Un professionista navigato, con alle spalle una carriera che può solo fare invidia a molti, un dj e produttore di tutto rispetto, ma soprattutto una persona di una umiltà e di una sincerità sempre più difficili da trovare in ambienti come il nostro. Mauro Picotto è uno di quegli artisti per cui ogni ulteriore presentazione risulterebbe superflua, uno di quelli per cui il nome parla da sé, con tutta la storia che si porta dietro. Parla con noi nel modo più naturale, più umano, ed è così che quello che doveva essere un semplice botta e risposta da una manciata di minuti, si è trasformato in una chiacchierata di oltre un’ora e mezza, tutta da gustare.
Partiamo parlando di “From Heart To Techno”, che credo che sia il tuo focus in questo momento: un album e un libro in uscita ad ottobre, vorrei che mi raccontassi un po’ il concept che c’è dietro…
Si, esatto, il libro dovrebbe uscire il primo di Ottobre, l’album una o due settimane più tardi, dipende dai tempi della label. Quest’anno avevo voglia di cambiamenti, mi sono trasferito in Inghilterra e mi sono buttato in studio a produrre perché sentivo che mi mancava qualcosa musicalmente, nei dischi che sentivo non trovavo quello che cercavo, quindi mi sono spinto di nuovo nella ricerca. Collaborando con uno studio qui in Inghilterra, e con musicisti molto bravi che già conoscevo, sono riuscito a tirare fuori anche qualcosa da ascoltare, non solo da ballare. Anche per questo motivo ho voluto chiamare l’album “From Heart To Techno”, perché spazia dalle cose un po’ più emozionali, “per il cuore” e “per la mente”, a cose più dritte, “per le gambe”. Il libro invece è un’autobiografia, racconto come tutto è iniziato, da dove sono partito, raccoglie un sacco di aneddoti dai miei viaggi. Nel mio momento di apice non c’erano ancora tutti questi social media con cui oggi abbiamo la possibilità di condividere qualsiasi cosa in tempo reale, quindi gran parte delle cose che ho vissuto sono rimaste non raccontate, e ho pensato che fosse venuto il momento di renderne partecipe chi mi ha seguito nel corso degli anni e mi segue ancora oggi. E’ un libro molto illustrativo, ho raccolto moltissime fotografie dei party in giro per il mondo, delle prime gare DMC etcetera… Espongo i miei punti di vista sul mondo del djing, i management, la promozione degli artisti, parlo di me, parlo delle mie passioni, dei miei fallimenti, delle figate, delle puttanate, c’è davvero un po’ di tutto, credo che possa risultare abbastanza interessante da leggere.
Ti sei sorpreso nel riscontrare un interesse editoriale nei confronti di un’autobiografia scritta da un dj?
Mah guarda, credo che in questo particolare momento storico, un po’ tutti abbiano gli occhi e le orecchie puntate sul fenomeno dei disk jockey, anche, se vuoi, per il fatto che la figura del dj oggi goda parecchio della “confezione” scenografica che le è stata cucita addosso negli ultimi anni. Quindi no, direi che tutto sommato, questo interesse non mi ha sorpreso più di tanto.
Sai che a questo punto sono praticamente obbligato a chiederti una tua definizione di “techno”…
L’ultima volta che mi è stata fatta questa domanda, il mio interlocutore era Pete Tong, durante un mio Essential Mix di sette o otto anni fa. Gli risposi che per me, la techno deve essere sexy, perché se quando suoni in un club o ad un festival riesci a vedere davanti a te non solo uomini, ma anche molte donne, vuol dire che stai andando nella direzione giusta. Il mio punto di riferimento, in questo senso è senza dubbio Sven Väth, Sven in quindici anni che lo conosco e che lo ascolto, ha sempre avuto un grandissimo rispetto per le donne sui dancefloor, e in pista ce ne si accorge. E’ tutto un altro genere di “vibes”, come le chiamano qui, rispetto ad altri tipi di techno.
Tornando a parlare del tuo album, invece, non ho potuto fare a meno di notare parecchi riferimenti alla Mediterranean Progressive: mi riferisco a tracce come “Proximus” e “Komonster”, ma anche in “Lifeblood”, “Eterea”, “Left in My Bag” ed altre, le melodie, alcuni suoni e strutture lasciano chiaramente intendere il tuo background, che, a quanto pare, non hai rinnegato.
