Federica Ferracuti, alias Hu, è un grande, grande talento per la musica italiana. Lo avevamo pensato fin dalla prima volta che l’avevamo incrociata, allo JägerMusic Lab. Abbiamo continuato a seguirla con molto interesse, con la consapevolezza che non sempre i talenti – anche i più puri – riescono a sbocciare davvero. Ci vogliono molto componenti: la consapevolezza, l’etica del lavoro, in qualche caso anche la testardaggine, sempre e comunque un po’ di fortuna. Ma nell’ultimo anno lei è sempre più di sotto i riflettori, o anche coinvolta dietro le quinte in cose molto interessanti. Era insomma il momento giusto per farci una chiacchierata. Pochi giorni fa è uscito il suo nuovo singolo, “End”, col featuring di M.E.R.L.O.T., e poco prima un live piuttosto interessante che inizia a svelare davvero le sue enormi potenzialità. O meglio: le potenzialità era parecchio facile vederle già prima; è che ora Hu inizia ad essere davvero in controllo. E questa chiacchierata non fa che confermarlo, se la si sa leggere con attenzione.
L’ultima volta che ci siamo visti di persona era stato un po’ di tempo fa…
Sì, per lo JägerMusic Lab! Che bella quella esperienza… Poi lo sai, te lo ricorderai, io l’ho fatta due volte: un anno da concorrente, uno invece proprio nel team produzione. Al Lab devo veramente tanto. Io magari ero un po’ diversa rispetto all’identità musicale prevalente, che era molto “da club”, io ero l’elemento irregolare, ma conoscere gente come Luca Agnelli e, soprattutto, Luca Pretolesi è stata una esperienza fantastica. Pretolesi soprattutto mi ha dato un esempio e una quantità di stimoli eccezionale.
Conoscevi la sua “vita precedente”, come Digital Boy?
Un po’ ce l’ha raccontata. Ed io – lo ammetto! – oggi ogni tanto mi rivendo i suoi aneddoti, quando sono io nella posizione di insegnante, coi miei allievi, perché sono veramente incredibili (ride, NdI)… Da lì in poi, da quando io e te ci siamo visti l’ultima volta di persona, c’è stato prima un periodo a Roma, dove mi ero spostata, per poi però decidere di tornare a Milano.
Come mai?
Da un lato volevo terminare il Conservatorio, prendermi la Magistrale; dall’altra, volevo tornare più a fuoco sulla mia musica. Fuoco che, insomma, stavo perdendo.
E per recuperarlo, era necessario tornare a Milano…?
Non è fondamentale, guarda. Ma diciamo che Milano è una città che ti permette di fare tante cose, e ti dà tante opportunità. La più bella di tutte è stata quella di permettermi di conoscere le persone che poi sono diventate a tutti gli effetti il mio team e credimi, è veramente il team dei sogni! Comunque non è che mi sia passata la voglia di viaggiare, sia chiaro. Non è che Milano mi basti. Recentemente sono stata a Parigi e ad Amsterdam: e andare all’estero è stato, come sempre, qualcosa che ti apre la mente. Ho capito ancora una volta che l’Italia continua a essere un “recinto sicuro”, dove sì, puoi fare le cose, ma è e sarà sempre difficile sperimentare troppo. D’altro canto è anche questione di pubblico, che va educato: è un problema di lunga data. Io poi nei confronti delle mode e dei trend ho un approccio ben preciso, non li cavalco, li studio invece attentamente per cercare di prenderne gli elementi interessanti e da lì farli miei, cambiandoli però secondo il mio gusto personale. Il risultato, come puoi sentire, è questo strano equilibrio tra “nuova” classica, musica da club…
…e forma canzone, perché comunque c’è anche quella.
