Allora, ce lo diciamo da soli: c’è qualcosa di profondamente inutile, o forse proprio sbagliato, nell’inquadrare il ritorno dei Club Dogo lanciandosi in un paragone letterario, parlando insomma di libri e di scrittori ed usandoli come metro di paragone ed interpretazione. Il Dogo è per la gente, no? E non per gli intellettualismi stantii e polverosi… se proprio polvere dev’essere, che sia tipo la bamba. Però ecco, attenzione: lo scrittore che vogliamo tirare in ballo è però Bret Easton Ellis, una figura discussa e controversa nel mondo più tradizionalmente intellettuale e letterario, e il libro in questione è l’ultimo che ha fatto uscire, il monumentale “Le schegge”, un libro dove di cocaina, violenza e imbruttimenti ce n’è abbastanza…
…ed anche un libro bello, importante. Come bello ed importante è questo ritorno dei Club Dogo, sì. Sia Ellis che il trittico composto da Gué, Jake e Don Joe hanno fatto però la stessa cosa: sono tornati per spiegarsi. Di più: sono tornati, ok, e sono riusciti sia a fare un’opera che sta gran bene in piedi di per sé e scorre perfettamente, sia a dispiegare perfettamente e minuziosamente i propri meccanismi di scena, l’origine dei trucchi del mestiere, del proprio modus operandi narrativo ed emotivo. Esattamente come nelle “Schegge” di Ellis, in questo ritorno dei Dogo oltre alle storie in sé protagoniste dell’opera ci sono stampate a chiare lettere le istruzioni per l’uso per decrittare finalmente e definitivamente l’autore. Tipo: ecco, mo’ vi spieghiamo definitivamente come funziona la nostra poetica, come maturano le nostre posizioni apparentemente più malate e stronze.
Ellis ne ha tirato fuori una cavalcata epica da oltre 700 pagine, i Dogo più sparagnini – il tempo è denaro, cristiddio, e a Milano bisogna fatturare – si sono limitati ad uno stringato album di 34 minuti. Ma la ragion d’essere dei rispettivi lavori è, semplicemente, la stessa. Se non avevate capito i Dogo, ora non avete più scuse; e se continuate a non capirli e/o a prenderne il lato più superficiale e scandalizzante, vuol dire che proprio non ce la fate. Per certi versi, la ricreazione è finita e il tempo magico in cui potevi fare di tutto e di più senza rendere conto a nessuno – anzi, più provocavi e meno eri capito dai benpensanti e dai puristi meglio era – è finito, e ora senti la responsabilità di mettere sul tavolo le carte. Di spiegare cioè quello che fai, come lo fai, perché lo fai. Ti rendi conto che lo devi a te stesso, alla tua storia, al destino che con gran culo e gran lavoro t’ha arriso, lo devi alla legge morale che c’è dentro di te.
(Tre esponenti della nuova scuola milanese di filosofia kantiana; continua sotto)
Ovviamente i Dogo (ed Ellis pure) lo fanno con stile, con consumatissimo mestiere, e non in modo pedante e pedagogico da discorso mattarelliano all’inaugurazione dell’anno scolastico. Strappano ammirazione, per quanto perfetti sono gli incastri, le scelte, le citazioni di se stessi, non c’è nulla che sia fuori posto in “Club Dogo”. Chi ne parla come di una “grattata” – e ce n’è, in giro – secondo noi sbaglia di brutto e parla per ignoranza, pregiudizio o semplice voglia di attirare l’attenzione. Ci vuole infatti impegno, e non il pilota automatico, per fare un disco così compatto, così lucido, così preciso e calibrato nel descrivere & sviluppare l’immaginario di sé. Le grattate sono le strofe buttate lì un po’ a caso e senza troppo pensarci, tanto per riempire le barre e far emettere le fatture, e il cielo sa quante ce ne sono in giro in questi anni (e quante ne hanno fatte gli stessi Dogo); in questo album invece c’è sempre una direzione chiara, una pittura complessiva precisa, uno sviluppo narrativo delle immagini e delle rime affilato e chirurgico nella sua essenzialità, senza parole fuori posto.
Esattamente come ne “Le schegge”, ad un certo punto però subentra il “Sì, va bene, ho capito”. Non va nascosto. Ellis rimedia mettendo un po’ di ricarico di suspence nella trama, i Dogo invece mettendo i brani più interessanti e particolari proprio in fondo alla tracklist, delle sane variazioni sul tema dove spicca soprattutto la griseldiana e velenosissima “Tu non sei lei”, a parere di chi scrive una delle cose più particolari e belle mai fatte dai Dogo. Lo span d’attenzione del 2024 non perdona però: a vedere i numeri su Spotify, le prime tre tracce del disco hanno il doppio di ascolti delle ultime tre, e sappiate che chi per deficit d’attenzione, impazienza o mancanza di rispetto ha progressivamente disertato l’ascolto completo dell’album, beh, si è perso qualcosa. Si è perso forse la parte più gustosa.