Assolutamente no, quello è il mio stile, come potrei rinnegarlo? Su quei suoni, su quelle melodie, ci sono finito perché sentivo di dover andare in quella direzione. Ho sempre avuto un grandissimo rispetto per quello che ho fatto, per le mie radici, e anche se i tempi cambiano, ho ancora bisogno certe cose, per quanto possano essere reinterpretate secondo i canoni attuali. Durante un set sento il bisogno di avere quei momenti di respiro, molto emozionali. Nei primi anni duemila vedevo gente in pista piangere dalla commozione, quando suonavo certi dischi, ho ancora bisogno di queste sensazioni, sia di darle che di provarle in prima persona.
E il remix che hai commissionato a Mark Sherry, invece, può essere inteso come un ritorno del sound BXR?
Mark lo conosco da quando, da ragazzino, veniva a sentirmi suonare al The Arches a Glasgow ed era sempre in prima fila sotto la consolle, è un ottimo producer, abilissimo in studio, e un bravo dj. Lui è innamorato di quel sound, e lo propone spessissimo, con suoni più moderni, sia nei suoi set che con la sua etichetta, la Outburst. Credo che lui sia la cosa più vicina alla BXR che ci sia in questo momento. La BXR per come era, rimarrà sempre una cosa unica, sarà impossibile farla tornare, quello che si può fare è attingerne come fonte di ispirazione, ed è quello che fanno in molti oggi, a partire da Mark. Ha remixato “Eterea”, una delle tracce di “From Heart To Techno”, è uscito fuori praticamente un disco “alla BXR”, ma con un sound fresco e molto attuale, è riuscito a trovare un equilibrio perfetto, senza che gli avessi dato nessuna delle parti originali, proprio per lasciargli la massima libertà.
Parlando con alcuni degli artisti nel giro della Media Records ho scoperto quanto avere dei tecnici e dei musicisti in studio, già al tempo fosse considerata la prassi: perché secondo te, oggi, quando viene fuori che un artista è ghost prodotto, o comunque si avvale dell’aiuto di collaboratori del genere, ne scaturisce un polverone e tutti gridano allo scandalo?
Guarda, alla Media Records c’erano un dj e un musicista fissi per ogni studio, poi tutto passava dalle mani del tecnico e infine veniva dato all’artista di turno. Lo sapevano tutti, è solo che oggi c’è molta più attenzione e curiosità verso questi tipi di gossip, rispetto ad allora, e spesso questa morbosa ricerca del pettegolezzo prevale addirittura sull’interesse nei confronti del prodotto finale. Poi ovviamente ci sono i casi dei ragazzini con le carriere costruite a tavolino dai management e dalle label, quello è piuttosto triste, ma non mi va neanche di parlarne perché sono cose che proprio non mi interessano. Ai miei tempi era piuttosto diverso, la credibilità te la guadagnavi dietro la consolle.
Proprio poco tempo fa, Giosuè Impellizzeri ha intervistato per noi Gianfranco Bortolotti, e alcune delle sue dichiarazioni mi hanno lasciato intendere che i rapporti tra la Media Records e alcuni dei suoi ex artisti non siano rimasti dei più rosei…
Mah guarda, io Gianfranco l’ho incontrato ancora quest’estate a Ibiza e mi ha proposto di prendere parte al suo progetto di lancio della “nuova Media Records”, che dovrebbe partire dalle rivisitazioni dei vecchi successi in chiave moderna, con un tocco EDM. Ho declinato l’invito, non è una cosa che interessa né a me, né tantomeno al mio management. Gli auguro tutta la fortuna possibile, anche se, per come la vedo io, avrebbe più probabilità di successo se tornasse in società con Gigi D’Agostino. La BXR vera e propria, invece, ha molto più appeal a livello internazionale di tutto quello che il marchio Media ha lasciato in eredità, ma con rispetto parlando nessuno dopo di me è riuscito a tenerla in vita e questo è un dato di fatto. Leggendo il mio libro capirete anche i motivi per cui la BXR ha, diciamo, “chiuso in bellezza”.
E quando dice che “dopo il suo abbandono, neanche artisti come D’Agostino o Picotto sono stati in grado di produrre dischi di successo”, come gli rispondi? Il ruolo del produttore e della casa discografica è ancora così determinante per il successo della musica, oggi?
