Semplicemente: il messicano Fernando Corona, alias Murcof, è un genio, uno degli artisti più interessanti che abbiano mai attraversato i campi della musica elettronica. Il fatto che per naturale piglio non abbia mai voluto sgomitare per diventare famoso, per diventare “il nome” da sbandierare in festival e quant’altro per fare bella figura, non significa assolutamente nulla: chiunque sia venuto a contatto con la sua arte, e ormai sono vent’anni di carriera, sa quanto preziose, originali ed illuminate siano le sue trame tra ambient e destrutturazioni, tra poesia e vertigine digitale. Sa anche quanto lui ami e tratti come nessun’altro la materia musica classica: ecco che allora la collaborazione in atto da qualche anno con la pianista classica francese Vanessa Wagner (ragazza prodigio già nel 1999, quando vinse un prestigiosissimo Victoire De La Musique, il Grammy francese) è sensata ed inevitabile sotto molti punti di vista. Una collaborazione davvero preziosa: e complimenti davvero a Romaeuropa Festival che ha avuto l’intuizione di presentarli in rassegna, l’appuntamento per tutti è all’Auditorum Parco della Musica, il 29 settembre, nella Sala Petrassi. Andateci, se potete: vedrete due grandi “pensatori musicali” (e due grandissimi professionisti, entrambi nel proprio campo di competenza) immergersi in una sfida artistica molto, molto complessa. Come antipasto, godetevi questa bellissima chiacchierata con Fernando. Una di quelle interviste che alzano il livello. Esattamente come la sua musica.
La tua frequentazione con la musica classica è davvero una faccenda di lungo corso, anzi, sotto molti punti di vista è uno dei tuoi segni distintivi come producer. Sei stato un precursore, in tal senso: sottoporre frammenti di classica contemporanea al trattamento digitale è qualcosa in cui sei stato non solo fra i più bravi e creativi, ma fra i primi. Come sei arrivato ad avere questa intuizione, in origine?
Sono cresciuto ascoltando un po’ di tutto, ma fin dall’inizio classica ed elettronica erano le due musiche che mi affascinavano di più. E’ stato quindi assolutamente inevitabile e naturale provare a combinare le due cose, nel momento in cui mi sono messo seriamente a creare. Se devo dare un periodo preciso, tornerei indietro al 2001: un giorno mi sono messo a “pasticciare” un po’ sui dischi di Giya Kancheli, Arvo Part e Morton Feldman, iniziando ad infilarli nei miei processori, tagliando, cucendo, modificandone frammenti. Era una cosa che stavo facendo un po’ a caso, non è che avessi un progetto specifico in mente, ma ad un certo punto – quasi per caso – mi sono reso conto che stava venendo fuori del materiale davvero notevole. Ed è così che sono arrivato “MFRelay”, che è basata su un frammento di “Rothko Chapel” di Morton Feldman e che ha fatto circolare il nome di Murcof per la prima volta in maniera significativa.
Fino a che punto è un bagaglio culturale importante e necessario, per un producer di musica elettronica, quello relativo alla musica classica, soprattutto alla classica contemporanea?
Secondo me, è molto importante. Un po’ perché entrare in contatto con la ricchezza e la complessità della musica classica, passata e presente, è qualcosa che arricchisce il bagaglio culturale di chiunque, a maggior ragione se si tratta della musica classica del ventesimo e ventunesimo secolo, dove la sperimentazione sul suono, sui timbri e non solo sulla scrittura su pentagramma è diventato qualcosa di focale, e questo è uno dei punti fondamentali della musica generata da synth e dal digitale. Poi naturalmente non voglio generalizzare: in realtà ogni artista ha il dovere e il diritto di scegliere come meglio sviluppare i suoi gusti e le sue conoscenze, e il suo modus operandi, e anzi il fatto che molti producer di musica elettronica abbiano dei background atipici ed irregolari ha fatto sì che spesso e volentieri questo tipo di scena abbia prodotto musica che ha davvero cambiato le regole ed aperto nuovi orizzonti.
Come hai incontrato per la prima volta Vanessa Wagner? A chi di voi due è arrivata per prima l’idea di fare un progetto a due?
L’ho incontrata la primissima volta ancora molto prima che decidessimo di lavorare assieme, questo grazie ad Alex, suo marito, che è anche colui che tiene le redini della label Infiné. Credo che anzi la prima collaborazione nostra dal vivo sia stato proprio una residenza artistica curata dalla Infiné in Normandia, dove io e lei ci siamo ritrovati a creare una reinterpretazione di un brano di Satie, “Gnossienne #3”, ma se devo essere sincero non ne sono sicuro al cento per cento, dovresti chiedere conferma a Vanessa! Ad ogni modo, quell’esibizione dal vivo fu per me una vera e propria epifania. Capii subito l’enorme potenziale di un progetto a due fra di noi, ma mi sa che anche per Vanessa fu lo stesso, visto che fu proprio lei a fare il primo passo successivo, invitandomi ad una residenza d’artista a Metz. Proprio quella seconda esibizione fu l’inizio ufficiale del nostro progetto in comune, quando cioè iniziammo seriamente e sistematicamente a pensare al materiale che volevamo sottoporre alla nostra reinterpretazione.
