamo MYSS KETA in un bar in zona Porta Venezia, e lei arriva con tanto di maschera addosso – anche se è prima mattina, anche se io e lei ci conosciamo già (e ci siamo già fatti delle chiacchierate tranquille senza maschera, nel backstage di Fuck Normality Festival l’anno scorso), anche se non siamo certo in un contesto mondano ma in un qualsiasi posto da cornetti e cappuccino. Tutto perfettamente legato al personaggio. Quello che cambia è che mentre prima questa intervista sarebbe nata da uno scambio di messaggi, ora si è passati attraverso un appuntamento certosinamente preparato dall’ufficio stampa di Keta, inserito giusto prima dell’esordio del suo nuovo tour, che stavolta ha alle spalle l’organizzazione di un’agenzia di booking non certo piccola ed amatoriale. L’uscita di “UNA VITA IN CAPSLOCK” segna un cambio di marcia sensibile in un progetto che è nato come “inside joke” milanese, da raccontarci ad un aperitivo al Cape Town in Via Vigevano (se siete milanesi, avete capito; se non siete milanesi, poveracci che non siete altro – come prescrive la vera, naturale snobberia del terziario culturale milanese), ma che sta diventando una cosa seria. Assolutamente seria. E’ il caso allora di rendere “seria” anche l’intervista. Avvertenza: è un’intervista, che per spessore e profondità, va in crescendo. Ed è un’intervista bella davvero. Nonostante i dichiarati, ehm, soli diciannove anni dell’intervistata.
Insomma, dai, tutto questo sta diventando una cosa seria…
Forse sì, forse no. Io, di mio, non sono una persona molto seria; ma non credo che non essere seri sia per forza sintomo di sciocchezza ed ingenuità. Prendere le cose come vengono, vivere con ironia ed autoironia: questo è il modo con cui affronto le cose e guardo al mondo. Aggiungi che vivo tutto passo dopo passo. Non ho una idea del futuro che si estende troppo.
Non hai insomma un progetto a lungo termine.
Vado a blocchi. Ora esce l’album. E c’è il tour. Questi gli obiettivi di adesso. Il fatto che come noti ora ci siano tutta una serie di cose più strutturate attorno (un ufficio stampa, un’agenzia di booking) sono in effetti il segno che il progetto sta crescendo. E sta diventando più “serio”, ok, nel senso di più canoniche rispetto alle dinamiche abituali dell’industria musicale. Tutto questo però lo prendo man mano che succede, non è che ci fosse un progetto a lungo termine alla base.
Immagino che questa crescita ti renda felice. Però magari ti dà anche un po’ di senso di responsabilità, che comunque è un peso…?
Faccio in modo di non sentirlo. Fuga dall’età adulta! Never adulti! Del resto, come ben sai, io alla fine ho diciannove anni. Non sono una vera e propria adulta. Vediamo cosa succede una volta che avrò finito l’università.
Ok, torniamo a quando è nato il progetto MYSS KETA, torniamo al primo pezzo che hai fatto uscire fuori: ok, no progetti a lungo termine, ma almeno un po’ ci avevi sperato nel fare la strada che poi hai effettivamente fatto?
No.
Aggiungo: in origine doveva essere un pezzo, e poi stop?
Di sicuro il pezzo con cui ho esordito non era il primo tassello di chissà quale progetto esteso. Eravamo semplicemente lì, a Milano, in giro, una notte, pieno agosto…
…uh, Milano in pieno agosto è bizzarra, è psichedelica.
Esatto! Proprio così! Quindi immaginati: abbiamo creato la canzone. Poi abbiamo pensato subito al video. L’abbiamo fatto. L’abbiamo buttato subito fuori. Tutto sotto questa coltre “psichedelica” della Milano ad agosto… “Milano sushi e coca” nasce così. Poi come forse ricorderai ci sono stati anche dei problemi, abbiamo dovuto tirare giù il video per poi ricaricarlo. “In gabbia” è arrivato un anno e mezzo più tardi. Nel frattempo io e tutti i ragazzi di Motel Forlanini c’avevamo preso gusto, scrivevamo, creavamo pezzi, sfornavamo idee, iniziavamo a ritrovarci con tanto materiale da far buttare fuori. E l’abbiamo buttato fuori. All’inizio il progetto MYSS KETA era: fai il singolo, fai il video, bene, stop. Poi ad un certo punto ci siamo accorti che potevamo pensare anche a fare un vero e proprio EP, e così nasce “Carpaccio ghiacciato”, qualcosa di super-estivo, un po’ lounge un po’ strano, e lì c’era anche “Xananas”…
…che è stato un po’ il salto di qualità.