Beh, mi sa che su questo ha un po’ la memoria offuscata. “Komodo” me lo sono prodotto da solo, tanto per dirne una. Oggi sono letteralmente cambiati i tempi, ora un disco di successo si produce in due mesi, al massimo. Sono cambiati i tempi della promozione, vent’anni fa dovevi spedire il disco dall’altra parte del mondo e aspettare settimane per un feedback, cosa che oggi si fa con tre click via email. Oggi il mercato è saturo di cose di bassissima qualità, e le case discografiche con un management forte sono le uniche che riescono a far sentire la loro presenza in modo consistente. Oggi ce l’hanno tutti con la Spinnin’ e la Ultra, ma perché, nel bene o nel male, dietro a questi colossi c’è qualcuno che sa fare andare le cose nel modo giusto per quel mercato, riuscendo a dare un valore al prodotto che propongono, anche con mezzi ambigui. Non è una cosa bella da dire, ma i numeri hanno sempre avuto ragione e purtroppo, o per fortuna, ce l’hanno ancora oggi. Dal punto di vista degli artisti, oggi invece è fondamentale far parte di un management, un dj senza management è come un calciatore senza squadra, semplicemente non gioca. Io stesso sono entrato a far parte di una agenzia, un anno fa, dopo un’intera carriera passata a gestire ogni aspetto in prima persona. Il pubblico molto spesso non se ne accorge, ma se ci fai caso non fai fatica a notare che i dj che suonano a determinati eventi, gira e rigira sono sempre gli stessi. Le case discografiche ormai ricevono i dischi belli e pronti e promuovono quasi solo prodotti già forti, che hanno già un seguito più o meno ampio. La vera differenza, ripeto, sta nel management.
Sei uno dei pochissimi, se non l’unico tra i dj di quel periodo che è riuscito a costruirsi una carriera internazionale. Qual è stato il tuo segreto, all’epoca? Perché secondo te gli altri hanno fatto molta più fatica a varcare i confini nazionali?
Ho avuto il coraggio di continuare a testa bassa, nonostante avessi ricevuto un sacco di schiaffoni morali da personaggi quantomeno discutibili. Alla Media Records, per esempio, c’era un certo signore che ogni tanto se ne usciva con frasi del tipo “ma dove cavolo vuoi andare, che tanto gli italiani non se li caga nessuno?”. Queste cose possono buttarti giù il morale, devi essere coraggioso per affrontare questi atteggiamenti in modo positivo, intuire chi sono questi personaggi ed evitarli completamente perché cercano solo di minare il tuo umore. Io ho sempre avuto il coraggio e la voglia di continuare a fare ciò che stavo facendo, nonostante tutto, andando a sbattere la testa contro un muro quando necessario, e alla fine il tempo mi ha dato ragione. Gli altri, forse ci hanno creduto di meno, o probabilmente sono più legati agli ambienti italiani, ai luoghi in cui vivevano. Io ho vissuto con il trolley, lo faccio ancora oggi, non riesco a stare nello stesso posto per più di una manciata di mesi anche adesso che ho quasi cinquant’anni, una moglie e dei figli. I vari Ralf, Coccoluto, Leo Mas, lo stesso Baldelli, che pure sono stati i primi talenti riconosciuti che hanno iniziato a esportare qualcosa, probabilmente non sono stati disposti a sposare quella vita fino in fondo, nelle modalità richieste da quei tempi.
Eppure anche tu sei uno molto legato alla tua famiglia, come hai conciliato la vita privata con l’essere uno che vive con il trolley?
C’è da dire che negli ultimi anni ho tirato molto i remi in barca. Sono dieci, dodici anni che faccio questa vita, ho sentito il bisogno di rallentare, senza pentirmi di nulla. Mi capitava spesso di pensare a questo durante i tempi morti, negli aeroporti etcetera… Pensavo “se quando torni a casa dopo tutto questo, non hai una famiglia ad aspettarti, non hai qualcuno da abbracciare, per cosa lo fai? Non ti rimane in mano niente”. I soldi, la barca, l’aereo privato, sono tutti “valori” che con l’età ti accorgi di quanto siano accessori di cui puoi benissimo farne a meno. Ci sono passato, mi sono divertito, ma poi ho realizzato che avevo bisogno di altro, ho bisogno di tornare a casa e trovare persone con cui ridere, piangere, confrontarmi, condividere le aspettative, le delusioni, le esperienze. Per me la musica è sempre stata al primo posto, ma non l’ho mai vista come un lavoro, passare le notti in studio o in giro a suonare non mi è mai pesato. E’ solo che a questa goduria si sono affiancate altre esigenze, altre emozioni, e a quel punto bisogna fare delle scelte, bisogna sacrificare qualcosa. Ora la maggior parte del tempo lo passo dedicandomi alla mia famiglia, e vado in studio solo quando sento la necessità di provare ad esprimermi attraverso la musica. Fare i dischi per il gusto di farli non mi interessa più.
Qualche giorno fa hai condiviso sulla tua pagina Facebook un articolo di Pitchfork che raccoglie una serie di testimonianze di dj della “vecchia guardia”, tra cui anche Daniele Baldelli che hai appena citato. Sei d’accordo, quindi, sul fatto che, come si diceva nell’articolo, i dj diano il meglio di sé una volta superati i quaranta?
