Se per i grandi club e le grandi situazioni il periodo è quanto meno controverso se non proprio difficile, vedi il caso Cocoricò o quanto scrivevamo proprio oggi sulla decisione del Guendalina di non riaprire l’anno prossimo in Salento), va detto che ormai in Italia c’è un network sempre più solido ed apprezzabile – anche se vive sempre sul filo, perché sono eventi che vivono su equilibri economici acrobatici e sottili e vengono nutriti in primis dalla passione – di festival più piccoli. Piccoli come numeri, non certo come contenuti. Ad esempio, è proprio bello vedere la crescita di Sparks, che si svolge questo weekend (23-25 agosto) a Putignano e, se siete in zone pugliesi, vi consigliamo assolutamente di non perdere, visto che quest’anno davvero ha alzato il livello come line up: ve ne parliamo per bene qui. Un artista che merita un sacco di attenzioni è Still, alias Simone Trabucchi, aka un coraggioso ed iconoclasta – ma al tempo stesso assai raffinato – agitatore culturale, che lavorando sulla musica senza paraocchi ma con inesauribile, vorace curiosità è riuscito a scrivere delle pagine davvero importanti. Come Dracula Lewis prima, col socio Simone Bertuzzi come Invernomuto poi, con la “cellula creativa” Hundebiss dopo (che ha reso Milano un posto musicalmente molto migliore in un periodo di stasi, anticipandone per certi versi la rinascita nel decennio successivo), infine ora con l’ultima incarnazione in Still, progetto che si è guadagnato le attenzioni della riveritissima PAN di Bill Kouligas (casa per artisti come Lee Gamble, Objekt…). In questa succosissima intervista uscita su Vice, opera di Federico Sardo, potete ricostruire tutti i tasselli. Ci siamo fatti qualche chiacchiera veloce con lui, a mo’ di warm up per affrontare Sparks al meglio. Chiacchiera veloce, ma con molti, molti spunti interessanti.
Se ti guardi indietro, arrivando fino ai primi anni 2000, quali sono le tappe più importanti del tuo percorso? Quali le più azzeccate, quali quelle che col senno di poi non ripercorreresti?
Molto difficile fare un bilancio ora, di certo non considerando il mio operato in termini di “carriera” mi risulta piuttosto astratto giudicare le scelte fatte. Credo che anche gli “oggettivi fallimenti” abbiano una certa importanza. Lavorando al di fuori da logiche più commerciali c’è un grado di liberà che ti permette si prenderti grossi rischi e avere la tranquillità di riderci sopra. O almeno diciamo che questo è quello a cui ho sempre aspirato: correre rischi col sorriso. Se cado, cercare insomma di farlo nel modo più acrobatico possibile.
Una costante della tua carriera è un’attitudine che ricondurrei alla scena punk e a quella hardcore storica, fatta di senso di comunità, di collaborazioni, di network che funzionano per la “fiducia” di far parte di una stessa (micro)scena e di una stessa attitudine: ha senso? E se l’idea è corretta, fino a che punto questo spirito è riuscito a mantenersi costante, nella scena musicale?
Credo che il senso di comunità fosse alla base di tutte le sotto/contro-culture storiche, non solo del punk/hc (anche se io vengo sicuramente da lì e, nello specifico, da una ben precisa declinazione di questo). Le comunità funzionano come l’intelligenza collettiva degli insetti: i generi e i micro generi solitamente si alimentano di vorticose collaborazioni che poi danno vita a forme inaspettate e straordinariamente funzionali (nel senso che vanno a soddisfare il gusto di una comunità: penso all’hardcore continuum per esempio, concetto che trovo ampiamente espandibile). Ora, di certo le comunità sono cambiate, così come i generi, che ho sempre trovato stantii e odiosi nella loro riproposizione revivalistica. Credo però che le comunità esistano tutt’ora, funzionino in modo trasversale e obliquo e continuino a basarsi su una grammatica e un attitudine condivisa.
Quanto è lungo il gap tra Dracula Lewis e Still?
Lunghissimo da un certo punto di vista: Dracula era la costruzione di un alter-ego, Still è la rimozione dell’ego. Molto corto invece dal punto di vista musicale sono sempre un “uomo di Neanderthal” della electronic music production.
Oggi Milano pare sulla cresta dell’onda, anche dal punto di vista musicale, e anche dal punto di vista delle musiche non strettamente commerciali. E’ effettivamente così migliore rispetto a quella del primi decennio dei 2000, quando sembrava ci fosse veramente poco ed Hundebiss pareva un vero e proprio “sparo nel buio”?
Penso che Milano dal punto di vista della cosiddetta musica sperimentale sia sempre stata ottima. Il lavoro fatto dal buon vecchio Ielasi, dai ragazzi di O’ / Die Schahtel e molti altri non è decisamente da dimenticare. Hundebiss nasceva in quel contesto come risposta più sgangherata ad una certa idea di sperimentazione, con aperture inaspettate che andavano dal metal al dub passando per il gabber. Ora Milano mi sembra stia cercando in tutti i modi di essere europea; come sempre meglio farlo cercando una identità e cercando di sfuggire alla “logica dell’evento” che, personalmente, ritengo il grande cancro di questa città. Gli spiragli sono buoni, la qualità della vita è ok se paragonata ad altre capitali europee, il lavoro da fare però rimane tantissimo.
Quanto c’è ancora da esplorare nell’interazione tra musica ed arte? Fino a che punto sono mondi che si possono compenetrare ed ispirare a vicenda, e quanto invece hanno pubblici e grammatiche differenti?
Non ho mai vissuto le due cose come divise. Ci ho provato, poiché scettico nei confronti di certi meccanismi; ma grattando la superficie e andando a fondo (lasciando da parte quelle piccolezze che hanno più a che fare con i contorni che con il nocciolo della questione), musica e arte si nutrono della stessa linfa vitale, ognuna ha sempre e da sempre e per sempre influenzato l’altra. Ci sono prospettive storiche che possono aiutare a leggerne le compenetrazioni, ma quello che interessa a me è invece provare ad immaginarne i sentieri futuri. Ci sono nuove geografie in atto che ribalteranno economie e categorie: e la sfida si gioca proprio sulla costruzione di altrettanto nuove grammatiche.
Foto di Guido Borso