Diciamo subito una cosa: “No Filter”, l’album che uscirà il 24 aprile 2020 sulla Rekids di Radio Slave, è per Marco Faraone un traguardo importante. In primis perché è un album bello. Molto bello. Soprattutto: molto coeso stilisticamente. Con pochi elementi, senza mai indulgere in effetti speciali, disegna una traiettoria ben precisa, a metà fra techno e house, ma mettendo in campo quello che spesso e volentieri si tralascia – un suono, uno stile, un’identità, e non solo la “funzionalità” da tool. Anzi, quest’ultima viene proprio a cadere, in favore invece di un discorso complessivo: perché sì, è un disco che va ascoltato dall’inizio alla fine per capirlo davvero, non è una mera collezione di “tracce fatte bene”. Per certi versi da un Marco Faraone una cosa del genere non ce la si aspetta. In questo momento la sua carriera da dj è in grande ascesa, nell’ultimo paio d’anni ha fatto proprio un salto di qualità sotto questo punto di vista e sì, ci si poteva aspettare che battesse il ferro finché era caldo. Non che smetterà di farlo; ma ha voluto ritagliarsi (anche) un’altra dimensione. Forse perché sta attraversando una fase della propria vita di grandi cambiamenti. Di questo, e di molto altro, abbiamo parlato in questa lunga, bella e sincera chiacchierata.
Senti: ti rendi conto, vero, di aver fatto una cosa incredibilmente demodé come un album? E intendo: proprio un lavoro che non è un insieme di tracce, non è un insieme di singoli (anzi, mi sa che non ne ha nemmeno uno…), ma ha invece una identità ben definita e una narrativa precisa dal primo all’ultimo brano.
E’ esattamente quello che volevo fare. Negli ultimi anni ho fatto uscire tanti EP: ecco, gli EP diciamo che sono qualcosa di – tra virgolette – meno impegnativo. Forse anche un po’ meno creativo, sì. Perché quando fai un EP, non devi creare un “viaggio” musicale. Devi semplicemente creare qualcosa che sia efficace: efficace sul mercato, efficace sulle vendite, efficace sul dancefloor. Un altro tipo di approccio, insomma. Fare un album è qualcosa di completamente diverso invece. Mentre lavoravo a “No Filter” ho anche fatto uscire un po’ di EP, ho lavorato insomma a trecentosessanta gradi; ma quando mi sono accorto che avevo una serie di tracce che stavano bene fra loro e che, soprattutto, messe in un certo modo una in fila all’altra potevano creare un certo tipo di flusso, lì ho capito che potevo costruire un LP vero e proprio, con tutti i crismi. Vero: “No Filter” non ha un singolo, non ha una hit che traina il progetto: ma questo perché non è stato concepito per vendere, è stato invece concepito per esprimermi. Per fare qualcosa di diverso.
Quindi: questo album è uno sfizio che ti sei voluto togliere, o un modo per riposizionarti o dare comunque una sfumatura diversa al tuo profilo come artista?
Chi mi conosce sa che sono un dj che suona di tutto. Sono versatile. Con questo progetto, volevo fare qualcosa di diverso: in primis, raggiungere delle sonorità che non avevo mai raggiunto prima. Sai cosa, questo album è nato in un momento particolare della mia vita, questo forse è il punto. Venivo da una lunga relazione, poi finita; da lì, in brevissimo tempo ho deciso di mollare tutto e trasferirmi a Barcellona. Questo era un sogno che avevo nel cassetto da tanti anni, trasferirmi nella capitale catalana, solo che per tutta una serie di questioni non avevo mai dato seguito a questo desiderio. Da Firenze, dove abitavo, ho preso la macchina e ho guidato da solo fino a Barcellona, in un’unica infilata, portandomi dietro il necessario. Ho lasciato famiglia e amici così, da un giorno all’altro. E’ stato tutto talmente veloce che all’inizio non sono riuscito nemmeno a metabolizzare la cosa – stava succedendo, e basta. L’ho pensato, l’ho fatto. Punto. Un cambiamento comunque felice, col sorriso, perché stavo andando in una città dove avevo sempre desiderato di andare, ma anche un cambiamento verso l’incognito, perché comunque si trattava di andare a vivere in una città nuova dove non conosci quasi nessuno. Con la necessità, poi, di organizzarsi da solo ed organizzarsi subito: trovare un posto dove stare, ad esempio. Ci sono riuscito trovando un piccolo appartamento a Barceloneta, niente grandi spazi, niente grandi studi dentro. Infatti il disco è stato prodotto tutto in camera, poi chiaramente per mixing e mastering mi sono spostato altrove; ma il disco di per sé è stato pensato e fatto tutto a casa.
