E’ una bella storia, quella dei Retina.it, il duo partenopeo composto da Lino Monaco e Nicola Buono che, fin dagli esordi a cavallo degli anni duemila, ha deciso di percorrere una strada musicale non proprio facile, profondamente legata al concetto del “Do It Yourself” e con l’attenzione ben tesa, sia alle avanguardie che in tutti i campi della cultura cercavano di scorgere il prossimo futuro, che a quei produttori europei che avevano iniziato a declinare l’elettronica in modo diverso, oggi diremmo “irregolare”: da un lato l’idm di stampo warpiano, dall’altro certo rigore rumorista di casa Rastermusic. Nel mezzo, i Retina.it, a tenere alta la bandiera italiana, tra umori futuristi e strumenti auto-costruiti, inseguendo un’utopia in continua evoluzione. In tempi recentissimi sono stati inseriti nel catalogo Raster, occasione che ci è parsa più che ghiotta per riannodare i fili del tempo e farci raccontare ciò che è stato, ciò che è, e anche un pizzico di quello che sarà.
Mi piacerebbe partire da voi due piccini. Come vi siete avvicinati alla musica? Intendo prima di tutto da ascoltatori.
Lino: Non vivendo in una famiglia di musicisti, quello da ascoltatore è stato l’unico modo per avvicinarmi alla musica. In questo cammino ci sono state due figure “pedagogiche”: da una parte mio nonno, amante dell’opera (ne conosceva molte a memoria) che era sempre lì ad ascoltare la radio, e dall’altra mio padre, che aveva una raccolta di 45 giri (come si chiamavano allora, e non 7”) che sin da piccolo generavano in me molta curiosità. E infatti ero sempre al giradischi ad ascoltare quello che andava per la maggiore nella musica popolare degli anni 60: ricordo ad esempio Enzo Jannacci, Sergio Bruni, Frank Sinatra, George Gershwin.
Nicola: da piccino piccino, i primi ascolti sono stati quelli mutuati da mia sorella, che comprava i dischi e li metteva in casa, roba tipo Duran Duran, A-ha, oppure il pop italiano dell’epoca. Crebbi ascoltando molta radio, ma le radio italiane non offrivano grandi alternative quindi mi ritrovai appassionato di dance music. A circa 14 anni intrapresi il mondo del djing: selezionavo musica su giradischi di fortuna e mangianastri durante le feste tra amici. Frequentavo un paio di negozi di dischi nella nostra zona (Pompei ndr) e acquistavo la roba che trovavo sugli scaffali, principalmente acid house e italo-disco. Poi comprai i mitici giradischi Technics 1200 e un mixer e cominciai ad affinare gli ascolti e ad essere più esigente sull’acquisto della musica. Decisi anche di fare acquisti per corrispondenza, arrivando alla techno di etichette romane come l’ACV e a cose della napoletana UMM. Ricordo, però, che in quel periodo andava già forte la techno più dura e veloce che arrivava dalla scena riminese, come quella di Doris Norton e del figlio Anthony. Ma è quando acquistai dei dischi della Minus Habens che per me ci fu la vera scossa. Capii che esistevano altri mondi. Decisi di cambiare rotta vendendo piatti e mixer, comprai un campionatore della Roland, un computer Atari 1040 e un synth della Davoli. Tra le altre cose, fu proprio grazie ai dischi della MH che conobbi Lino Monaco, che passava musica in un locale dalle mie parti, mettendo esattamente quei dischi che amavo tanto, che fecero quindi da collante per iniziare assieme un percorso che ci ha portato alla fondazione del progetto Quiet Men. Pensare che uno dei nostri primi brani fu pubblicato proprio su una compilation della Minus Habens, “Outer Space Communication Vol.4”!
Mi aspettavo un’adolescenza all’insegna della new wave o dell’hardcore-punk. Non era quella la musica che imperversava a Napoli durante la vostra adolescenza?