Il discorso è molto semplice: i dj citati in quell’articolo, a partire da Baldelli che per me rimane il primo pioniere italiano, sono tutti abituati a suonare per tutta la durata di una serata, o quasi. Dall’apertura delle porte, fino a quando l’ultima persona non mette piede fuori dal locale. Perché quando hanno iniziato loro, quando ho iniziato io, si faceva così. Bisognava costruire l’atmosfera, ognuno secondo il proprio stile e secondo lo stile del locale. Set del genere ti facevano fare il giro del mondo, quando eri in pista. Gran parte dei dj di nuova generazione, soprattutto in determinati ambienti musicali, sono abituati a suonare in slot di una, massimo due ore, bombardare la pista con hit da Top10 e tanti saluti. Questi qui, a me, non la racconteranno mai. Quando raggiungi una certa maturazione, che può dipendere dall’età o meno, ti accorgi che questo non ti basta più. A me piacerebbe molto, ad esempio, che tutti i locali tornassero ad avere dei dj resident con le palle, che abbiano quasi pari rilevanza rispetto ai nomi grossi che i promoter si contendono per riempire i locali, l’esperienza dei fruitori ne uscirebbe senza dubbio arricchita. I giovani dj probabilmente questo non l’hanno mai sperimentato, quindi forse si, è uno dei tanti aspetti positivi della maturazione.
Tra le altre cose, nella tua carriera hai anche vestito i panni del promoter, prima con Meganite, poi con Alchemy Festival. Raccontaci un po’ di queste esperienze. Rivedremo il Mauro Picotto promoter, in futuro?
Guarda, io in realtà credo di non essere mai stato un bravo promoter, perché quando andavo a vedere i party degli altri mi accorgevo della grande differenza che c’era rispetto ai miei. Non era il mio lavoro, organizzare i party, non lo è mai stato, io faccio il disc jockey e il produttore come “secondo lavoro”, ma fare l’organizzatore è veramente difficile. Ne ho avuta l’opportunità, perché il Privilege mi era venuto a prendere dall’Amnesia, mettendomi a disposizione quello che al tempo era il club più grande al mondo. Anzi, era fin troppo grande, spesso dovevo chiedere di ridurre gli spazi. La promozione dei party la facevano loro, io prendevo i dj chiamandoli personalmente al telefono, senza bisogno di agenzie o manager. Mettere in piedi Meganite è stato relativamente facile, dal punto di vista artistico, grazie al mio intuito nel riconoscere i talenti emergenti o alle amicizie e al network che avevo. Il Privilege poi ha iniziato ad impormi delle scelte che non sposavo, quindi ho spostato tutto allo Space, dove sono rimasto per due anni, ma con risultati meno soddisfacenti. Ad Ibiza è così, non puoi essere mai certo di niente. Ogni anno vengono inaugurati venti nuovi party, molti dei quali non arrivano a fine stagione. Meganite, dal punto di vista musicale è stata una delle scelte migliori che abbia fatto in carriera, ma magari dal punto di vista imprenditoriale avrei potuto gestirne alcuni aspetti in modo decisamente migliore. Ripensandoci, ad esempio, avrei dovuto accettare la proposta dell’Amnesia di portare il party da loro, invece all’epoca ero molto scettico, per il fatto che avessero già il Cocoon ed altre serate techno. Invece poi hanno avuto tutti successo, pur facendo lo stesso genere, quindi probabilmente ci sarebbe stato spazio anche per noi. Io il business lo vivo da dj, non da imprenditore, avrei dovuto forse essere un po’ più lungimirante da quel punto di vista. Pensa che, per farti un esempio, la prima volta di Seth Troxler ad Ibiza è stata proprio al Meganite, lui magari non se lo ricorda neanche. Siamo stati dei precursori, abbiamo fatto crescere e lanciato tanti talenti, per certi versi, ma poi non siamo stati in grado di sfruttare al meglio queste idee vincenti, dal punto di vista imprenditoriale. Quando portavo i dj per la prima volta ad Ibiza, mi sentivo dire da José Maria del Privilege o da altri “ma chi cazzo sono questi che ci hai portato?”. Beh, vai a chiedere oggi chi cazzo sono Marco Carola, Chris Liebing, Adam Beyer, Maetrik, Paul Ritch, Seth Troxler o Joseph Capriati. Mi sono tolto parecchie soddisfazioni, da questo punto di vista, è stata una bella avventura. Comunque, sì, dal prossimo anno mi occuperò della direzione artistica di un festival che organizzano a Jersey dove vivo oggi, quindi potrò fare sicuramente delle nuove esperienze, ma di questo parleremo nel prossimo futuro.