Stando in una città nuova.
Già. Città nuova, appartamento nuovo. Appartamento tra l’altro preso in affitto da Gaetano Parisio. Gaetano è stato uno dei pochi ad incoraggiarmi fin da subito; mentre ero ancora indeciso, mi ha detto “Ma dai, vieni, tranquillo, se hai bisogno di qualcosa ci sono io”, e infatti nel momento in cui ho avuto bisogno di uno studio sono andato da lui: sai, nella fase di mixaggio ci sono alcune cose che non ti puoi sbrigare ascoltando in cuffia, hai bisogno di uno studio vero e proprio, e lui mi ha dato la disponibilità del suo studio ogni volta che ne avevo bisogno. Ad ogni modo, trasferirsi a Barcellona per me è stato come rinascere: rinascere come persona, ma anche come artista. Barcellona rispetto a Firenze è una città musicalmente parlando con più ampie vedute, ma al di là di questo ho lavorato a “No Filter” proprio con una attitudine nuova, con un approccio diverso. Forse più spontaneo, sì; senza preparare qualcosa prima in testa, ma dando più spazio e fiducia al “momento”.
Il fatto che ci sia di mezzo una rinascita vuol dire che qualcosa era morto, o stava morendo?
Nulla di morto ma forse mi stavo annoiando, quello sì. Quando viaggi tanto, suoni tanto, passi poco o nulla tempo a casa e nello studio, ti rendi conto che cerchi dannatamente di ottimizzare i tempi: produci cioè sempre qualcosa con uno scopo preciso, con l’idea di avere un risultato immediato e ben identificato. Ecco, credo che questa routine iniziasse ad essermi insoddisfacente, ad annoiarmi. E ho sentito l’esigenza di fare qualcosa di nuovo. Mi sono regalato una città nuova, una casa nuova, abitudini nuove, aria fresca. Stava morendo qualcosa in me? Non lo so, ma di sicuro mi stavo annoiando. Sono ancora relativamente giovane, ormai però sono tanti anni che faccio musica: era arrivato il momento di provare qualcosa di diverso, con questo secondo album.
Quando viaggi tanto, suoni tanto, ti rendi conto che cerchi dannatamente di ottimizzare i tempi: produci cioè sempre qualcosa con uno scopo preciso, con l’idea di avere un risultato immediato e ben identificato
Come mai la scelta di andare sulla Rekids di Radio Slave?
Pensa che inizialmente il disco non penavo di darlo a qualcun altro, l’idea originale era di farlo uscire su Uncage, la mia label…
Immaginavo.
Sì, volevo dare un progetto importante alla mia etichetta. Successivamente però ho pensato “Oh, io comunque con Rekids ho già instaurato un certo tipo di percorso, perché non approfondirlo?”: con loro avevo già fatto mi pare tre uscite e, in generale, mi sono sempre trovato bene con loro, col loro tipo di approccio. Rekids è un crossover tra techno e house, con anche divagazioni di altro tipo (per dire, ci sono anche uscite dub… e non solo). Hanno un range piuttosto ampio di artisti. Ecco, io mi trovo bene con tutto questo. In più, detto chiaramente, ero contento di poter avere con loro una piattaforma che potesse dare il giusto risalto a quello che stavo facendo con “No Filter”, la massima esposizione possibile insomma. Con Uncage non sarebbe stato il caso, probabilmente. Oh, prima che la mia piccola label diventi grossa ed importante come Rekids ce ne vuole! E sai, per gli artisti, per gli addetti ai lavori, uscire con un album su una etichetta rispettata come Rekids dà un indiscutibile valore aggiunto. E’ una vetrina più importante e più autorevole, e se sei lì la gente ti ascolta. Ti ascolta davvero. E io avevo bisogno di questo, proprio perché “No Filter” era qualcosa di particolare: deve essere ascoltato davvero. Perché uno dei problemi della nostra scena di oggi è che la gente ascolta poco. Sente, sì, sente parecchio, ma per ascoltare – ascolta davvero poco. Ascoltare un album significa mettersi lì, ascoltare tutto dall’inizio alla fine, non skippare, non sentire le tracce a salti. Devi dedicarci del tempo, devi dedicarci attenzione. “Oh, se esco su Rekids magari mi ascolteranno”, mi sono detto. Pretenderlo da una uscita su Uncage forse sarebbe stato un po’ troppo ambizioso… Insomma, ho mandato l’album a Matt e dopo due, tre giorni mi fa “Marco, questo disco voglio farlo uscire io, mi piace il suono che hai trovato. Facciamolo!”.