Diciamo che è arrivato in un momento particolare. Eravamo reduci dalla partecipazione al Red Bull Culture Clash, “Le ragazze di Porta Venezia” aveva fatto un po’ di clamore…
Quello che intendo dire è che con “Xananas” avete forse iniziato a smettere di essere solo un “inside joke” milanese.
Vero. Siamo nati a Milano, abbiamo sempre parlato di cose super-milanesi, ma ad un certo punto l’esigenza è stata trasformarsi da milanesi ad un po’ più italiani. Se ascolti l’album uscito ora, “UNA VITA IN CAPSLOCK”, non ci sono più riferimenti geografici ben definiti. Non è un caso. E’ un disco che parla molto di interiorità, quindi per quanto riguarda i riferimenti più precisi e geografici abbiamo scelto di essere meno espliciti, più misteriosi, di modo che ognuno potesse immedesimarsi più facilmente, perché l’interiorità è qualcosa che riguarda tutti. Viene citata solo Parigi, nel disco…
…ma più che un riferimento preciso è un rimando estetizzante.
Esattamente. Diciamo che ci siamo staccati da Milano: abbiamo avvertito l’esigenza di prendere un po’ d’aria.
In questo modo anticipi la mia domanda: non è che tutto questo milanocentrismo dopo un po’ viene a noia? Non solo a te, ma anche agli altri, alla gente?
Sai cosa, iniziando a fare date in giro ho notato una cosa molto bella: tutti mi chiedevano di fare “Milano sushi e coca” ma adattandola alle realtà locali in cui mi trovavo: Torino, Livorno… Sì, abbiamo voluto fare un salto di qualità, staccarci da Milano come centro unico dei nostri argomenti, ma è altrettanto vero che comunque noi siamo milanesi e che Milano è un po’, rispetto al contesto italiano, la città che è più “specchio del mondo” oggi come oggi. La più metropolitana, la più europea, anche se rispetto alle grandi capitali europee è comunque un paesotto. E’ in ogni caso un gran bel punto di osservazione.
Ti ricordi la Milano pre-Expo, e intendo quella prima del 2010, 2011…? Era ferma. In stallo totale. Poche serate. Sempre le solite. Sempre le solite dinamiche. Sempre i soliti suoni.
Già. Proprio da lì però le cose sono ripartite di brutto.
Durerà?
Non lo so. Tutte le cose nascono e crescono, e poi si afflosciano. Ma viviamocela bene ora, ora che siamo tutti fomentati. Senza contare che a me pare che questo fermento di Milano alla fine dopo un po’ si rifletta, a cascata, anche sulle altre città, a partire da Roma.
Prima parlavamo di Parigi, riferendoci alla traccia “Ultima botta a Parigi”. I pezzi in cui partecipa anche Birthh li trovo davvero interessanti: come sei arrivata a lei?
La verità è che l’ho conosciuta durante una data a Molfetta in cui c’eravamo tutt’e due. Ho visto il suo live e, credimi, sono rimasta davvero emozionata. Da lì ci siamo conosciute di persona, siamo rimaste in contatto, siamo diventata – credo di poterlo dire – amiche. In “UNA VITA IN CAPSLOCK” io rappresento la versione della figura femminile più cupa, dark, aggressiva, ed è così anche la mia voce, che comunque è bassa, gracchiante. Mi serviva una controparte angelica, alla voce. Ed è così che mi è venuta in mente lei. Io l’ammiro tantissimo, Riva anche. L’abbiamo chiamata. E lei non si è tirata indietro.
Ecco: lei come si è posta di fronte al vostro immaginario un po’ sarcastico, un po’ provocatorio, un po’ cazzone? Tutte cose che a lei, nel suo percorso artistico, non appartengono, o almeno l’impressione è abbastanza questa.
Lei è un animo libero. E si è buttata dentro. Con entusiasmo. Ci ha super-appoggiato. E ha dato un bellissimo apporto. Così come l’ha dato al sax Adele (Adele Nigro, Any Other, NdI).
Uh, anche Adele è una musicista eccezionale.
L’ammiro un botto. E’ totale. Ecco: mi piaceva avere due figure femminili all’interno dell’album che fossero in qualche modo “angeliche”, e ci tenevo particolarmente che fossero lei e Alice (Birthh, NdI). Questa cosa non le ha minimamente intimidite. Hanno giocato molto su questo ruolo. Per me, chi gioca e si mette in gioco, è un vincente.