Lino: Beh, sì, capita che ad un certo punto prendi consapevolezza, e scegli in prima persona. Quello che di certo non mi è mai mancata è stata la curiosità e la voglia di cercare “il nuovo”. La stessa curiosità che fece sì che i miei primi 45 giri acquistati furono “The Robots” dei Kraftwerk e un altro paio di LP dei Krisma. La new wave iniziò ad arrivare quando frequentavo le scuole medie. I mezzi di comunicazione erano pochi, e lenti, a quei tempi, ma le giuste amicizie mi stimolavano a curiosare. Ad esempio avevo un compagno di classe figlio di una scozzese, che dopo le vacanze estive a Glasgow dai nonni, tornava sempre con qualche chicca, tipo Bauhaus, Crass e così via. A Pompei c’era un solo negozio di dischi e il massimo che riuscivo a trovare erano i 45 giri della Cramps Records: una serie che ai tempi era chiamata “rock ‘80”, che riunivano gruppi come Kandeggina Gang; Kaos Rock; Skiantos. Ricordo a memoria lo slogan usato per pubblicizzarli: “se hai sangue nelle vene, se hai midollo nelle ossa, sono finite le tue pene, con il rock avrai la scossa”, che è anche il testo di un brano degli Skiantos. Questi gruppi hanno rappresentato i miei ascolti fino ai 13-14 anni. Poi, con il passare del tempo, verso i 15-16 anni, iniziai ad andare a Napoli, accompagnato da amici più grandi, e lì scoprii negozi con dischi da sogno, come quelli dei Siouxsie & The Banshees; Talking Heads; John Foxx. Non ero ancora in età da uscite notturne e le cose accadevano in città, non nel paese in cui vivevo. Ma una cosa è certa: a quei tempi la wave e il punk erano linguaggi per pochi, anche in una città come Napoli, che a mio vedere, tranne qualche rara eccezione come i Bisca e gli Underage, era ancora legata al blues degli anni 70.
Nicola: Ahimè, la mia età e le mie frequentazioni non mi hanno permesso di vivere l’esplosione del punk e della new wave, generi che ho riscoperto soltanto dopo l’incontro con Lino. Furono piuttosto la dance degli anni ‘90 e l’acid house, come detto prima, a catturare e tenere viva la mia attenzione.
Qual è stato, invece, il vostro primo contatto con la musica elettronica?
Accadde negli anni ’70, quando tutti i programmi tv facevano uso della cosiddetta “musica funzionale”. La Rai, per sopperire ai grossi costi di produzione musicale, aveva ideato già a partire dagli anni ‘50, sotto la spinta di Luciano Berio, lo “Studio di fonologia musicale”. Quindi, per paradosso, soprattutto grazie a un medium di massa come la TV, che usava spesso sonorizzare i suoi programmi con atmosfere elettroniche, siamo cresciuti con la consapevolezza che un certo tipo di musica, aliena e fuori dal mondo, poteva trovare una sua collocazione. Però fu solo a partire dagli anni ’80, grazie al fatto che i sintetizzatori divennero più economici e quindi abbordabili dai più, che tutta la musica, anche quella pop, subì l’influenza dell’elettronica. Dunque, il nostro non è stato un avvicinamento “postumo”, bensì è stato un vero e proprio crescere con determinate idee ed influenze. In quegli anni, a differenza dei giorni nostri, tutto ciò che parlava di futuro lo percepivi come qualcosa che non aveva alcuna corrispondenza con il passato. Si viaggiava molto di fantasia per dare dei connotati “fisici” a ciò che veniva raccontato dalla Sci-Fi, come quando William Gibson ipotizzava un “sistema di reti” o un “corriere di dati”, noi non avevamo riferimenti od oggetti della nostra contemporaneità con i quali ottenere una rappresentazione sostitutiva. Oggi le cose stanno diversamente, ed è come se il futuro avesse dei contorni molto più definiti.
Arriviamo al 1999 dei Retina.it. Inizia una storia di sperimentazione, anche audace, che arriva fino ai giorni nostri. Se vi guardate indietro, quali sono le tappe che reputate più importanti?
Non siamo così sentimentali, al punto da trovare tappe più importanti di altre nel nostro percorso. Abbiamo semplicemente lavorato su noi stessi, costantemente, per cui ogni esperienza è stata fondamentale: cambi di stile, le diverse pubblicazioni, i live importanti, quelli meno importanti, le piccole “catastrofi” anche. Non si costruisce un’identità artistica con pochi elementi, ma con tutto il possibile, anche con l’aria che si respira. Poi, chiaramente, ci sono stati momenti più belli di altri, carichi di emozione e di adrenalina. Come l’avventura di essere messi sotto contratto dalla Hefty Records, e tutto quel periodo in cui eravamo a stretto contatto con John Hughes (co-fondatore, assieme a Dan Snazelle, dell’etichetta ndr) a cui vogliamo un bene enorme. Ci accolse come fratelli. Ecco, forse questa può essere definita una tappa davvero importante, e probabilmente lo è stata più di tutte. Recentemente, abbiamo l’impressione di stare vivendo un’esperienza simile con Donato Dozzy, ma questa è la situazione attuale, quella che viviamo oggi, ed è in costante evoluzione. Probabilmente ne riparleremo nella prossima intervista… tra dieci o quindici anni!