(eccolo, “No Filter”; continua sotto)
Avevi mandato il disco anche ad altri?
Inizialmente, ne avevo parlato con Ellen Allien. Io ed Ellen siamo molto amici, abbiamo un bellissimo rapporto. Ci siamo visti anche pochi mesi fa in vacanza, a Tulum, ma in generale ci vediamo spesso e abbiamo uno splendido rapporto di amicizia. Le avevo parlato dell’album, anzi, in macchina le avevo anche fatto sentire un paio di tracce. Ma è stata lei la prima a dirmi “Fallo uscire su Rekids”. Più precisamente: “Musicalmente ti conosco, ti conosco da tanto tempo: so come suoni, so in che direzione vuoi andare: penso che Rekids sia la piattaforma perfetta per valorizzare quello che stai cercando di fare con questo LP”. Le ho anche chiesto: ma se uscissi invece con Uncage? “Marco non fare cazzate, se Rekids te lo vuole stampare esci assolutamente con loro! Non per sminuire la tua etichetta, è bella, fa belle cose, ma Rekids ti dà un altro tipo di spessore. In questo momento della tua carriera, e partendo dal presupposto che loro ti diano totale libertà artistica come in effetti fanno, è perfetto uscire con loro”.
Uscire con un album su una etichetta rispettata come Rekids dà un indiscutibile valore aggiunto. E’ una vetrina più importante e più autorevole; e se sei lì la gente ti ascolta. Ti ascolta davvero
Ecco, appunto: “in questo momento della tua carriera”. Mi sembra oggettivo che, fra i dj italiani, sei uno di quelli negli ultimi anni maggiormente in ascesa, che più ha migliorato il proprio status.
Lo spero! Il lavoro è stato tanto. Io sono sempre stato molto ambizioso ma, allo stesso tempo, sono sempre andato per gradi, step dopo step. Chi mi conosce dall’inizio sa che ho passato diverse fasi, diversi scalini. Ho stampato dischi su decine e decine di label – probabilmente tutte le label che andavano di moda in quello specifico momento storico. Non lo dico da presuntuoso, attenzione, ma per spiegare che ho sempre fatto un grande sforzo per capire dove stava andando il suono, applicandomi per uscire sulle etichette più in forma, più efficaci – e fortunatamente, ecco, ci sono riuscito spesso. Ma non è semplice stare dietro a tutto questo, essere sempre attento, focalizzato. E’ anche questione di sapersi evolvere. E non c’è nulla di male in tutto questo, anzi. Certe volte senti dire agli addetti ai lavori “Io preferisco quello che so come suona, che si identifica in una linea ben precisa”: non so, io in questo non ci rientro, io sono e sarò sempre un’incognita, percorrendo strade diverse – naturalmente tutte interpretate e filtrate dal mio background personale.
Quali sono le mosse migliori che hai fatto e quali invece gli errori, in questo percorso giustamente ambizioso?
Le cose positive che ho fatto sono positive per me, magari per altri sono negative. E si riassumono appunto con: aver fatto sempre di tutto. Molti mi dicevano “Ma perché per certe cose non tiri fuori un alias, come fanno un po’ tutti?”. No. Io, se voglio fare un album downtempo per dire, lo faccio come Marco Faraone, non con un alias. Questo perché in un mio set può tranquillamente saltare fuori un disco classic house, o anche qualcosa di downtempo, o anche al contrario qualcosa di ferocemente techno: questo sono io, tutto questo sono io. E non posso né voglio essere quello che non sono. Perché se mento a me stesso, finisco col mentire anche alla gente. Non amo essere catalogato insomma con un solo genere musicale, e questo per me è positivo. Per altri, potrebbe essere un difetto. Mi permetto comunque di dire che per me, e sottolineo per me, fare solo una cosa è per certi versi poco artistico: perché nella mia visione delle cose un artista è colui che si evolve, che si fa influenzare dalle visioni. Prendi i pittori: loro si lasciano influenzare eccome dal periodo storico ed artistico in cui vivono! Nell’arco della loro vita cambiano stile più volte, pur mantenendo sempre il loro tocco. Sai, io non posso avere l’ambizione di essere rispettato come Jeff Mills. Non vengo da Detroit. Non vengo da Berlino. Non vengo da una città con una cultura ben definita e forte, innata proprio. Vengo da una città come Lucca, dove non c’era niente, dove non c’era una scena musicale, non c’era un club, niente, nulla. Sono nato suonando hip hop, poi drum’n’bass, poi house, poi commerciale, poi techno. Ho suonato di tutto. E questo è quello che sono sempre stato. Fin dall’inizio. Non posso pretendere di essere diverso da così: perché non voglio mentire a me stesso. Suonassi sempre solo un genere ben specifico, starei facendo una forzatura. Mi sentirei incatenato.