Come ti spieghi che tra Alice, Adele, aggiungo anche i Tre Allegri Ragazzi Morte che ti hanno sempre supportato un sacco e con La Tempesta ora sono diventati anche i tuoi discografici, sia stato proprio il mondo apparentemente più indie in modo canonico ad averti appoggiato così tanto? Perché un tipo di humour come il tuo, ambiguo e spaccone, dovrebbe essere l’esatto opposto dello spirito indie.
Sono d’accordo. Però…
Però?
Però io arrivo proprio dalla scena indie, come ascolti, da quella scena lì. Sia italiana che straniera. Ero fissatissima. Poi ho allargato, in un secondo momento, i miei ascolti. Però quando l’indie è arrivato pesantemente nei nostri mondi musicali era incredibilmente settoriale: dovevi conoscere tutto, e dovevi conoscere tutto di quella scena lì, non di altro.
Conoscere e apprezzare. Il resto era bandito. E una musica come quella di MYSS KETA sarebbe stata presa a sassate.
Eppure io arrivo dall’indie, e ora faccio questa musica qua. Sai cosa è cambiato? Oggi c’è molto più mix. E c’è meno “guardar male”. Le cose si possono combinare, senza che se ne lamenti nessuno – o quasi. Tra l’altro io la musica indie continuo ad ascoltarla, ma ora che ho un po’ di esperienza in più mi sono resa conto che essere troppo settoriali è davvero una cosa sciocca. Se uno ascolta musica, se a uno piace la musica, è quasi inevitabile che finisca coll’ascoltare diversi generi. E che si metta a creare link anche imprevedibili fra cose apparentemente distanti fra loro. Sì, quando è arrivato l’indie su di noi la situazione era molto rigida, molto schierata, “o con l’indie e solo con l’indie o contro l’indie”, oggi per fortuna è tutto molto più sciolto. Siamo tutti più liberi. Siamo più liberi di fare cose pazze. Tra l’altra una delle cose belle di Milano sono proprio le collaborazioni, anche perché spesso attraversano diversi campi artistici: arte, moda, musica, design. Vedere tutta l’energia, la particolarità e la creatività che si sprigiona da queste collaborazioni ibride influenza positivamente anche le collaborazioni che nascono all’interno di un’unica disciplina, che possono essere particolari e creative anche loro. Io questo approccio lo supporto tantissimo.
Beh, lo vedo. Ci punti molto. Per dire, avevo letto una playlist che avevi preparato per Vogue: c’erano release di M.E.S.H., Regis, roba della Raster-Noton, oltre a Raffaella Carrà. O una tua dichiarazione su “Milano sushi e coca”: “E’ il mio omaggio a Errorsmith”. Come se il postmoderno fosse arrivato alla fine anche in musica, dopo aver permeato architettura e filosofia, con la sua mescolanza a briglie sciolte tra contesti e livelli diversi. Underground e mainstream si mescolano senza soluzione di continuità. E appunto, ti capita anche di leggere il nome di Regis su Vogue. Però senti: non è che questa eccessiva fluidità, ad un certo punto, rischia di confondere un po’ troppo le acque? Tipo che ad un certo punto non è più possibile capire chi sta da che parte, chi di qua e chi di là, e diventa solo un furbo tenere i piedi in due staffe collettivo?
Per me non è più necessario capire chi sta di qua, chi di là. Quella playlist che citavi, con mia sorpresa, è piaciuta in primis proprio alla redazione di Vogue: io credevo che avrebbero sbarrato gli occhi, perplessi, e invece… Io sono per mixare, combinare, confondere. Nella musica. Nei testi. Alto. Basso. Tanto. Niente medio, invece. Voglio alto e basso insieme, che si urtano, si scontrano, si trovano faccia a faccia. ‘Sta cosa dell’underground: mah. Per me, Fabio Rovazzi ed Errorsmith possono stare tranquillamente nella stessa playlist. Non vedo dove stia il problema. Questo confonde? Bene, la confusione non è un problema. Mixare reference diverse è una cosa assolutamente bella e creativa. In più, è pure una cosa che mi viene naturale. Nei testi di MYSS KETA la mescolanza di alto e basso, di greve e raffinato, è una costante. Fa parte della natura del progetto e, in più, è qualcosa che mi viene molto spontaneo. Posso capire che magari per qualcuno tutto questo possa apparire magari spiazzante, ma… that’s me.