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Come funziona il vostro processo creativo? Chi fa cosa?
Ad oggi direi che ci dividiamo abbastanza il lavoro in maniera separata. Il grosso del lavoro sulla selezione delle traccia da reinterpretare lo fa Vanessa, raramente voglio entrare anche io nella cosa. Una volta scelti i brani, lei registra le parti in pianoforte solo, niente elettronica, nulla di nulla, al massimo ogni tanto il battito del metronomo. Fatto questo, tocca poi a me rimboccarmi le maniche. Prendo quello che mi ha mandato ed inizio a passare attraverso a più strumentazioni possibili, analogiche o digitali che siano, cambiando, tagliando, riprocessando, aggiungendo effetti: prendo questo “magma sonoro” e cerco di individuare i momenti più interessanti. Ecco, una volta individuati partiamo da essi per costruire il brano vero e proprio. Lì inizia il lavoro a due vero e proprio, ci rimbalziamo le versioni della traccia di continuo, aggiungendo e togliendo elementi. Finora è andata sempre così. Ma ti dirò: per il prossimo album vorremmo trovare il modo di chiuderci in studio insieme, per una volta, e lavorare a stretto contatto fin dall’inizio.
In quello che fate, c’è un po’ di spazio per l’improvvisazione? L’improvvisazione non appartiene alla musica classica e con la musica elettronica, beh, dipende…
Sì, un po’ di spazio c’è. Soprattutto quando sono tracce che non devono poggiare su una struttura ritmica predeterminata: lì abbiamo un po’ più di spazio per cambiare le cose in corsa, in tempo reale. Ad esempio, nel nostro set standard dal vivo ultimamente abbiamo aggiunto “Für Alina” di Arvo Part dove ci siamo ritagliati uno spazio ben preciso dove poter modificare il flusso sonoro liberamente, seguendo l’intuizione, improvvisando. In questa traccia io uso un granular synth e un pitch shifter che, in qualche modo, vanno un po’ per i fatti loro, prendono direzioni impossibili da prevedere in anticipo, e quindi non puoi mai essere certo di cosa verrà fuori, entrambi dobbiamo adattarci in tempo reale.
Ti chiedo una cosa: quali sono a tuo parere i compositori di musica classica più “coraggiosi” in assoluto? Non ti chiedo il migliore, il più bravo, nemmeno il tuo preferito: ti chiedo quello che trovi più “coraggioso”.
Mi vengono in mente due nomi. Uno è Alfred Shnittke, di sicuro. Un compositore in grado di mescolare musicale seriale, romanticismo e persino frammenti pop all’interno della sua musica. Il tutto con un piglio molto personale, e anche addirittura con un particolarissimo sense of humour… L’altro nome che ti farei è Giacinto Scelsi: il suo mix di musica quasi-drone, variazioni microtonali e cluster di accordi dall’attitudine e tono quasi zen sono qualcosa che mi affascina da morire, qualcosa che trovo davvero molto speciale.
Senti, c’è un po’ di mancanza di originalità e creatività nella musica elettronica odierna? Almeno in quella più vicina al mercato?
Ma sai, se ti avvicini al mainstream dovrai sempre e comunque rispettare un certo tipo di limitazioni creative. E’ fisiologico: la musica più interessante e sperimentale è qualcosa che non è fatto per finire nel radar degli ascoltatori più occasionali, richiede una dedizione e una sete di conoscenza che l’ascoltatore medio semplicemente non ha, non è tenuto ad avere e nemmeno si può permettere di avere. Ma non è un male. Anche nel mainstream peraltro è possibile trovare soluzioni musicalmente e creativamente molto interessanti: soprattutto se lo consideri per quello che è e per le funzioni che deve assolvere e per cui è nato.
Domanda finale: Vanessa Wagner a parte, negli anni hai collezionato davvero un mare di collaborazioni di alto livello. Quali sono quelle che ti hanno lasciato di più?
Ogni collaborazione ha i suoi pro e i suoi contro, i suoi pregi e i suoi difetti. Certo, più libertà ho e più possibilità ho di sperimentare senza limiti più sono contento, e devo dire che questo mi succede soprattutto quando mi capita di collaborare con dei coreografi, penso a Guilherme Bothelo o, più di recente, Tony Chong: poter lavorare da zero per creare dei “mondi sonori” per dei ballerini è una esperienza eccezionale. Riguardo a collaborazioni con altri veri e proprio musicisti, mah, difficile rispondere: perché da tutti ho imparato molto e farei fatica a stilare una classifica. Davvero, ogni collaborazione ha i suoi pro e i suoi contro. Prendi quella con Vanessa: suonare e creare con lei è bellissimo, ma nel nostro progetto a due ci sono stati anche momenti di crisi e passaggi molto, molto frustranti, questo proprio per la natura del progetto: quello che facciamo è prendere dei capolavoro già creati ed eseguiti della musica classica, per poi reinterpretarli a modo nostro, e certe volte misurarsi con delle opere d’arte così alte è davvero un peso difficilissimo da sostenere, ti sembra di sostenere una sfida troppo grande. Ma poi, quando riusciamo a trovare la quadra, ti assicuro che è davvero qualcosa di magico…