(continua sotto)
Quanto è difficile però far capire che il tuo non è un mero inseguire la “moda del momento”? Il confine è sottile. Se mi dici, come prima mi hai detto, “Sto cercando di suonare quello che è interessante ora” è chiaro che l’equilibrio giusto tra ricerca personale e inseguire le mode è fragile.
C’è stata una fase del mio percorso dove probabilmente volevo uscire ad ogni costo su certe label, ed inevitabilmente per riuscirci mi sono comportato di conseguenza, facendo i necessari aggiustamenti. E’ questione di umiltà: se vuoi uscire su certe label con una grande storia ed importanza, devi in qualche modo adeguarti a quello che fanno, impegnandoti con attenzione a farlo (…chiaramente, senza fare qualcosa in cui non ti riconosci artisticamente: quello non deve succedere mai). Alla classica domanda “Ma cosa deve fare un giovane produttore per farsi conoscere?” la risposta è inevitabilmente “Produrre, produrre, e cercare di piazzare un’uscita su una etichetta importante: perché questo ti dà visibilità, e la visibilità ti permette di iniziare a suonare in giro con regolarità”. Io questa fase l’ho attraversata tutta. Perché è necessario attraversare quella fase. Oggi il mio processo è inverso, fortunatamente: faccio una cosa, e poi posso mettermi lì a decidere a chi sia giusto mandarla.
Quando è accaduto questo switch?
Negli ultimi due anni, direi. E’ accaduto quando sono cresciuto musicalmente, quando ho assimilato determinate cose. Suono ormai da parecchi anni: ho visto cambiare le mode, passare i cicli. Prima la house, poi la minimal, poi quella che io chiamo la “fase Luciano”, poi l’improvviso ritorno alla techno. Questo stando all’Italia, ti parlo di quello che conosco meglio. Ora forse sta per arrivare un’altra fase ancora: quando finirà il lockdown da pandemia, che sta scombinando le nostre esistenze, nel momento in cui potremo tornare ad uscire ci sarà probabilmente una gran voglia di far festa. Meno incupimento, più sorrisi, più tracce con le vocal. Sì, prevedo un grande ritorno della house e, in parte, della tech-house. Ad ogni modo: avendo visto passare di fronte a me tutte queste mode e queste evoluzioni, ho avuto modo di volta in volta di assimilare parecchio. Ho visto cioè di tutto, ho prodotto di tutto, poi ad un certo punto mi sono sentito di dire a me stesso “E’ inutile stare sempre dietro alle mode, tanto poi cambiano”. Tanto, chi mi deve criticare mi criticherà comunque, e chi mi ama mi seguirà sempre: è inutile allora fingere fedeltà che non si hanno e continuare a suonare un po’ di tutto. Tra l’altro proprio in questi giorni sto lavorando ad un EP che uscirà quest’estate ancora su Rekids e guarda, sarà completamente diverso dall’album: sarà house. Sono già in evoluzione, capisci? Dopo il mondo di “No Filter”, sono già in direzione di un nuovo ambiente sonoro. Spero che questo sia apprezzato. Perché non è il percorso più semplice. Il percorso più semplice sarebbe seguire un format, quella è una cosa che puoi comunicare e veicolare molto più facilmente, mentre se cambi spesso ogni volta è un casino, ogni volta rischi di scontentare. Ma prendi Derrick May: ora, Derrick May è la techno, non ci sono discussioni su questo, no?, l’ha fondata! Eppure, se ascolti i suoi set, e io l’ho ascoltato tantissime volte, c’è un sacco di varietà, le tracce coi vocal non mancano mai, e in generale la sua techno è molto più “morbida” di quello che ora va per la maggiore. Eppure, puoi accusarlo di “non essere techno”? Lui? Che l’ha techno l’ha fondata? Non esiste, no? Il mio esempio sono dj come lui, come Laurent Garnier, che possono e sanno suonare di tutto, risultando sempre eleganti.