C’è qualcun altro che ha questa attitudine, in giro?
Peaches. Per me lei è tutto. Ma fammi dire: la cosa fondamentale, se si agisce in un certo modo, è farlo perché ti viene naturale così. Non deve essere una cosa forzata.
Tu quanto sei attenta a sedurre il tuo pubblico? Quanto calcolo c’è nel sapere usare la “giusta” ironia nel “giusto” modo?
Mmmmh. (lunga pausa, NdI)
Te lo chiedo perché una cifra caratteristica dei milanesi, almeno di quelli che lavorano nel terziario culturale, è di “avere il marketing dentro”. Hanno sempre presente che arrivare al proprio “target” è vitale. Anche quando fanno gli artisti.
Beh: quando scrivo certe punchline, ovvio che un po’ ci penso a chi arrivano e a come farle arrivare nel modo migliore. Però davvero, a ‘sto giro io e Riva, quando abbiamo ascoltato tutto l’album dall’inizio alla fine, ci siamo resi conto come avrebbe potuto risultare un po’ spiazzante per chi era abituato alla “solita” MYSS KETA. Ma sono convinta che i fan più attenti non si sorprendano troppo per la piega leggermente più sofisticata e sperimentale che sta prendendo il progetto. Avessimo dovuto fare il disco solo per il “nostro” pubblico, ti dico la verità, non avremmo fatto l’album così. Stavolta abbiamo pensato prima di tutto a noi. D’altro canto un certo tipo di direzione la stavamo intraprendendo prima ancora della release di “Carpaccio ghiacciato”, in realtà la lavorazione di “UNA VITA IN CAPSLOCK” è ben più lunga di quel che si potrebbe credere. Tant’è che le due cose ad un certo punto si erano sovrapposte e, te l’assicuro, faceva un effetto molto strano.
(continua sotto)
Ti sento usare spesso la parola “fan”, per parlare di chi ti apprezza. Quanta ironia c’è nello scegliere proprio questo termine?
Chi ascolta MYSS KETA si divide fra chi si rivolta nella tomba lui e i suoi parenti e chi invece la ama. Di solito divido abbastanza il pubblico… Se guardi i commenti sotto i miei video su YouTube, troverai una alternanza di gente che mi insulta e di gente che impazzisce per me.
Gli insulti come li prendi?
Ormai mi sono fatta una corazza gigante. Magari i primi tempi, quelli di “Milano sushi e coca”, ci restavo un po’ più scossa. Adesso, corazzia e via. La cosa da notare è che se leggi insulti sulla qualità musicale ed artistica del progetto dici “Ok, ci può stare”, magari non sei d’accordo ma ci pensi quel secondo di più, però in generale ci sono tanti insulti un po’ “casual”: sul fatto che siamo ragazze, non abbiamo fisici top, facciamo cose in giro… Ecco, queste critiche ho imparato a non considerarle.
Com’è possibile che nel 2018 ci siano ancora questi insulti?
Perché we are in Italy. Se io penso al personaggio di MYSS KETA, ho il sospetto che sia stata tenuta a lungo fuori da un certo tipo di meccanismi proprio perché ragazza. Oh: Marracash ha rappato “Le voglio piene” e ora guardalo, presenta in televisione ed è amato pure dalle mamme. Oh, per quella è una canzone epica, la adoro; solo che non capisco perché certi uomini possono parlare di cose scabrose senza filtri ed essere considerati “seri”, mentre se lo fa una ragazza…
…viene considerata una zoccola, o un’oca, o una macchietta.
Esatto.
Però ti dico: ci sta che la figura “fiction” della ragazza ricca, annoiata ed arrogante possa risultare antipatico.
Certo.
E’ questo quello che vuoi? Creare un personaggio respingente? O ti piace l’idea che ci sia invece anche dell’immedesimazione? Te lo sei posta, questo dubbio?
Sai che forse no, non me lo sono posta? No. Non me lo sono posta. So solo che a me viene naturale quando scrivo testi per le mie tracce sconfinare nel grottesco, nel parossismo. Non lo scelgo: succede proprio.
“Quando scrivo testi”: è questione di fiction, insomma.