Esatto. Gli ultimi mesi li ho passati rinchiusa negli studi milanesi della Warner, che mi hanno ospitato, a lavorare duro. Arrivo da due anni veramente importanti per me personalmente: perché ho studiato tanto, e soprattutto da un certo momento in avanti mi sono concentrata nel tentare di capire di cosa avessi bisogno. All’inizio infatti ero confusa: sai no quando vuoi fare tante cose, quando vuoi fare tutto… classico errore! Vuoi fare tutto, ma solo perché non hai capito dov’è che esattamente sei felice, dove è la tua dimensione precisa. Poi ho iniziato ad incontrare Kosmi (Cosimo Carlucci, NdI), Flavia Guarino, è iniziata a formarsi la mia squadra; a loro si sono piano piano aggiunti Sabrina Fellace come stylist, ed Ilaria Narducci come art director. E’ come se fossimo una vera e propria start up: ci siamo messi lì, ci siamo organizzati, ci siamo divisi i compiti, abbiamo iniziato a lavorare. Musica, foto, video. Un vero e proprio hub creativo, ecco. E solo con del materiale già pronto, finito e rifinito abbiamo iniziato ad andare in giro a fare colloqui con le varie case discografiche. Alla fine abbiamo scelto la Warner perché abbiamo percepito parlando con Anna Rampinelli, la a&r, la voglia di scommettere su un progetto atipico per l’Italia.
Finito però ad un certo punto a Sanremo Giovani.
Ci siamo ad un certo punto ritrovati a Sanremo Giovani, sì, vero, ma non era una cosa aspettata o pianificata, e credo lo si possa capire dal fatto che “Occhi Niagara” non è propriamente un pezzo pop, ha anzi una scrittura molto personale. Insomma: non era un pezzo da Sanremo, davvero. Ma ti dirò: anche se alla fine non ho passato le selezioni e non sono finita davvero all’Ariston al Festival, come in fondo prevedibile, è stata una esperienza molto significativa e pure parecchio utile, ha portato infatti un po’ di attenzione verso il mio progetto. Ci vuole. Perché io di mio sarei molto silenziosa: vorrei solo lavorare, vorrei che il lavoro parlasse di per sé. Invece, ho capito che aprendomi un po’ poi le cose possono arrivare prima, e meglio. Cose concrete, eh, non solo complimenti o articoli su media generalisti: parlo di opportunità di lavoro molto importanti, artisti anche parecchio grandi che ti contattano e ti chiedono di fare delle cose con loro. Tutto questo ha anche permesso di lavorare nei mesi successivi con molta calma, senza l’urgenza di uscire. Questo è importante. In Italia spesso si tende a buttare fuori musica in maniera compulsiva: non ci si lavora tanto sopra perché l’importante è esserci, essere presenti, essere sul mercato. Non è il mio modo di fare. Né mio né del mio team. Anche perché quando fai così ad un certo punto è fisiologico che il marketing prevalga sulla musica. Invece deve essere l’esatto contrario.
Certo però che per “aprirti” così hai dovuto mettere da parte un po’ della prudenza, anzi, del vero e proprio scetticismo che – correggimi se sbaglio – faceva e forse fa un po’ parte del tuo carattere…
Vero. Io sono una grande rompiscatole. Già ero molto precisa di mio, ora forse lo sono ancora di più. Ma lo sono in un modo positivo, almeno credo: perché in teoria ci sono tante cose in cui un artista non dovrebbe entrare, di cui non dovrebbe occuparsi, ed in effetti qualche volta diventano una distrazione o la causa del perdere di vista le cose che contano davvero, ma alla fine penso che la consapevolezza più vasta possibile sia la chiave principale per fare le cose bene. Non è che lo scetticismo mi abbia abbandonato: ho preferito dire dei “No” ad un sacco di cose. In più di una occasione ho scelto il percorso più difficile. Sì, ora magari faccio parte del roster di una major, ma la mia attitudine nel fare musica – ed anche nel comunicarla – non è cambiata più di tanto. Il risultato? Per preparare un singolo magari ci mettiamo il doppio del tempo necessario, poi però quando esce siamo sicuri di essere davvero orgogliosi del risultato. Il che non significa sapere se andrà bene o no…
…anche perché quello non lo può sapere nessuno. Però è un dato di fatto che negli ultimi tempi il modo del pop italiano è diventato molto più ricettivo verso i progetti atipici (e più sincronizzati con la contemporaneità internazionale). Un tempo mettere insieme forma canzone e pulsioni da club era una roba assurda, da alieni, oggi sempre più artisti più o meno giovani iniziano a farlo.