Se mento a me stesso, finisco col mentire anche alla gente
Ecco, faccio una damanda al Marco Faraone dj: qual è la differenza tra essere resident ed essere guest?
Io penso che la figura del resident sia fondamentale. Oggi purtroppo i resident sono sempre meno: perché i club sono ormai quasi esclusivamente basati sull’ospite, come contenuto. La figura del resident è stata completamente svilita e messa in secondo piano. Io sono stato resident per tantissimi anni, ho fatto tantissimi warm up, ho fatto una gavetta lunghissima. E chi mi conosce lo sa.
Infatti te lo chiedevo apposta.
In Toscana sono stato resident di tantissimi locali, anche storici (Kama Kama, La Canniccia, Frau Marlene, locali che hanno proprio costruito la scena così come la conosciamo), e pure all’estero ho fatto da dj resident, un anno in Belgio e due anni a Madrid. Per non parlare poi del Tenax, dove oggi sono una specie di “regular guest” ma per anni sono stato proprio il resident. Mi è capitato di dover fare l’apertura per ospiti che facevano disco o deep house, magari proprio nel periodo in cui io invece stavo uscendo per Drumcode. Bene: è stato istruttivissimo. Lì vedi l’importanza di aver sempre suonato di tutto, e dell’essere musicalmente di ampie vedute – lo ero allora, lo sono anche adesso. Quando sei resident, devi essere pronto ad ogni evenienza. E’ incredibilmente formativa, la cosa, e oggi purtroppo è una fase che bypassano invece in tanti… Ma non per colpa loro, eh, è che proprio non ci sono posti dove il resident viene richiesto e valorizzato. Vale soprattutto per le nuove generazioni, per chi ha meno di trent’anni. Ed è un peccato, perché come c’erano le nuove generazioni di talento un tempo, ci sono anche ora; solo che oggi non gli viene dato spazio e non gli viene dato il compito, formativo, della residenza. Un tempo la figura del resident era di capitale importanza, e spesso anzi accadeva – con Alex Neri ad esempio l’ho visto accadere più volte – che a chiudere la serata nel club era proprio il resident, non il guest. Oggi chi te lo fa fare? Chi? L’ospite si impone come quello che fa la chiusura, o se non lo fa lui direttamente lo fa la sua agenzia in sede di trattativa. Un tempo il dj resident era la figura che guidava musicalmente il club: il promoter ascoltava il suo, di parere, perché era il resident che suonava, comprava i dischi, conosceva la pista – tutte queste cose assieme. Oggi questo non accade. Il promoter fa di testa propria, non ha né vuole una figura forte come dj resident con cui confrontarsi e a cui far decidere l’indirizzo musicale.
Io non posso avere l’ambizione di essere rispettato come Jeff Mills. Non vengo da Detroit. Non vengo da Berlino
Parlando di queste dinamiche, ti faccio una domanda al limite sospetto del populismo: i dj guadagnano troppo? Perché si dice: i resident sono sempre meno, e già questo impoverisce ed ammazza la nostra scena, mentre i guest sono sempre più centrali e strappano cachet sempre più alti, rovinando ulteriormente il terreno. Oltre proprio alla domanda generica “Ha senso che un dj guadagni così tanti soldi per mettere dischi per un paio d’ore”.