(I Retina.it con John Hughes; continua sotto)
Un percorso, quello dei Retina.it, passato per tante buonissime etichette: la già citata Hefty Records di Chicago, la vostra Mousike Lab, la spagnola Flatmate/Störung, l’italiana Glacial Movements Records e, notizia fresca, la tedesca Raster! Raccontateci le vostre sensazioni per essere approdati su una label che, a dire il vero, vi sarebbe calzata a pennello già nel duemila.
Beh, pensa che “Flex” di Frank Bretschneider (brano dell’album omonimo, prodotto con il moniker Komet ndr) per noi è stato illuminante. Nulla di ciò che avevamo ascoltato prima poteva essere lontanamente accostato alla sua estetica “wire-frame”, così strutturale e segmentata del suono. Sì, c’erano già gli Autechre e i Pan Sonic, giusto per fare due nomi, ma per noi lui era diverso da tutto e tutti. Ed è da lì che scoprimmo quella che allora si chiamava Rastermusic, una label che pareva irraggiungibile, sia come sonorità che come luogo fisico. In realtà, era un obiettivo al quale puntavamo, ma di certo non ci siamo messi lì a lavorarci con paranoia. In tutti questi anni avremmo spedito giusto un paio di demo, che purtroppo non ebbero un riscontro da parte loro. Poi, però, capita che il caso ti dia una mano, anche se “i casi” non sono mai del tutto fortuiti. Capitò che Frank acquistò il nostro “Semeion” nel 2007 e ci lasciò un feedback su Myspace. Potete ben immaginare quale fu la nostra reazione! Da lì in poi vi fu della corrispondenza via e-mail; qualche sporadico incontro sul palco, tra cui quello dello Storung (un invito che gli facemmo per farlo presenziare con un live al nostro micro-festival pompeiano “Sonic Subsidence”, che all’epoca era ancora in fase embrionale e che nella nuova edizione vedrà ospite Olaf Bender aka Bytone); la sua saltuaria compagnia a Berlino per bere un caffè e passare la serata assieme nei club dove suonavamo e, infine, la sua recente richiesta di avere del nostro materiale. Non lo abbiamo mai stressato per fargli ascoltare la nostra musica, questo è certo, ma non per spocchia, ma solo perchè noi siamo fatti così.
(I Retina.it con Frank Bretschneider; continua sotto)
Parlateci della vostra etichetta personale, la Mousike Lab, che avete aperto nei primi anni del duemila e poi messo in stand-by. Può definirsi un capitolo chiuso?
Gestire un’etichetta comporta un impegno notevole. In quegli anni ideammo la Mousike Lab assieme a Marco Messina (99 Posse / Nous ndr), soprattutto con l’intento di pubblicare la musica del nostro progetto a tre chiamato “Resina”. Furono anni intensi, pieni di soddisfazione, che sfociarono in una serie intensa di live tra cui quello in cui condividemmo lo stage con i Kraftwerk al Neapolis del 2005. Ma in tutto questo, successe che, per restare concentrati sul lavoro che la label ci richiedeva, smettemmo di produrre musica con l’assiduità e la concentrazione che avevamo di solito, ragion per cui, dopo la quinta pubblicazione, decidemmo di tirarci fuori, lasciando l’etichetta nelle mani del solo Marco.
Torniamo sulla compilation “Sichten Vol. 1”. Frank Bretschneider ha selezionato tre vostri pezzi: “Horses”, “Rodeo” e “Gauchos”. Si tratta di produzioni nuove, giusto? Mi piacerebbe sapere che strumentazione avete usato per realizzarle.
Ci chiedi di trovare un’uscita dal labirinto della nostra vita produttiva. Non possiamo risponderti perché non sappiamo esattamente cosa dire. Quando entriamo in studio, mettiamo in moto una sorta di gioco: usiamo tutto ciò che al momento ci sembra utile, ogni suono e/o rumore, prodotti da qualunque arnese, quindi il risultato non è mai riconducibile a singole macchine. Ad ogni modo, ultimamente stiamo lavorando molto su un synth modulare DIY, costruito da Nicola. I brani che sono stati inseriti nella compilation sono stati composti negli ultimi due anni. Non smettiamo mai di riempire i nostri hard disk con nuove produzioni e ad essere sinceri per “Sichten Vol. 1” inviammo sei brani all’attenzione di Frank. Ne avremmo potuti mandare anche altri, ma pensammo che quelli erano i più vicini alla loro estetica.