Sì, decisamente. Ma appunto: è naturale. E’ una espressione naturale del progetto. Non mi sono posta il problema di come possa essere percepita. Ma ci sta, se ci pensi: quando butti fuori un prodotto, musica, arte o moda che sia, è anche giusto che non per forza ci sia una spiegazione a latere e quello che hai prodotto parli di per sé. I vari modi in cui qualcosa può essere recepito sono potenzialmente tutti corretti: perché ognuno interpreta col suo background, la sua visione, il suo patrimonio intellettivo. Ognuno può sentire o rifiutare qualcosa come meglio crede. Dico solo che mi piacerebbe, in riferimento al progetto MYSS KETA, sentire più critiche e considerazioni legate al prodotto musicale e non solo riferite all’aspetto fisico, al piglio, al fatto che giro con una maschera.
Eh oh, la maschera però sei tu che la indossi. Anche ora, mentre ci stiamo facendo questa chiacchierata.
Indubbiamente. Per me la maschera è MYSS KETA, e MYSS KETA è la maschera. E’ il giusto elemento di teatralità in questa fiction che abbiamo creato. E’ dagli albori del teatro che gli attori si mettono la maschera. E può passare da un attore all’altro. Per me ormai è un elemento naturale e, forse, non mi rendo più conto di quanto possa essere in effetti spiazzante. Il fatto di non vedere naso, bocca, espressioni del viso può spaventare, vero; ma il personaggio è nato così, fin dai tempi di “Milano sushi e coca”. Non riesco ad immaginarlo senza maschera.
Senti, qual è il rischio che il personaggio prenda ad influenzare anche la persona? Un personaggio per giunta così ingombrante, estremo, grottesco…
Ormai prendo un taxi anche per andare da Lima a Porta Venezia in effetti… e non pago più ai bar. No dai, scherzo. Ora: in questa intervista si sta andando abbastanza in profondità, in modo naturale. Stiamo analizzando cose con attenzione. Non credo ci sia il rischio che il personaggio influenzi la persona. Ma è anche vero che MYSS KETA ha una esteriorità ed anche una interiorità, ed è assolutamente vero che è inevitabile che le persone siano influenzate da quello che fanno, in una certa misura. E dalle energie che ciò che fanno scatenano. Ma non credo che questo sia negativo: perché dietro c’è comunque sempre un cervello pensante ad analizzare, a filtrare. O forse no. Chissà. Questo è il vero mistero.
Però ti dico subito una cosa: questa intervista, al contrario di altre che ho viste in giro legate alla pubblicazione di “UNA VITA IN CAPSLOCK”, non sarà in caps lock.
Ahia.
Se necessario, sono pronto a litigare su questo. Le testate giornalistiche per quanto possibile non dovrebbero essere degli strumenti in mano all’artista, che può decidere se e come manovrarle. Mi va benissimo che tu mi chieda che l’intervista sia in caps lock, perché artisticamente questo è il tuo viaggio; ma mi sono tranquillissimo nel dirti “No, non accadrà, non l’ho fatto per altri, non lo farò per te, perché sto lavorando ora per Soundwall, non per MYSS KETA”.
Posso dirti una cosa in cui credo molto?
Devi.
Questa cosa che hai notato credo sia molto vera. Iniziamo a pensare alla televisione degli anni ’80, quella berlusconiana: avevamo una tv che ci offriva intrattenimento in cambio di pubblicità. Le pubblicità avevano uno spazio ben chiaro e ben definito, però. Dopodiché la pubblicità ha iniziato a generare degli strani meccanismi di insinuamento fino a diventare, in certi casi, la televisione stessa. Ovvero: il prodotto da commercializzare è diventato il programma stesso. Credo che questo meccanismo riguardi anche quanto dicevi sopra. Gli artisti sono diventati dei prodotti. Quindi rischiano anche loro di seguire un certo tipo di meccanismi. Del resto, gli strumenti di comunicazione attuali funzionano un po’ tutti in questa maniera.
Tant’è che ormai i timoni di molti giornali, anche parecchio importanti, sono decisi più dal reparto marketing che dalla redazione.
Esatto. Esatto! E questa è una cosa completamente assurda. Se ci pensi che questo meccanismo è arrivato a prendere anche l’informazione, non solo l’intrattenimento, c’è davvero da spaventarsi parecchio pensando alle possibili conseguenze. E purtroppo certe pieghe si stanno già vedendo in giro. Ma senza voler allargare troppo il discorso, tornando a noi: probabilmente hai ragione, spesso il prodotto cerca di prendere il sopravvento sul mezzo attraverso cui viene comunicato. Cerca di scegliere la via migliore per sé.
Perfetto. Basta che poi sia la stampa a tracciare i confini da non oltrepassare.
Ma io ti chiederò comunque di pubblicare le mie parole in caps lock.
E io non lo farò.
Mi pare fair.