I dj guadagnano troppo? Sì e no. Ci sono dj che pretendono cifre non giustificate e non giustificabili: quello sì. Vero. Però attenzione: anche i calciatori costano cari, carissimi. Però a vedere una partita di calcio, ci vanno ottantamila persone. E poi ci sono gli sponsor, i ricavi collaterali… Insomma: in generale, il dj come il calciatore non va valutato in astratto rispetto a quello che fa, ma rispetto piuttosto a quello che genera. Se un dj chiede cifre altissime, che regolarmente fanno perdere il promoter, quelle cifre sono sbagliate; se chiede cifre altissime, ma a fine serata il promoter regolarmente ci guadagna, il prezzo è corretto. Se un cliente è disposto a spendere 100 euro per sentirti, e i clienti in tutto sono tipo tremila e passa, è giusto che tu chieda una cifra proporzionalmente alta, altissima, al di là di quello che fai. Io su certe cose ho fatto proprio la guerra: perché a volte mi viene chiesto il favore di scendere col cachet, di “venire incontro”. Ora, non per essere presuntuoso, ma a parte casi isolati – che capitano a tutti – io credo di aver sempre fatto guadagnare gli organizzatori, mi sono sempre impegnato ad avere un rapporto spesa/resa onesto. Il mio cachet è cresciuto piano piano, non sono passato dal nulla da 1000 a 20.000 euro come vedo ultimamente fare a molti perché si sentono “di moda”. Si sentono “di moda”, ottimo, ma poi il promoter ci rimette: a chi giova tutto questo? Allora, tornando al punto, il mio discorso è: perché io ti devo “venire incontro”, quando invece vedo che ad un altro dai il doppio di quello che daresti a me anche se ti fa la metà della gente? Lì sì che mi incazzo. Vieni a chiedere i soldi a me chiedendomi di abbassare il fee, e poi usi quei soldi extra per fare una cosa su cui sai che ti schianterai? Ecco, così non va per nulla bene. Zero. Il dj costa troppo? Costa, cinquanta, sessanta, centomila? Se a fine serata ti fa guadagnare, vuol dire che il prezzo era giusto. E ha fatto bene a chiedere quei soldi.
Però spesso l’artista si disinteressa, o fa finta di disinteressarsi, di queste dinamiche. Demandando tutto alla sua agenzia. Ed è l’agenzia a fare il prezzo.
Il prezzo non lo dovrebbe fare l’agenzia, ma il mercato. Il problema è che c’è questo fenomeno di emulazione malata per cui “Eh, ma se lui chiede questo allora lo devo chiedere anche io”. Che riguardi l’artista o le agenzie, il problema sta esattamente lì. Chiedi soldi perché ti senti il “capo”, non perché puoi effettivamente permettertelo conti alla mano.
Sta agli artisti spezzare questa dinamica? Il lavoro delle agenzie, in fondo, è proprio quello di aumentare i profitti per i propri assistiti.
Io credo che, da artisti, bisogna essere consapevoli di quello che ti succede attorno. Io con la testa ci sto dentro, capisco le cose. Capisco bene quando è il momento di iniziare ad aumentare le richieste e quando invece è il caso di venire incontro. Chi mi conosce lo sa. E posso parlare di questo in maniera molto aperta, perché sono molto trasparente con tutti; così trasparente che posso tranquillamente dire che in certe zone e certe situazioni sì, chiedo di più rispetto ad altre, perché so che funziono meglio. Con molti promoter si è fatto un percorso ben preciso, si è cresciuti insieme, e si è cresciuti insieme perché non ci siamo mai fatti male né io né lui. La regola è questa: il promoter deve sempre poter guadagnare. Ma se vedo promoter che iniziano a spendere in maniera poco oculata, lì iniziano i problemi. Se ci sono artisti che ti fanno richieste sproporzionate, devi avere la fermezza per dire di no. Ma spesso non accade…
…esatto.
E questo fa sì che i prezzi aumentino talora senza una logica. Io, quando vedo che un certo locale fa scelte assurde, la volta dopo che mi chiamano a suonare mi sento autorizzato a chiedere più soldi; ma non perché voglio fare il matto o quello in ego trip, ma per una questione di correttezza.
Quasi per una “ecologia del sistema club culture”.
Quando passerà quello che stiamo vivendo adesso, questa brutta fase di lockdown, credo che ci sarà un riallineamento molto marcato. I promoter riprenderanno ad investire in maniera più consapevole. Ci sarà molta più paura a prendersi rischi inutili. Sicuramente il pilastro da cui ripartire sarà il dj col cachet giusto, che non ti espone a rischi inutili – a maggior ragione considerando che è ancora tutto da capire cosa succederà, a lockdown terminato, con capienze e misure di sicurezza, che potrebbero portare un aggravio di costi notevole e ad una erosione dei margini. Mi auguro davvero che ci sarà più consapevolezza. E mi auguro, tornando al discorso di prima, che si ridia più spazio e valore ai resident. Ripartiranno prima i club più piccoli: ecco, loro hanno bisogno di resident di qualità, è nella loro natura. In questo modo verrà data l’opportunità a tanti ragazzi talentuosi – perché ce ne sono eccome – di mettersi finalmente alla prova con continuità. Fino a ieri, se proponevo nuovi talenti con la scusa di uno showcase della mia etichetta mi dicevano subito di no, non erano interessati, anche se fossero venuti gratis. Ora le cose potrebbero cambiare; e sì, potrebbero cambiare in meglio. Io lo spero.