Il vostro suono, seppur multiforme, conserva alcuni caratteri dell’idm che fu. Ricordo che al primo ascolto di “Semeion” rimasi colpito dalla struttura che eravate riusciti a dare alla vostra musica. Allora vorrei chiedervi se sognavate o sognate ancora di approdare alla Warp Records, che di certe sonorità può essere considerata l’etichetta simbolo.
La nostra esperienza con la Warp consiste nell’invio di due demo in totale, nell’anno antecedente e a quello subito conseguente la nostra esperienza con la Hefty Records, poi basta. Siamo sempre più convinti che il miglior modo per farsi ascoltare è semplicemente l’esserci, il lavorare costantemente e seminare. Ma in tutta onestà, manco più ci pensiamo alla Warp. Anzi, se all’epoca poteva rappresentare un faro, oggi questa torre dal potente fascio luminoso, indica delle coordinate lontane rispetto a quella che è la nostra rotta. Ci sono tante altre etichette che troviamo molto più contemporanee. Per riallacciarci, invece, alle sonorità di “Semeion”, quella seconda metà degli anni zero fu densa di emozioni. I diversi inviti da parte di John Hughes, che già possedeva un modulare enorme (noi non ne avevamo mai visto uno in vita nostra) ci portarono a sperimentare in quella direzione nella creazione dei suoni. L’ultima volta che ci incontrammo, nel 2008, ci fermammo dieci giorni per registrare delle sessioni nel suo studio di Chicago. Dormivamo lì dentro, accampati in quell’ambiente super confortevole e quando mi svegliavo trovavo già Nicola attaccato ai cavi nell’atto di “patchare” moduli. Ne venne fuori anche un progetto insieme chiamato Brood XIII del quale furono pubblicate due tracce in digitale per Hefty Records via iTunes. Lo presentammo anche dal vivo al Communikey Festival di Boulder, in Colorado!
A proposito di attività dal vivo, ricordo di avervi ascoltato a Roma ad un Dissonanze Festival, ma di essermi perso la vostra esibizione al Sónar, se non erro era il 2006. Che ricordi avete di quelle date?
Ricordiamo bene l’esperienza al Dissonanze, era il 2002 e il pubblico italiano era poco abituato a certi suoni. Purtroppo durante la performance di Biosphere c’era un vociare che copriva il suo suono sottile ed etereo, tanto da indurre Geir Jenssen ad abbandonare la sua postazione. Invece al Sonar eravamo lì con la crew di Hefty, tra cui Josh Eustis dei Telefon Tel Aviv (con cui siamo ancora oggi in contatto costante). Che trasferta!
Davvero non credevamo di farne parte, tant’è che anche un noto scrittore-giornalista non si accorse che c’eravamo: infatti lui, in collegamento radiofonico con l’Italia, raccontava del festival nei minimi dettagli, ma non menzionò la nostra presenza, tra le pochissime realtà italiane invitate a Barcellona. Sarà stata distrazione? Io non credo: a un attento professionista avrebbe dovuto saltare all’occhio che in un festival internazionale come quello, dove la presenza italiana era stata quasi nulla in precedenza, c’erano due tizi che portavano disgraziatamente nel loro nome quel “.it”. Ancora viviamo nel dubbio che la sua fu una scelta anti-coloniale, dato che noi rappresentavamo in quel contesto una label statunitense!
Il vostro processo produttivo è frutto anche di strumenti auto-costruiti che emettono suoni inconsueti. Ecco, questa idea di “artigianato sonoro” si sta un po’ perdendo, in favore, per esempio, dell’alta definizione. Non è per forza un male, ma mi interessano le vostre considerazioni e magari qualche aneddoto sul vostro “periodo artigianale”.
Lino: Capisco ciò a cui ti riferisci ma ci sono per fortuna ancora tante persone a cui piace smanettare con i saldatori e che sniffa i fumi di stagno, auto-costruendo strumenti elettronici. Attorno a noi gravitano diverse realtà del genere, quindi colgo l’occasione per segnalarvi due ragazzi che sono diventati dei veri professionisti nell’assemblaggio di strumenti fai-da-te: Pier Giuseppe Mariconda e Luigi Cicchella (in arte Prg/m e Ruhig). Definirei la loro arte “empirismo associato a un’innata capacita sensoriale”.