Le cose che avevo fatto quando avevo diciassette anni – le trovi ancora sul mio Soundcloud, è il mio EP a nome “Rubik” – erano finite ad un certo punto sul tavolo di una persona che lavorava in Universal che aveva detto “Se questa cosa la fai in italiano, sei la prima a farlo: pensaci”. All’epoca infatti cantavo in inglese, lo switch verso l’italiano l’ho fatto solo molto dopo. Ma una cosa è certa: già a sedici, diciassette anni – e qualcuno se lo ricorderà – giravo ovviamente a suonare in club piccolissimi ma già mi portavo dietro tutta una serie macchinoni, di synth, insomma, mi “complicavo” le cose in modo insensato. Ma ci tenevo a fare le cose in un certo modo. Ero l’unica? Eh vabbé, pazienza. Ma ora però mi prendo la soddisfazione di sentirmi dire “Fede, in effetti tu sei stata la prima a seguire un certo tipo di via…”. E lo facevo quando avevo diciassette anni. Figurati se non lo faccio adesso.
(Tra club, canzone intima e neo-classica: Hu live oggi; continua sotto)
Però ancora adesso c’è una separazione abbastanza netta – anche se meno netta di prima – tra il pubblico del circuito del club e dei dancefloor, e il pubblico del circuito dei live.
Ne sono consapevole. E infatti proprio questo stato delle cose è stato uno dei miei punti di partenza al momento di riconfigurare il progetto: non per adeguarlo o semplificarlo, attenzione, ma per costruire bene il mio live. C’è una parte da “nuova classica”, una da club, e la forma-canzone che attraversa tutto: il mio set dal vivo parte piano, poi va in crescendo fino a diventare molto denso, e poi verso la fine “respira”, si svuota. Per arrivare a fare questo, molti brani ho dovuto riarrangiarli in chiave più da club o, altra faccia della stessa medaglia, più da neo-classica. E’ molto bella come sfida artistica, perché prendi lo stesso elemento – la canzone – e provi a fargli assumere più forme, ciascuna in grado di toccare corde diverse e, quindi, anche pubblici diversi, almeno potenzialmente. L’ideale naturalmente è arrivare ad un perfetto punto d’unione, in cui questi steccati non siano più percepiti e non ci siano più. Ammiro molto il percorso di Giorgia Angiuli, lei è fantastica – e credo per certi versi abbia fatto qualcosa di simile, nel combinare linguaggi diversi. Ad ogni modo, la live session che abbiamo fatto uscire recentemente legata ad “Occhi Niagara” credo sia un buon esempio di quello che ho in testa. Mi ha aperto altre porte e messo altri occhi addosso questo live; ma tanto ora a breve devo partire in tour con Emma Marrone…
Ah!
Un po’ completamente a caso, mi sono proposta io per questo tour. Lei mi seguiva già, ho scoperto, ed alla fine sarò nella sua band suonando il piano, i synth, alcuni parti di chitarra, perfino l’ukulele… Pensa che una delle prima date sarà all’Arena di Verona: io manco l’ho ancora mai vista di persone, ma già a vederla in televisione mi emozionava in modo assurdo, pensa come sarà essere lì su un palco! (sorride, NdI) Vero: sono in una band, con un ruolo da gregario, ma ho scoperto che anche questo può essere un processo molto stimolante. Studiarmi tutti i pezzi da fare – sono tantissimi! – è stata una palestra non da poco. Ti arrivano gli stems, tu li devi riarrangiare un po’ ad orecchio perché non è che ci siano degli spartiti a tua disposizione, devi insomma tirarti tu giù tutto, capire dove potresti infilarti e, al tempo stesso, stare attenta a rispettare ciò verso cui va la produzione complessiva. Negli ultimi anni Emma si è affidata molto a Dardust e ha fatto delle scelte coraggiose per essere l’artista mainstream che è, l’ammiro molto per questo.
Ma il fatto di stare sul palco con lei non rischia un po’ di “sporcare” il tuo personaggio, di incasellarti in una scorciatoia pop che non è detto ti appartenga o che sia da te voluta?