Il problema è che del gusto e della sostanza forse non gliene importa più a nessuno. Si è più qui, oggi, per celebrare l’idea e il concetto di Club Dogo, e quanto questa idea e questo concetto abbiano saputo attecchire nell’immaginario collettivo anche a costo di diventar macchietta (…o proprio perché sapeva diventar macchietta?). Fa sorridere vedere dieci Forum sold out e un San Siro subito dopo annunciato, con corsa al biglietto già partita, quando invece al massimo del loro successo per i Dogo era già un successo riempire l’Alcatraz, che come capienza è un quarto del forum ed un ventisettesimo di San Siro, parlando sempre di venue milanesi. Ma era ancora la fase in cui la gente e l’Italia tutta non era ossessionata da Milano, dall’immaginario tracotante del rap, dalle frequenze grasse dell’urban, dall’immaginario da ganassa che già all’ombra della Madonnina è un po’ ridicolo ma in fondo filologicamente e sociologicamente corretto, fuori da Milano è invece proprio teatrino e regressione infantile. Solo che nel frattempo Gué e Jake, coadiuvati da Don Joe, hanno visto il loro personale film diventare non più finzione narrativa ad uso interno e voglia d’evadere la noia e la normalità, ma proprio una sorta di Tavole Della Legge per chiunque voleva provare il brivido dell’emozione di una “vita spericolata” e sì, stiamo citando Vasco Rossi non a caso. Ci sono meccanismi simili – giusto riaggiornati al nuovo millennio, al mondo dei “bro” e dei “fra” – tra il culto che circonda il Blasco e quello che via via è cresciuto attorno ai Dogo. Un simile grado di identificazione, vissuto dai protagonisti – Dogo e quello di Zocca – con un misto di soddisfazione pasciuta e di sottile (auto)ironia, con la seconda che raramente viene colta dai fan. Non solo dai fan più sempliciotti, anche da quelli più raffinati ed intellettualmente preparati (…che peraltro sono spesso le groupie più convinte e focose dei Dogo, nell’eterno rigurgito del postmoderno di questi tempi in cui devi dimostrare che ami e conosci sia la cultura altissima che quella maranza e bassa).
Tutti infatti a citare cose tipo “Togliete i piedi dal tavolo / I capi sono tornati a casa”; quando in realtà per come la vediamo noi l’immagine più folgorante e rivelatrice dell’intero disco è quando Gué saetta sarcastico parlando di sé e del suo outfit standard “Seicento grammi di collana / Mo’ c’ho la scoliosi”. Del resto stiamo parlando di un disco fatto da padri di famiglia quarantenni che vanno verso i cinquanta e che si godono, giustamente, i frutti del loro talento. Ancora abbastanza in gamba e credibili per portare avanti il film, ma ormai troppo maturi ed adulti per non darne in giro un po’ di spiega, un po’ di istruzioni per l’interpretazione onde dimostrare al mondo ed a se stessi di non essere dei pirla, miracolati, ma gente con storia e spessore.
Dieci anni fa i Dogo non avrebbero fatto un disco così, erano sulla cresta dell’onda, se ne fottevano di tutto e di tutti; l’avrebbero invece fatto – e l’hanno fatto – ai loro esordi, nei primi anni, quando sentivano ancora il dovere non solo di stupire e provocare ma anche di spiegare le loro reali intenzioni e la loro reale identità. “Club Dogo” è quindi per molti versi una chiusura del cerchio. Pratica impegnativa, sbrigata tuttavia in una decina di brani raramente più lunghi di tre minuti e che quasi si prendono dei rischi o dei detournement, pur essendo tutti come già scritto di qualità ineccepibile. Basta così? Certo che basta così. Provateci voi, a diventare un monumento quando in realtà volevi solo essere uno che sfuggiva la noia e un destino da soldatino borghese inquadrato: c’è chi perde la testa – e la creatività, e il mestiere – per molto meno. Da qui in poi cosa succederà? Vasco Rossi sono anni che non fa un disco convincente davvero (ne ha già fatti abbastanza, dai). I Dogo, una volta passati gli stadi e gli onori e i “Bentornati, eroi!“, vedremo.
PS. Sicuramente, se mai qualche fan terminale del Blasco arriverà a leggere questo articolo, sarà già indignatissimo ed inferocito per il parallelismo: speriamo che negli anni i Dogo si costruiscano una fan base meno ottusa, diamoci un po’ di ottimismo per le sorti dell’umanità e delle fandom nel nuovo millennio