Nicola: Nel nostro studio ci sono ancora aggeggi costruiti oramai decenni fa con lo scopo di differenziare il suono dei Retina.it da quello degli altri produttori elettronici, per allontanarci dai soliti marchi che commercializzavano sintetizzatori e drum machine. L’idea di fondo è sempre stata la personalizzazione dell’oggetto sonoro, quindi della nostra musica, anche attraverso l’utilizzo di macchine dagli evidenti errori di costruzione. Capita che le cose suonino male, almeno secondo gli standard, ma nel nostro contesto spesso ci stavano – e ci stanno ancora oggi – a pennello. Sono stato sempre affascinato dall’inventiva degli intonarumori di Luigi Russolo, per esempio, e anche da tutta la scena industrial o, ancora, dal suono unico che producevano i Pan Sonic grazie alle loro macchine uniche. Oggi il discorso cambia e anche il costo abbordabile per la realizzazione di macchine elettroniche ed elettroacustiche, vedi siti che vendono kit in bustine con dentro tutto il necessario, danno l’idea di nient’altro che di una costruzione lego. Secondo la mia opinione tutto ciò ha poco a che fare con l’artigianato e l’inventiva, è un bel gioco, sì, ma è anche diventato un grande business. Tranne pochi esempi, si è persa la vera essenza del DIY e della ricerca.
Mi piacerebbe entrare “virtualmente” nel vostro studio di registrazione. C’è qualcosa che vi ispira e favorisce il processo di scrittura?
Dipende tutto dal nostro stato d’animo. Non arrivi in studio con un motivetto da sviluppare, ma giusto con delle sensazioni sfumate, frutto purtroppo o per fortuna, della quotidianità, che talvolta può essere pesante e inclemente, come del resto lo è la natura della vita in senso lato.
Lasciate decantare il materiale che producete oppure per voi vale il “buona la prima”?
Diciamo che la seconda è la nostra tazza di caffè.
Cosa vi piacerebbe fosse più presente nella musica contemporanea?
Meno ego e più apertura mentale, quindi meno scimmiottamenti e più autenticità. Ci piace fare il paragone con gli anni ’80, quando la parola d’ordine era risultare “diversi”. Ecco, oggi sentiamo tanta musica che pare preconfezionata.
Cosa state ascoltando, invece, di buono?
La musica dei nostri amici: Matter; Ruhig; Plaster; Prg/M; Donato Dozzy. Ma anche quella delle label che ci gravitano attorno: Spazio Disponibile; Semantica; Subsidence; Hidden Tape; Raster. Ce n’è di più, naturalmente, ma non possiamo menzionare tutto ciò che ci piace, magari aggiungiamo Belief Defect; Rrose; Sendai; Von Grall; Evigt Morker.
Dateci un nome a testa di un vostro disco del cuore, il primo che vi viene in mente.
Lino: “Sick Soundtrack” dei Gaznevada, ma non è il solo, giusto perché lo sto ascoltando da qualche giorno incessantemente. La musica è un’entità che non si ingelosisce se ami contemporaneamente più suoni. Sono un poligamo in questo senso, non me ne vogliano Wall of Voodoo, Ultravox e John Foxx.
Nicola: l’intera discografia dei Pan Sonic, non mi annoia mai ascoltarla.
Nuovo materiale in arrivo?
Una valanga! Davvero, considerato che abbiamo attivi anche due progetti paralleli. Uno che si chiama r2π e ci vede coinvolti assieme ai già citati Ruhig e Prg/m. Inoltre, a breve pubblicheremo uno split EP insieme a Mike Parker su Subosc, un EP su Unità Psicofisica (che includerà due remix da due nomi importanti) e un secondo EP sulla Midgar Records del nostro caro amico Jacopo Severitano, che segue “The Library of Babel”, il primo 12’’ già pubblicato nel giugno 2017. L’altro side project si chiama Le Officine di Efesto e vede la nostra collaborazione con Donato Dozzy, con il quale abbiamo già licenziato su Spazio Disponibile l’EP “The Elements”, ma abbiamo in cantiere un altro po’ di materiale da pubblicare, frutto di stimolanti sessioni di registrazioni fatte nel nostro studio all’ombra del Vesuvio. Mentre i Retina.it hanno in cantiere ancora altre uscite, ma è un po’ presto per annunciarle tutte. Le scoprirete solo seguendoci!
(I Retina.it con Donato Dozzy)