Essere coinvolta in questa cosa di Emma mi ha investito di molto senso di responsabilità. E questo è importante. Quando ho parlato col referente delle mie parti sonore, nella band, ho chiesto: “Quanto margine ho?”. La risposta è stata: “Ci siamo fidati di te, Dardust ti conosce e ti ha approvato. Quindi devi assolutamente essere te stessa”. Il risultato è che nel preparare tutto quanto ci ho messo talmente tanta cura e amore che alla fine mi sono detta “Cavolo, dovrei imparare ad essere così puntigliosa anche quando lavoro sulle cose mie…”.
E’ un’ottima palestra, insomma.
Mi vogliono tutti bene, c’è un gran rispetto reciproco. E questo in una produzione che è veramente grande, complessa, con tanti ruoli ben distinti: anche imparare a conoscere questa modalità di lavoro è parecchio interessante, entri in contatto con dimensioni che non avrei mai immaginato. Sai cosa comporta tutto questo, anche? Imparare ad essere più confident sul palco. Entrando poi più nel tecnico, il lavoro che ho fatto per riconfigurare i synth mi servirà poi anche per i miei live personali. Ma al di là tutto ciò, fammi dire una cosa più generale.
Vai.
In un periodo in cui tutto giocoforza è stato fermo, ho capito che se le cose non vanno tu non è che devi stare fermo a lamentarti, no, devi avere la forza e il coraggio di reinventarti. Se ti fai trascinare dagli eventi, avrai sempre qualcosa o qualcuno che ti tira giù; se invece gli eventi li sai affrontare con coraggio e spirito d’iniziativa, non solo te la vivrai molto meglio ma anche, molto facilmente, ti capiterà di imparare cose nuove, di lavorare meglio e con più attenzione. Insomma: lavorare su se stessi. Sempre. Troppo spesso capita che uno si concentra più nel voler dimostrare agli altri che è bravo così com’è, invece di lavorare su se stesso per essere bravo davvero ed esserlo sempre di più – ed essere bravi davvero significa migliorarsi costantemente. Significa studiare, prepararsi, e farlo a testa bassa, senza farsi distrarre da altro. Se fai così, ad un certo punto vieni sempre premiato.
Puoi anche decidere di stare a testa bassa a lavorare a migliorarti isolandoti da tutto, ma il “rumore di fondo” del pubblico non può non arrivarti, per quanto tu possa essere ancora un’artista di nicchia… Ce n’è stato anche attorno a te…
Qui entra in campo la comunicazione. Meglio comunicare poco, a piccole dosi. Però sono una che legge tanto. Legge tutto. Tutto quello che viene scritto su di me.
Ah!
Sì (ride, NdI)… Anche quello che mi dicono di non leggere, perché “…eh ma poi ci resti male, lascia stare dai”. Io invece leggo tutto. Se non sei solido e consapevole, chiaro che ti può prender male; e se te la prendi male, poi inizi a fare le scelte sbagliate. Ma il punto è che capire perché qualcuno non ti apprezza può essere un esercizio eccezionale, molto molto utile. Io, quando sono nel ruolo di insegnante, dico sempre ai miei allievi: “Ascoltati le produzioni della top 50 di Spotify, tutte, nessuna esclusa. Ascoltati sia la roba che ti piace che quella che non ti piace. Cerca di capire di ogni singolo brano perché è riuscito ad arrivare così in alto, negli ascolti, e fanne tesoro. Anche e soprattutto delle cose che non ti piacciono“. I gusti sono soggettivi, ma certi riscontri sono oggettivi. Però ecco, se tu dici che una cosa mia non ti piace, io sono molto curiosa di capire cos’è che non ti convince. Voglio vedere il meccanismo del tuo ragionamento e del tuo giudizio, capire da cosa nasce.
Un paio d’anni fa non mi avresti mai detto una cosa del genere.
Vero! Mi sarei chiusa in me stessa alla prima critica, come un riccio (sorride, NdI)… La musica è un percorso molto complicato. Davvero, lo dicevo prima: se non arrivi ad essere solido e consapevole, ecco, meglio che ad un certo punto lasci stare…
Foto di Ilaria Narducci